Savgal Inviato 4 Agosto Autore Inviato 4 Agosto “Il clamore e i sofismi dei mercanti e dei produttori persuade facilmente il popolo che gli interessi privati di una parte, e di una parte subordinata, della società, siano l'interesse generale di tutti.” Adam Smith _________ Diversi economisti e giuristi, la gran parte proveniente dall’Università di Chicago, insieme ai legali delle grandi imprese coinvolte in cause antitrust, svilupparono un nuovo corpus di principi. La tesi di fondo era che per garantire il funzionamento del modello del capitalismo liberista occorreva mettere di da parte la priorità alla concorrenza e al mantenimento di un gran numero di imprese. La nuova teoria economica guardava con favore alle grandi imprese con posizione dominante sul mercato. In tutte le fasi della sua evoluzione questo approccio, che intendeva tener lontano il governo dall’economia, fu sostanzialmente politico. I due giuristi accademici Robert Bork e Richard Posner, fautori del capovolgimento della politica antitrust, furono nominati giudici dal presidente Ronald Reagan e la sua amministrazione sostenne il progetto neoliberista con diversi interventi legislativi. Il concetto di libertà di scelta per i consumatori fu sostanzialmente messo da parte, anche se la Scuola di Chicago non si è mai preoccupata di evidenziare pubblicamente questo aspetto. Per il progetto neoliberista occorre porre al centro della questione ciò che offre al consumatore le maggiori possibilità di scelta non ciò che essi effettivamente desiderano. Tali possibilità aumentano se si incrementa ricchezza generale dell'economia. Se acquisendo aziende più piccole un'azienda più grande genera vantaggi di efficienza, ciò pur riducendo la varietà di scelte per i consumatori, massimizza il “benessere” dei consumatori stessi. Pertanto i tribunali dovevano dare priorità alla soluzione che massimizzava il benessere, e non necessariamente la scelta, del consumatore. La nozione di “consumer choice” è di stampo democratico, lascia la decisione al consumatore. La nozione di “consumer welfare” è un concetto tecnocratico, poiché sono giudici ed economisti a decidere che cosa sia meglio per i consumatori. È anche un’idea paternalistica, poiché conduce allo “Stato balia” ed è in contrapposizione all’individualismo che caratterizza la cultura statunitense. Il benessere del consumatore è una nozione collettivista anziché individualista, a dispetto di tutta la retorica individualista e anticollettivista che permea questo filone del pensiero economico americano. Un approccio imperniato sulla tesi per cui le fusioni e le incorporazioni che portano alla nascita delle imprese giganti non possono che accrescere l’efficienza, è del tutto a favore della grande impresa. Le tesi in questione danno per scontato che un'impresa tenterà di acquisire un’altra impresa solo se è certa di poter accrescere l'efficienza e i prezzi offerti per le azioni dell’azienda scalata rifletteranno queste aspettative. Le ricerche empiriche hanno messo in dubbio questo assunto, mostrando che l’aumento dei profitti che si verifica dopo una scalata può anche portare a una minore efficienza. Le tesi neoliberiste non considerano che le grandi aziende sono più efficaci nel distribuire, pubblicizzare e diffondere i propri prodotti anche nei casi in cui quei prodotti sono qualitativamente inferiori a quelli di imprese più piccole. Ma questo fatto, mentre è assai problematico per l’idea di “consumer choice”, è irrilevante su quello di “consumer welfare”. Che l’inadeguata informazione dei clienti li induca più facilmente ad acquistare i prodotti delle grandi aziende qualitativamente inferiori, ciò che è rilevante è laumento dei profitti delle imprese e della ricchezza totale, da cui conseguirebbe il “consumer welfare”. La legislazione a tutela dei consumatori prende spesso di mira queste prassi, ad esempio quando sii approvano degli standard comuni in fatto di informazioni o affinché le imprese operanti in industrie “di rete” aprano le proprie piattaforme ai concorrenti. I comportamenti delle imprese in questi casi rivelano chiaramente cosa farebbero se fossero prive di vincoli, e come in effetti si comportano quando scoprono nuovi campi di applicazione di standard. L’obiettivo non è la protezione dei consumatori, ma la massimizzazione del proprio profitto, a scapito degli interessi soggettivi dei consumatori. L’approccio dell’antitrust aveva come elementi di riferimento gli interessi che la struttura dell’ordine economico doveva salvaguardare: quelli degli azionisti, quelli avvertiti dai consumatori, la sopravvivenza di piccoli e medi imprenditori. Nel dilemma di quale esigenza tutelare fra quelli azionisti nel cercare fusioni abbastanza grandi da consentire a una impresa d'imporre standard a un mercato, o gli interessi delle imprese minori che per entrare nel mercato devono poter usare reti e standard, o gli interessi dei consumatori che vorrebbero la massima possibilità di scelta il neoliberismo ha semplificato notevolmente il quadro, proclamando che un'impresa deve operare unicamente al servizio degli azionisti. Privilegiare gli interessi degli azionisti funziona se, a parità di condizioni, si ipotizza una situazione di concorrenza perfetta. In un mercato puro gli azionisti possono massimizzare i propri interessi solo se i consumatori sono soddisfatti, altrimenti costoro si rivolgeranno ai concorrenti. Ma con la riduzione della concorrenza il quadro cambia. Tra le grandi imprese e tutte le altre imprese sul mercato esistono importanti asimmetrie di informazione. Sono queste asimmetrie a creare gli spazi che consentono alle grandi imprese comportamenti che massimizzano gli interessi degli azionisti, ma non quelli dei consumatori. Non si può postulare che gli interessi dei consumatori possano essere demandati alla massimizzazione degli interessi degli azionisti. Vi è poi la questione che se l'impresa si trova in posizione di quasi-monopolio che la pone al riparo dalla concorrenza, tenderà a preoccuparsi soprattutto degli azionisti ed ignorerà gli interessi dei consumatori. A queste considerazioni la Scuola di Chicago risponde con tre argomentazioni, incentrate rispettivamente sull'efficacia di una concorrenza limitata, sugli effetti distributivi e sull'intervento pubblico. La prima tesi è che può esserci concorrenza aggressiva anche tra poche imprese giganti. Perché si possa parlare di concorrenza sono sufficienti pochi produttori intenti a togliersi quote di mercato a vicenda. Per la Scuola di Chicago sono sufficienti tre imprese, se invece sono meno di tre, i neoliberisti ammettono la soluzione tradizionalmente prevista dalle norme antitrust, ossia il frazionamento delle imprese in questione. Questa posizione sottovaluta il fatto che, quando le imprese sono poche, esse possono collaborare tacitamente tra loro. Un gruppetto di poche grandi aziende capaci di scambiarsi segnali deboli, non rilevabili dalle autorità che vigilano sulla concorrenza, ha le stesse possibilità strategiche di un’unica grande azienda in posizione di monopolio. Gli esponenti della Scuola economica di Chicago pur ammettendo la possibilità che le imprese adottino simili prassi, sostengono che è preferibile concedere loro il beneficio del dubbio per non offrire al governo il pretesto di intervenire sul mercato, che è considerato il peggiore dei mali. Vi è un’altra tesi della Scuola di Chicago, quella relativa agli effetti distributivi, che ha anch'essa implicazioni riguardo all'intervento pubblico. Secondo gli economisti di Chicago un aumento generale della ricchezza di una economia massimizza il benessere dei consumatori: lo dimostrerebbe il fatto che una riduzione della ricchezza non può accrescerlo. Essi si disinteressano deliberatamente di come la ricchezza venga distribuita e di quali soggetti la possiedano. Per fare un caso-limite, immaginiamo che una serie di fusioni aumenti l'efficienza di un'industria, ma riduca la concorrenza provocando un aumento dei prezzi al consumo o un peggioramento dei servizi alla clientela. Se si assume la tesi che la ricchezza assicurata agli azionisti dagli incrementi di efficienza sia superiore a quella persa dai consumatori a seguito dell'aumento dei prezzi, gli economisti di Chicago sosterrebbero che tale aumento è compatibile con un incremento del benessere dei consumatori, in quanto l'economia in generale è più ricca. All’osservazione che è cosa ben diversa se la ricchezza effettiva va nelle tasche degli azionisti o in quelle dei consumatori, essi risponderebbero che si tratta di una mera questione distributiva, priva di rilevanza per la teoria economica. È pur vero che ci sono buone ragioni per preoccuparsi della distribuzione della ricchezza, ma è un tema che non rientra nella scienza economica e riguarda invece l'intervento politico.
extermination Inviato 4 Agosto Inviato 4 Agosto La situazione è “tragica” per il semplice fatto che sempre più famiglie, fatte di consumatori, faticano sempre più ad arrivare a fine mese; altro che benessere, riservato ad una minoranza in diminuzione.
Savgal Inviato 4 Agosto Autore Inviato 4 Agosto @extermination Negli USA il salario minimo era più alto a fine anni Sessanta del secolo scorso di quanto lo sia ora. Il conflitto di clssse c'é, ma come disse Buffett, sono i ricchi che la stanno vincendo.
Savgal Inviato 5 Agosto Autore Inviato 5 Agosto IL PARADOSSO DEL POTERE STATALE NEL PENSIERO NEOLIBERISTA Paradossalmente gli economisti di Chicago, pur indicando nell'intervento politico l'unica soluzione possibile ai problemi di distribuzione della ricchezza e al raggiungimento di qualsiasi altro fine non perseguibile attraverso la massimizzazione degli interessi degli azionisti, considerano tale intervento la peggiore delle eventualità possibili, e ben più nociva di un comportamento delle imprese restrittivo nei confronti dei consumatori. Per comprendere questa profonda avversione, occorre tener presente l’ostilità della cultura statunitense nei confronti dell'intervento statale (ad eccezione dell'ambito militare). Questa ostilità che ha trovato la sua formulazione intellettuale nella teoria politico-economica della scelta pubblica (public choice), nata nella Scuola di scienze politiche dell'Università della Virginia. Tutte le attività statali, o quasi, sono presentate come espressione dell'egoismo e della volontà di autoaffermazione dei politici e dei titolari di cariche pubbliche. Secondo questa concezione, qualsiasi proposta di sviluppare un servizio pubblico non avrà nulla a che fare con il merito del servizio in questione, ma solo con l'intenzione di politici e amministratori di ampliare la propria sfera clientelare. Gli esponenti della public choice giungono a conclusioni analoghe a quelle dei loro colleghi di Chicago: più mercato possibile, e più alla larga possibile dal settore pubblico. L'approccio combinato Chicago-Virginia ci lascia in un grave dilemma su questioni come la distribuzione della ricchezza, l'inquinamento e i danni all'ambiente Questi non sono temi di pertinenza delle imprese, le quali devono occuparsi di massimizzare i ritorni per gli azionisti, e se si intende intervenire su simili questioni ci si deve rivolgere alla politica. Ma essi sostengono che dalla politica non è possibile attendere nulla, poiché i governi nel migliore dei casi sono incompetenti e nel peggiore corrotti e pensano esclusivamente ai propri interessi. A questo punto non vi è alcuna possibilità di criticare ciò che fanno le imprese, per quanti danni possano arrecare a qualsiasi interesse o valore irrilevante per gli azionisti. Si ripete che quanto avviene sul mercato è sempre e solo questione di scelta individuale, ma al Scuola di Chicago ha ridefinito tale scelta in modo da farla coincidere, de facto, con ciò che è più gradito alle grandi imprese. Vi è un altro paradosso della Scuola di Chicago, il suo riferirsi spesso al diritto, nonostante i profondi sospetti che nutre verso l’intervento pubblico. I neoliberisti distinguono nettamente tra diritto e governo, che è una distinzione in teoria possibile nei sistemi anglosassoni basati sulla common law, secondo la quale le interpretazioni giurisprudenziali volte a favorire gli accordi tra le parti, evitando di chiamare in causa l’intervento pubblico, concorrono alla formazione del diritto. La Scuola di Chicago giunge a sostenere che spesso non occorre nemmeno rivolgersi ai tribunali, e che le controversie in fatto di proprietà possono essere risolte dalle parti in causa, se adottano un approccio economico. La disponibilità di una delle parti a comprare l'assenso della controparte segnala in modo attendibile dove si trova il punto di equilibrio tra i vari interessi materiali e, con esso, l'efficienza generale. Fatto curioso è che la maggior parte degli esempi citati dagli economisti di questa scuola a proposito del diritto della concorrenza guardi soprattutto al mondo manifatturiero e rurale tradizionale, e non invece ai settori tipici dell'economia di fine Novecento-inizio Duemila. Gli esponenti della Scuola di Chicago sono consapevoli delle questioni che possono sorgere quando le imprese si coalizzano per creare cartelli anti-competitivi formali o per esercitare pressioni sui politici. Paradossalmente, i rischi di commistione tra potere economico e potere politico dovuti alle pressioni delle lobbies per ottenere dai politici interventi a favore di una impresa o un settore, sono molto maggiori in una economia con pochissime grandi imprese che in un'economia con mercati perfetti. Ma la Scuola di Chicago ha una curiosa risposta anche a questo: se si coinvolge il governo nella gestione dell'economia, la gamma delle questioni in cui il potere delle imprese può essere utilizzato politicamente aumenta. Ne conseguirebbe che ridimensionando il ruolo del governo nell'economia si ridimensionerà anche il potere politico delle imprese. Contraddittoriamente gli economisti della Scuola di Chicago in un primo momento consigliano di guardare alla politica per risolvere i problemi distributivi e raggiungere obiettivi che non hanno a che fare con il profitto, in un secondo momento raccomandano di non coinvolgere la politica. Nulla autorizza a pensare che i giganti aziendali statunitensi si asterrebbero dal fare pressioni sul governo che portassero a un'indebita commistione tra politica ed economia. Il sistema sanitario USA è il più costoso del mondo, ma per nulla efficiente se confrontato con i paesi più avanzati. I tentativi di intervenire in un sistema che non porta vantaggi per gli i cittadini statunitensi si sono scontrati con la campagna di lobbying messa in atto da compagnie di assicurazione, le aziende di servizi ospedalieri e le case farmaceutiche che contro il tentativo di riforma del sistema sanitario voluta dall'amministrazione Obama hanno messo in campo ben sei lobbisti per ogni membro del Congresso, spendendo 380 milioni di dollari per una "campagna" contro la riforma. Somme enormi furono spese dagli istituti finanziari, le stesse che con i loro comportamenti incontrollati hanno provocato la crisi globale del 2008, per neutralizzare i tentativi dell'amministrazione Obama di introdurre una nuova regolamentazione del settore. Nel 2010 il Fondo monetario internazionale ha dichiarato che nel corso del precedente ciclo elettorale di quattro anni le aziende statunitensi, prime fra tutte quelle operanti nel segmento più rischioso del settore finanziario, avevano speso in attività politiche ben 4,2 miliardi di dollari (Fmi 2010). Un ex economista capo del Fmi, Simon Johnson, ha affermato che il settore finanziario è ormai in grado di controllare il governo degli Stati Uniti con le stesse modalità cui si pensa quando si parla di paesi in via di sviluppo. Il punto è scegliere se sia meglio che sia lo Stato ad intervenire per controllare il potere economico o tollerare questo per non ampliare il potere dello Stato. L'approccio della Scuola di Chicago accoglie in pieno la seconda opzione; ma nei fatti i fenomeni vanno in una direzione diversa, promuovendo la crescita di imprese gigantesche il neoliberalismo si schiera di fatto a favore di una forte alleanza del potere economico privato e del potere statale. Lo Stato, non esercitando il suo potere, indirettamente favorisce e protegge gli interessi di quelle imprese. Riassumendo, rimangono aperte tre questioni importanti. In primo luogo, la nozione paternalistica di benessere del consumatore (“consumer welfare”, in luogo di libertà effettiva del consumatore più democratica, e la dottrina, collettivistica nella sua essenza ma iper-individualistica nei fatti, secondo cui l'importante è creare ricchezza in una qualche parte del sistema, senza alcun dubbio su chi ne beneficia, sono tuttora i principi ispiratori delle leggi sulla concorrenza nel caso di fusioni e acquisizioni. In secondo luogo, è pur vero che negli anni Settanta la legislazione anti-trust americana, per impedire alle imprese giganti di acquisire una posizione dominante sul mercato, aveva iniziato a imporre alle fusioni e acquisizioni vincoli inapplicabili e impraticabili. Le tesi della Scuola di Chicago sulla legislazione antimonopolistica ha costretto giudici, giuristi ed economisti a riflettere sui costi-opportunità del tentativo di preservare l'ideale di un'economia composta da un gran numero di piccole e medie imprese. Ma era possibile collegare tali questioni al ben collaudato concetto economico di costo-opportunità. Inquadrare il tutto alla luce della nozione di nozione di “consumer welfare”, sostenuta con una retorica populistica, era un tentativo di coprire la motivazione politica dei suoi promotori. Infine, le innovazioni della Scuola di Chicago non hanno affatto risolto la questione di fondo della tendenza del potere economico a tradursi in potere politico e viceversa. Anzi, una economia dominata da imprese giganti aggrava il problema, in quanto genera enormi concentrazioni di ricchezza. Queste imprese sono in grado non solo di convertire la ricchezza in influenza politica, ma anche di utilizzare la capacità strategica conferita dalle dimensioni e dalle gerarchie organizzative per perseguire finalità politiche e trasformarsi in soggetti politici.
Gaetanoalberto Inviato 5 Agosto Inviato 5 Agosto @Savgal Letture sempre ben scelte ed interessanti. Grazie
Savgal Inviato 5 Agosto Autore Inviato 5 Agosto LA CRISI FINANZIARIA DEGLI ANNI 2008-2009 La crisi finanziaria degli anni 2008-2009 può essere considerata un gigantesco fallimento delle tesi neoliberiste. Essa è stata provocata proprio dall’estremo perfezionamento raggiunto da alcune componenti del modello di mercato. Qualsiasi iniziativa economica è soggetta all'incertezza, per questo problema il mercato finanziario ha trovato una soluzione: è possibile stimare la probabilità che si verifichi il peggio. Una volta trasformata in rischio calcolabile, l'incertezza può essere misurata in termini monetari. In tal modo è possibile determinare il valore del rischio che si corre. È il principio di fondo delle assicurazioni. I rischi, così ridefiniti, possono essere acquistati e venduti. Gli operatori finanziari costruiscono complessi portafogli di rischi di vario genere al fine di ricavare un profitto, nella speranza di aver selezionato un numero sufficiente di rischi che non si realizzeranno. Il passaggio successivo è che chi acquista un rischio non sia costretto ad attendere l'esito della sua scommessa, ma possa rivendere il rischio a qualcun altro. Il calcolo dell'acquirente non riguarda il rischio effettivo del prestito erogato, bensì l'importo che ne può ricavare sul mercato secondario. Questo prezzo dipenderà dal valore che secondo l'acquirente del rischio attribuiranno a quello stesso rischio i futuri probabili acquirenti. Tale valore dipenderà, più che dalle convinzioni del primo acquirente, dalle percezioni dei potenziali acquirenti di seconda istanza riguardo al rischio alla base del calcolo. In sé, anche questo trading secondario in linea di massima è positivo poiché, distribuendo il rischio su una base più ampia, riduce l'esposizione del singolo acquirente. Fine degli anni Ottanta, questi mercati secondari si sono trasformati in lunghe filiere di acquirenti e venditori. Il secondo acquirente è disposto ad acquistare il rischio a un prezzo che si basa su quello che ritiene sarà disposto a pagarlo il terzo acquirente, e così via; a ogni passaggio il rischio di distorsione aumenta, sia pure di poco. Queste catene di compravendita si siano tanto allungate sia in ragione della globalizzazione dell'economia ha esteso a sempre più paesi la possibilità per chi detiene ricchezza di accedere ai mercati su cui si negoziano rischi, sia perché la regolamentazione delle transazioni finanziarie si è allentata in gran parte del mondo. Ciò è avvenuto in primo luogo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, due stati che avevano adottato con convinzione normative che sposavano l'agenda neoliberista. La “Services Modernization Act” del 1999 fu tassello fondamentale del programma neoliberista di deregulation. Questa legge abrogò le norme che impedivano alle banche di destinare i denari depositati dai loro clienti per effettuare investimenti finanziari ad alto rischio, restrizioni che risalivano al Glass-Steagall Act del 1933. Ciò consentì a operatori finanziari impegnati in attività particolarmente rischiose di utilizzare i risparmi di milioni di persone ignare di ciò che stava accadendo, un fatto per nulla positivo. I rischi venivano scambiati a velocità sempre crescente ed allungando la catena di aspettative, sulla base del criterio "penso che gli altri pensino”. Ad ogni ulteriore passaggio si accresceva sempre più la distanza tra i prezzi di mercato e la valutazione iniziale dei rischi. Queste distorsioni non avrebbero avuto importanza se fossero state il semplice risultato di differenze nei giudizi individuali: le valutazioni troppo ottimiste sarebbero state bilanciate da quelle più pessimiste e viceversa. Il punto è che il criterio "penso che gli altri pensino” si collocava in un clima prevalente di ottimismo che si autoalimentava. Il sistema cresceva costantemente, distribuendo i rischi in modo sempre più ampio. Inoltre, poiché il sistema si era esteso fino a comprendere una quota elevata della ricchezza mondiale, se il rischio si fosse concretizzato e si fosse rivelato maggiore del previsto, i governi di tutto il mondo non avrebbero avuto altra scelta che intervenire per evitare il crollo del sistema, come è poi avvenuto. Inoltre, le banche costruirono pacchetti di rischi estremamente diversificati, miscelando prestiti a rischio zero con mutui privi di garanzie adeguate. Ma gli acquirenti di questi pacchetti non erano molto interessati al loro contenuto, ma solo alle filiere di opinioni basate su altre filiere di opinioni che, procedendo a ritroso all'infinito, determinavano i prezzi sui mercati secondari. Si era creato un sistema in cui il guadagno dipende dalla velocità delle transazioni. Ogni volta che si vende un rischio a un prezzo anche solo leggermente superiore a quello di acquisto, si ricava un profitto; se con lo stesso metodo si acquista un altro rischio rivendendolo altrettanto rapidamente, si guadagna altro denaro. Gli operatori finanziari o traders, che lavoravano per le banche e avevano accesso ai risparmi e agli investimenti di milioni di clienti per speculare su questi mercati, ricevevano lauti premi in base ai risultati ottenuti. Più rapidi erano nel comprare e vendere, più venivano premiati, incentivi li spinsero a lavorare su un orizzonte temporale sempre più breve. La conseguenza fu che i prezzi sui mercati secondari erano diventati molto più importanti delle valutazioni iniziali dei rischi. I mercati secondari erano divenuti la parte più importante della realtà. Non aveva più senso chiedersi se le scommesse su quei mercati riflettessero i valori "reali" sottostanti: erano i valori secondari i valori reali. Per usare una metafora, si facevano scommesse che riflettevano le stime sulle scommesse di altri giocatori. Le agenzie di rating, che teoricamente erano pagate per valutare il merito di credito delle banche e persino delle economie nazionali, iniziarono a basare le proprie valutazioni sui mercati secondari, sebbene un rating creditizio debba esprimere in teoria un giudizio di rischiosità distinto e indipendente dagli altri giudizi. Per completare il quadro, furono modificati persino i sistemi contabili delle imprese: anziché stimare il valore dei beni di una impresa in termini di valore del lavoro, del capitale, dei mercati ecc., si guardava semplicemente al valore di borsa di quei beni, un valore basato sulle credenze dei traders riguardo a credenze di altri traders, e così via. Da una prospettiva, si trattava della più perfetta espressione del potere dei mercati che si fosse mai vista. Il valore dei beni di un'impresa, o dell'entità di un rischio, veniva calcolato non più in base a giudizi umani arbitrari, ma a mercati puri. Tuttavia questi stessi processi di mercato perfetto distrussero altre componenti, non meno essenziali al buon funzionamento di un mercato. I traders erano incentivati a ignorare determinate informazioni e a concentrare la propria attenzione sul valore dei rischi sui mercati secondari, anziché su quelli primari. Inoltre il sistema incoraggiava un ottimismo eccessivo. I mercati azionari sono sempre stati molto sensibili alle mode e agli sbalzi d'umore: se un determinato titolo è considerato redditizio tanti si precipitano ad acquistarlo, ma appena si sparge una voce di segno opposto, tanti fanno a gara per venderlo. Con il tempo il mercato si autocorregge, ma prima che ciò avvenga le distorsioni di prezzo possono durare a lungo, e la correzione può aver luogo improvvisamente e assumere la forma di una grave crisi. Si presume che il mercato gradualmente attenui le distorsioni, man mano che gli attori razionali si adattano a una situazione mutata; ma nella realtà le corse al rialzo o al ribasso vanno in modo molto diverso. La storia dei mercati finanziari è fatta di crisi continue. Nel decennio che ha preceduto la crisi del 2008 e 2009 c'erano già state la grande crisi del debito asiatico negli anni 1997-1998, la bolla della new economy tra 1999 e 2000 e la crisi argentina nel 2002. Una terza importante componente dell'eccesso di ottimismo era la sicurezza, diffusa tra i traders e rivelatasi poi fondata, che i governi non avrebbero lasciato fallire il sistema e sarebbero intervenuti a coprire eventuali perdite dovute agli eccessi del trading. Le banche impararono a privatizzare i profitti e a socializzare le perdite: finché le cose fossero andate bene, si sarebbero date a un trading esageratamente ottimista ricavando profitti elevati; se improvvisamente la situazione fosse cambiata, i governi sarebbero accorsi a salvarle. Le istituzioni finanziarie sanno con certezza che i governi sono pronti a salvarle e che per finanziare i salvataggi sono disposti anche a tagliare i servizi pubblici, la conseguenza sarà che correranno rischi sempre maggiori. L'unico caso importante in cui un governo ha cercato di respingere questo implicito ricatto fu quando gli Stati Uniti scelsero di far fallire Lehman Brothers, le conseguenze di questa scelta sui mercati fu una serie di reazione tanto sconvolgenti che da allora i salvataggi si sono moltiplicati. L’ulteriore conseguenza è stata che rassicurate sul fatto che i governi si prodigheranno per salvarle, le banche alzeranno ancora di più la posta. Il neoliberismo giustifica i compensi ai banchieri, poiché produrrebbero profitti e creano ricchezza e l'aumento della ricchezza andrebbe a vantaggio di tutti (?). Nei fatti questi profitti sono stati possibili solo grazie al sostegno pubblico, che tuttavia non è considerato un creatore di ricchezza. Perciò né il governo né i contribuenti devono essere compensati nonostante le ingenti somme versate alle banche per sottrarle dalle conseguenze di un mercato davvero libero.
Panurge Inviato 5 Agosto Inviato 5 Agosto Invidia, ultimamente quando torno a casa anche Buffy l'ammazza vampiri mi sembra concettualmente troppo complesso.
Savgal Inviato 5 Agosto Autore Inviato 5 Agosto Scrivere è un passaggio fondamentale per chiarire a sé stessi i concetti, soprattutto quando sono piuttosto complessi. In questo periodo dell'anno i tempi degli impegni a scuola sono molto distesi. Tornando a Daunton, che la crisi del 2008 non abbia condotto a rivedere il modello neoliberista apre ad una lunga serie di interrogativi. 2
Gaetanoalberto Inviato 5 Agosto Inviato 5 Agosto 2 ore fa, Savgal ha scritto: che la crisi del 2008 non abbia condotto a rivedere il modello neoliberista Mah, le conseguenze hanno determinato, al di là dei consistenti interventi pubblici di acquisto delle cartolarizzazioni vuote, una revisione delle politiche di impiego e di rischio delle istituzioni finanziarie, ed un cambiamento delle politiche di vigilanza . In UE é stato emanato un Regolamento europeo in vigore dal novembre 2012. La "revisione del modello liberista" si scontra esattamente con quelle rigidità ideologiche ed il coacervo di interessi cui hai accennato riferendoti alla Scuola di Chicago. Del resto, in modo decisamente più elementare, ti accorgi dalle nostre piccole discussioni sul forum, di quanto temi di tale complessità siano influenzati da una complice superficialità. Del carico delle finanze pubbliche a seguito delle crisi finanziarie poco si parla, e si preferisce concentrarsi sul costo del welfare. Le implicazioni politiche ed economiche degli approfondimenti sono enormi, quindi si fanno poco, e principalmente a livello di accademia. 1
Savgal Inviato 5 Agosto Autore Inviato 5 Agosto La finanza ha mantenuto il suo potere, insieme ad un capitalismo rentier che premia i profitti a spese del lavoro. La risposta politica alla crisi finanziaria globale è riuscita ad evitare una seconda Grande Depressione, ma al costo di persistenti disegueglianze, salari reali stagnanti ed austerità, mentre altri hanno beneficiato dell'aumento del valore degli asset. Il populismo e il nazionalismo economico del presidente Trump hanno esercitato una forte attrattiva sugli elettori che si lamentavano di essere stati "lasciati indietro". La crisi finanziaria globale ha rappresentato un momento in cui la legittimità dell'ordine neoliberale è stata messa in discussione; allo stesso tempo, però, un nuovo ordine non era ancora emerso. M. Daunton "Il governo economico del mondo. 1933-2023" (Parte quarta "Oltre in neoliberismo" - Capitolo 25° Un comportamento scorretto. La crisi finanziaria globale)
Savgal Inviato 5 Agosto Autore Inviato 5 Agosto LA MASSIMIZZAZIONE DEL VALORE PER GLI AZIONISTI Un’altra implicazione del modello neoliberista smentisce la tesi secondo cui il modello di condivisione dei rischi promuove l'innovazione e lo spirito di iniziativa. Le aziende dell'economia reale, quelle cioè che fabbricano beni e vendono servizi ai clienti finali, hanno bisogno di tempo e denaro per portare a compimento i nuovi progetti. Per sviluppare una nuova idea di prodotto, valutarne le potenzialità di mercato, effettuare l'investimento necessario a produrre e poi vendere il prodotto ai clienti ci vuole un certo tempo. Per i dirigenti dell'azienda che innova è importante che gli azionisti non abbiano fretta di raccogliere i dividendi; se il nuovo prodotto avrà successo, i rendimenti futuri dell'azienda miglioreranno. Questa disponibilità degli azionisti dipende dall'esistenza di un mercato azionario che consenta loro di uscire rapidamente dall'azienda se si ha sentore che il nuovo prodotto possa avere scarso successo. I mercati azionari non sono necessariamente ostili all'innovazione. All'inizio del ventunesimo secolo gli sviluppi sui mercati secondari hanno creato invece una situazione in cui l'unica cosa che interessava agli azionisti era scambiare titoli derivati basandosi su aspettative di profitto a brevissimo termine che dipendevano da credenze su credenze su credenze, sempre più distanti dall'economia reale. Un'evoluzione ancora più sofisticata ha visto le banche sviluppare tecnologie informatiche che consentono di vendere e acquistare azioni in poche frazioni di secondo attraverso un processo gestito esclusivamente dai computer. L'ascesa della forma di capitalismo finanziario sopra descritta è legata al concetto anglosassone di impresa orientato alla massimizzazione del valore per gli azionisti. Storicamente la simultanea comparsa di quel concetto di impresa e dei mercati secondari ha avuto importanti conseguenze. Nel modello l'unico scopo di un'azienda è di massimizzare il valore per gli azionisti stessi e tutti gli altri interessi sono addirittura conglobati in esso. Nel modello neoliberista in un mercato a concorrenza perfetta le imprese possono massimizzare il valore per gli azionisti solo attraverso la soddisfazione dei clienti, un'azienda che delude un cliente lo perderà a beneficio di una impresa rivale. All’obiezione sui casi in cui il mercato non è perfetto, perché ad esempio le imprese sono avvantaggiate dalla difficoltà per i clienti di procurarsi informazioni sui prodotti, la Scuola di Chicago risponde che massimizzando il valore per gli azionisti si massimizza anche la ricchezza totale della società (e con essa il benessere dei consumatori). Occorre tenere a mente che quando si parla della proprietà delle imprese "giganti" non si pensa più a proprietari-imprenditori o ad azionisti istituzionali che mantengano rapporti di lungo termine con i dirigenti di quelle imprese. Gli azionisti effettivi delegano le decisioni a traders che operano per loro conto sui mercati secondari, il cui compenso dipende dalla velocità delle transazioni su tali mercati. I soggetti che operano sui mercati finanziari non "possiedono" azioni, essi si limitano a scambiarle. La conseguenza è il venir meno di un reale collegamento tra la proprietà di una impresa e l'attenzione per i suoi reali risultati finanziari. La massimizzazione del valore per gli azionisti e l'iperattività dei mercati azionari attenti solo all'orizzonte di breve, spesso brevissimo termine ha un'altra conseguenza importante. I guadagni degli azionisti, i dividendi, che dipendono dagli utili divengono una voce residuale delle attività di scambio di un'impresa, l'ultima pretesa cui un'impresa deve rispondere dopo aver soddisfatto le pretese di tutti gli altri titolari di diritti. Il rischio d’impresa per l’innovazione è il cuore stesso del capitalismo e giustifica la massimizzazione del valore per gli azionisti. Se questi, per essere remunerati, devono attendere che tutte le altre pretese contrattuali avanzate nei confronti di un'impresa siano state soddisfatte, hanno diritto all'ultima parola sulla gestione dell'impresa. E i loro premi in caso di successo devono essere elevati, per compensarli delle eventuali perdite in cui incorrono quando i rischi si materializzano e le cose vanno male. Questo principio è stato seriamente compromesso dalle aspettative di profitto tipiche di mercati azionari estremamente volatili come quelli attuali. Le azioni vengono comprate e vendute guardando in primo luogo ai mercati secondari. Gli investitori fuggono dalle aziende i cui risultati non corrispondono al rendimento che i più considerano adeguato. Quelle imprese sono esposte a scalate ostili, temute dai dirigenti perché minacciano la loro posizione e perciò essi si sentiranno sotto pressione per centrare o superare gli obiettivi di rendimento per gli azionisti e non esiteranno a ridurre, se necessario, piani d'investimento, servizi alla clientela e retribuzioni. Operare secondo questi criteri comporta gravi rischi nella gestione delle imprese che offrono piani previdenziali e pensionistici. Fino a un passato recente la maggior parte dei piani pensione si basava sul principio delle "prestazioni predefinite". Chi sottoscriveva un fondo pensione pagava ogni mese i contributi stabiliti, detraendoli dal proprio stipendio, e quando smetteva di lavorare riceveva una pensione predefinita, in percentuale allo stipendio percepito per un certo periodo. Era responsabilità del fondo garantire che i contributi versati fossero sufficienti a finanziare le pensioni. Il rischio veniva sopportato dagli azionisti del fondo stesso, in base al principio consolidato secondo cui nelle finanze di un'impresa tocca al profitto sopportare il rischio. Fino a quando i contributi erano superiori alle pensioni erogate, nei fondi pensione si accumulavano grandi somme di denaro, che il fondo utilizzava per compiere su vari mercati finanziari investimenti che, per effetto dei processi che abbiamo descritto, divennero sempre più remunerativi. Ma questo sottoprodotto dell'attività dell'assicurazione pensionistica finì per trasformarsi nell'attività principale dei fondi pensione, e alcuni di essi divennero tra i maggiori investitori al mondo. L'erogazione delle pensioni smise perciò di costituire un'attività attraente per i fondi, anche perché la crescente aspettativa di vita iniziava a mandare all'aria i loro calcoli attuariali. Progressivamente essi abbandonarono i piani pensione basati su prestazioni predefinite, sostituendoli con piani a "contribuzione predefinita", in base ai quali i sottoscrittori, al momento di andare in pensione, non hanno più diritto a un reddito prestabilito. Il fondo infatti investe in azioni i contributi versati, e quando un sottoscrittore va in pensione si vede attribuire una somma corrispondente al valore giornaliero di borsa dei contributi versati. Se è fortunato, va in pensione quando le borse sono in rialzo; ma può anche accadere che vada in pensione durante una crisi. La pensione che si prenderà per il resto della vita viene a dipendere dagli eventi. Tocca così alle pensioni fungere da voce residuale delle attività del fondo e sopportare il rischio, non più a carico degli azionisti che chiedono tassi di profitto garantiti. 1
Savgal Inviato 5 Agosto Autore Inviato 5 Agosto @Gaetanoalberto Alberto, quando si chiede quali titoli di studio si possiede e cosa si è letto a sostegno delle proprie tesi, segue il silenzio, non diversamente da quanto avviene sui social media. Se "uno vale uno", ammettere la propria ignoranza su un argomento confuta questo assunto.
extermination Inviato 5 Agosto Inviato 5 Agosto 9 minuti fa, Savgal ha scritto: ammettere la propria ignoranza Ammetto la mia ignoranza… “ di alta levatura”. 1
Savgal Inviato 5 Agosto Autore Inviato 5 Agosto There’s class warfare, all right, but it’s my class, the rich class, that’s making war, and we’re winning. W. Buffett IL RIBALTAMENTO DEL MODELLO KEYNESIANO L'evoluzione dei mercati finanziari imperniata sul modello della massimizzazione del valore per gli azionisti implica un sistema parassitario, che potrebbe essere facilmente eliminato a vantaggio di tutti. Purtroppo, però, le cose sono più complicate. Milioni di persone, con redditi spesso relativamente bassi, soprattutto nel mondo angloamericano, hanno beneficiato solo delle briciole che cadevano dalla tavola imbandita dei ricchi. Ciò si è verificato per via del collegamento tra i mercati secondari e la diffusione della proprietà immobiliare. In molti paesi sviluppati, a partire dagli anni Ottanta, un numero crescente di persone con redditi modesti ha acquistato la casa in cui abitava accollandosi dei mutui. Sono stati gli stessi stati, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, a incentivare la crescita dell'economia rendendo più accessibili le condizioni dei mutui per l'acquisto di una casa, e prendendo misure di politica economica volte a favorire un prolungato aumento dei prezzi immobiliari. In ragione del possesso dell’immobile, le banche e gli altri istituti finanziari hanno potuto concedere prestiti anche a clienti che difficilmente li avrebbero avuti. L'aumento di valore dell'immobile significava infatti che la banca, se si fosse trovata nella necessità di vendere la casa per rientrare del prestito, avrebbe acquisito un bene il cui valore nel frattempo era salito. Inoltre, poiché il valore delle case aumentava, le persone potevano chiedere un mutuo più alto, allungando il periodo di rateizzazione e procurandosi così una liquidità che potevano usare anche per acquistare altri beni. Nello stesso periodo si espandeva il mercato delle carte di credito, che spingeva le persone a finanziare i propri acquisti indebitandosi, nonostante i tassi elevati. Il ciclo dell'economia era sostenuto dal debito. In passato l’indebitamento è stato tipico soprattutto dei gruppi sociali più abbienti, che lo consideravano un investimento e impegnavano a garanzia dei prestiti ricevuti il proprio patrimonio o altre forme di ricchezza. Gli ultimi sono stati invece caratterizzati dalla diffusione di un alto indebitamento tra persone con redditi limitati, la cui unica ricchezza era una casa impegnata a garanzia del debito. L'aumento di valore delle case faceva sì che la concessione di prestiti a queste categorie di persone non apparisse eccessivamente rischiosa. A loro volta le banche cominciarono a sfruttare la possibilità di negoziare questi rischi sui mercati secondari, facendoli rientrare nel processo di ripartizione dei rischi nei mercati secondari. Tra questi rischi vi erano anche tranches di mutui privi di adeguata garanzia e debiti da carte di credito. Questi titoli venivano collocati in pacchetti insieme a rischi meno elevati, creando nuovi titoli, scambiati a loro volta sui mercati secondari. Si faceva affidamento sul fatto che gli acquirenti non si sarebbero presi la briga di analizzarne i contenuti. In tal modo, mercati secondari già di per sé instabili hanno "contribuito" sostenere elevati livelli di consumi, e con essi l'attività economica generale, consentendo a coloro che avevano dei redditi modesti di spendere denaro che non possedevano. È un processo che ha reso tanti indirettamente complici del modello finanziario, cosa che ha reso ancor più difficile per i governi opporsi alle richieste delle banche di aiutarle a rimettersi in piedi per ricominciare tutto da capo. Il modello keynesiano cui si ispirò la politica economica nei trent'anni successivi alla seconda guerra mondiale rappresentò una forma di temporanea convergenza tra un interesse generale del sistema politico-economico e gli interessi della classe operaia dell'industria dell’Occidente. Questa classe era in grado di mettere a repentaglio l'ordine politico e sociale, ma era anche potenzialmente quella i cui consumi di massa hanno consentito di alimentare la crescita economica in una misura senza precedenti nella storia umana. Infine, questa classe aveva dato vita a partiti politici, sindacati e altre organizzazioni, e aveva aggregato il ceto intellettuale che espresse e diede forza alle loro richieste. Il modello keynesiano, abbinato alla produzione di massa, fu una risposta a queste esigenze e riconciliò i lavoratori con il sistema di produzione capitalistico. Il neoliberismo le cui idee erano di segno opposto, ebbe come vettore una classe, i capitalisti finanziari, geograficamente concentrata negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma gradualmente diffusasi in tutto il pianeta. Questa classe aveva il vantaggio del suo carattere transnazionale. Nello stesso periodo, infatti, si verificò un altro grande cambiamento, la progressiva perdita di autonomia dello Stato-nazione. La politica economica postbellica era stata imperniata su governi che godevano di una certa discrezionalità nel gestire la rispettiva economia. Negli anni Ottanta il processo chiamato globalizzazione erose gran parte di quell'autonomia, anche per effetto della deregulation finanziaria. Gli unici soggetti in grado di operare rapidamente a livello globale erano le gigantesche imprese transnazionali che antepongono le proprie regole private a quelle degli stati. Furono questi sviluppi a favorire e per molti aspetti a imporre, il nuovo modello. Se il mondo ha tratto dei vantaggi dalla liberazione delle forze produttive e imprenditoriali che la diffusione dei liberi mercati portava con sé, la classe di coloro che operavano nella finanza priva di regole, che accompagnava e favoriva la crescita di quei mercati, se ne è avvantaggiata più di ogni altra. Se la rigidità dei mercati del lavoro e il capitalismo regolamentato dell'epoca keynesiana avevano gradualmente ridotto le disparità di ricchezza in tutti i paesi avanzati, nel periodo successivo si assisté a una inversione di tendenza; i premi più cospicui toccarono proprio a chi operava nel mondo della finanza. La crisi del modello keynesiano negli anni Settanta fu accompagnata da una straordinaria mobilitazione della classe operaia, che indusse molti a credere che la sfida che essa poneva diventasse sempre più centrale. Ciò non corrispondeva alla realtà. La produttività in aumento e la globalizzazione della produzione stavano minando la base demografica di quella classe. L'occupazione nelle attività estrattive e manifatturiere iniziò a diminuire in tutto l'Occidente. L'attivismo degli anni Settanta non fece che incoraggiare ulteriormente i governi ad accelerare il declino della classe operaia, come accadde in Gran Bretagna durante gli anni Ottanta nelle miniere di carbone e in altri settori. I lavoratori dell'industria non erano mai stati la maggioranza della popolazione attiva, ma erano la classe in crescita. Ora, invece, iniziavano a diminuire. Negli anni Ottanta la componente più sindacalizzata del mondo del lavoro divenne il pubblico impiego, con cui i governi potevano trattare direttamente, senza interferire troppo con l'economia di mercato. I lavoratori dei servizi privati, la parte più dinamica della nuova economia, raramente erano organizzati e non avevano elaborato un'agenda politica autonoma. Nel regime deregolamentato della finanza internazionale a preoccupare i governi erano molto più i movimenti dei capitali che quelli della forza-lavoro. Da un lato i governi desideravano attrarre nel proprio paese i capitali che fluttuavano liberamente in cerca di impieghi a breve, dall'altro temevano che quei capitali se ne andassero altrove se insoddisfatti delle condizioni del paese. Le cose in realtà erano ancora più complesse: lo stesso modello keynesiano aveva risposto sia all'esigenza dell'economia capitalistica di un consumo stabile di massa, sia alla domanda di stabilità di vita dei lavoratori. Nelle economie sviluppate la dipendenza da un aumento dei consumi interni, anziché dalle esportazioni, era aumentata. Con il trasferimento verso nuove aree di produzione e la riduzione della manodopera in buona parte delle industrie produttrici di beni di massa, l'aumento dell'occupazione è avvenuta nei mercati dei servizi personali, relativamente immuni alla globalizzazione. Questi servizi risentono della globalizzazione soprattutto attraverso l'immigrazione, il cui impatto è però limitato dai controlli sui movimenti di popolazione e dal fatto che i salari degli immigrati, per quanto bassi, sono superiori a quelli dei loro connazionali rimasti a casa. Rimane perciò la questione: se l'instabilità del libero mercato aveva rappresentato inizialmente un ostacolo allo sviluppo del, come ha fatto quest'ultima a sopravvivere al ritorno dell'instabilità? Il quesito è come abbia fatto a sopravvivere l'economia dei consumi di massa al ritorno dell’instabilità del lavoro e alla stagnazione dei salari. Negli anni Ottanta o Novanta si pensò che i consumi di massa non potessero sopravvivere, considerata la crescente disoccupazione e la recessione prolungata. Poi le cose cambiarono. Alla fine del ventesimo secolo Gran Bretagna e Stati Uniti, e in seguito altri paesi, registrarono un calo della disoccupazione e una forte crescita. Il neoliberismo il fenomeno può essere spiegato con il fatto che in una economia di mercato veramente pura non si verifica il frequente alternarsi di espansioni e recessioni, caratteristico della precedente storia del capitalismo. L'informazione non è affatto perfetta, come dimostra la crisi del 2008, i traumi esogeni, le guerre o le azioni irrazionali continuano a riversarsi sulle economie e a vanificare le previsioni. Sono due le forze che hanno concorso a salvare il modello neoliberista dall'instabilità: lo sviluppo del mercato del credito alle persone con redditi medi o bassi e, per i ricchi, la nascita dei mercati dei derivati e dei futures. Questa combinazione ha prodotto un modello di economia keynesiana “privatizzata" che, sorto in modo casuale, è diventata una questione politica ed economica cruciale. Nel modello keynesiano sono gli stati ad indebitarsi, in luogo dello stato sono stati gli individui e le famiglie, compresa la parte più povera, a indebitarsi stimolando l'economia. Tutto ciò spiega in che modo lavoratori non particolarmente ben pagati (soprattutto quelli americani), con scarse tutele legali contro il licenziamento immediato e salari fermi dalla fine degli anni Settanta, a continuare a consumare, quando i lavoratori dell'Europa continentale, nonostante posti di lavoro pressoché garantiti e redditi annuali in costante aumento, hanno frenato le rispettive economie perché poco propensi a spendere. I prezzi delle case negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Irlanda salirono di anno in anno, la percentuale del finanziamento concesso rispetto al valore dell'immobile arrivò al cento per cento e le possibilità offerte dalle carte di credito si moltiplicarono sempre più. Nell'Europa continentale i valori degli immobili, a parte poche eccezioni, rimasero invece stabili. Il debito su mutui e carte di credito raggiunse livelli molto più alti nelle economie anglofone che nell'Europa continentale. In Germania e in altri paesi europei il modello di crescita è sempre stato assai meno dipendente dalla spesa per consumi interni rispetto al modello inglese e americano. Il settore manifatturiero orientato alle esportazioni conservò importanza centrale ed i governi erano più attenti a tenere a bada i prezzi che a sostenere il consumo interno dei servizi prodotti nel paese. In entrambi i casi la politica pubblica esercitava una pressione sui salari. Nei paesi anglofoni riducendo i diritti collettivi dei lavoratori suscettibili di interferire con i mercati; in Germania e in altri paesi europei attraverso il deciso atteggiamento antinflazionistico della Banca centrale europea. L'Europa continentale, il Giappone e un gran numero di paesi emergenti avevano bisogno che i consumatori americani, e in minor misura britannici, acquistassero i loro prodotti. Ciò che consentiva loro di farlo era il modello basato sul debito, che per questo divenne tanto importante e non può essere etichettato semplicemente come parassitario. Le riflessioni sulle politiche pubbliche iniziarono ad accettare questa sorta di keynesismo ribaltato, privatizzato. Così un calo dei prezzi del petrolio era considerato una buona notizia, perché riduceva la pressione inflazionistica, mentre un calo dei prezzi delle case appariva catastrofico, perché avrebbe minato la fiducia nel debito. Toccava perciò allo stato intervenire con misure volte a favorire gli aumenti dei prezzi delle case. Il governo britannico allentò sempre più i vincoli alla concessione di mutui, mentre le due agenzie statali americane specializzate in mutui (Fannie Mae e Freddie Mac) si trovarono in prima linea sul mercato dei subprime. Il sistema capitalista democratico aveva smesso di dipendere dagli alti salari, dal welfare state e dalla gestione pubblica della domanda. La prosperità cessò di fondarsi sulla formula socialdemocratica del sostegno pubblico alle classi lavoratrici. Fu adottata la formula conservatrice neoliberista fondata su banche, borse e mercati finanziari. Anche i lavoratori contribuirono, non nel ruolo di coloro che per migliorare la propria condizione facevano affidamento su sindacati, leggi di tutela e piani di previdenza sociale finanziati dallo Stato, bensì in veste di debitori sul mercato del credito. Questo mutamento politico di fondo fu più profondo di qualunque altra novità prodotta dall'alternarsi al governo di partiti socialdemocratici o conservatori-neoliberisti in base ai risultati elettorali. Esso ha provocato un marcato spostamento a destra di tutto lo spettro politico, collegando gli interessi collettivi e individuali di tutti ai mercati finanziari, che nel loro operare producono forti disparità e danno vita a grandi concentrazioni di ricchezza. Rimangono tuttavia i fallimenti del mercato, come le insufficienze del prezzo quale indicatore di valore o la mancanza di informazioni. Le transazioni rapidissime sui mercati secondari sganciarono i prezzi dei beni dalla combinazione di terra, lavoro e capitale che è il vero patrimonio di un'impresa. E neppure le quotazioni del titolo riflettono le prospettive di mercato dell'impresa e forniscono informazioni importanti e precise su di essa. Gli imprenditori finanziari e le aziende di revisione contabile svilupparono forme di sapere riguardo al prezzo di pacchetti di titoli che non dovevano essere analizzati nei loro contenuti, cosa che condusse a decisioni autodistruttive, che è il grande limite di questo modello. Difatti al momento del crollo dei mercati secondari nessuno aveva un'idea precisa di quanto denaro fosse stato perso, né di dove fosse finito. Se l'unica informazione importante è totalmente autoreferenziale e non può essere convalidata se non da se stessa, essa non può in alcun modo svolgere il ruolo che il mercato richiede. Ma per anni e anni nessuno che avesse potere nel o sul sistema se ne era minimamente preoccupato, nonostante il chiaro campanello d'allarme risuonato poco tempo prima, ossia alla fine degli anni Novanta con lo scoppio della bolla della new economy. Anche in quel caso, i valori si erano basati su una infinita serie di previsioni a ritroso, perdendo progressivamente qualsiasi contatto con i prodotti effettivi delle imprese operanti attraverso internet. Nessuna delle lezioni che era possibile trarre da questa esperienza parve ispirare nuovi comportamenti al sistema finanziario, nei pochi anni trascorsi tra queste due crisi tanto simili tra loro. Il keynesismo privatizzato si è trasformato in una sorta di strano bene collettivo, pur basato sulle azioni dei privati. Esso presupponeva un comportamento delle banche sostanzialmente irresponsabile, che si è tradotto nell'omissione di verifiche e prassi contabili che in linea di principio toccavano alle banche stesse. Tuttavia il denaro irreale che esso generava ha consentito a milioni di persone di acquistare beni e servizi reali. Perciò, quella stessa irresponsabilità si è trasformata in un bene collettivo. Vi è una immoralità sostanziale nella complicità di intere società coinvolte in quelle prassi irresponsabili. Le teorie storiche del mercato avevano sempre attribuito ad esso il ruolo di far sì che il perseguimento degli interessi individuali assicurasse il raggiungimento di obiettivi collettivi e generali. Con il neoliberismo il mercato fu asservito agli interessi e agli delle classi opulente degli anni Ottanta e Novanta. Tuttavia il collegamento tra interessi privati e bene collettivo non può essere reciso di netto, i comportamenti economici non hanno mai una rilevanza esclusivamente privata. Il neoliberismo, già molto compiacente verso le concentrazioni di ricchezza nelle grandi aziende che dominano i mercati, si è ulteriormente squalificato per aver creato, attraverso la deregulation bancaria, mercati che si fondano sull'inadeguatezza delle informazioni. La conseguenza è che per garantirci un benessere collettivo si deve consentire a pochi individui di accumulare una ricchezza e un potere politico enormi. Esemplare è quanto sta accadendo al welfare. Gli stati devono tagliare pesantemente i servizi sociali, i programmi sanitari e d'istruzione, i diritti pensionistici e i trasferimenti sociali ai poveri e ai disoccupati. Devono farlo per placare le ansie di coloro che operano nei mercati finanziari sull'entità del debito pubblico, che sono gli stessi che hanno guadagnato dai salvataggi bancari e hanno ricominciato a concedersi generosi bonus, "guadagnati" solo grazie al fatto che le loro operazioni sono assicurate contro i rischi dalla spesa pubblica che ha prodotto il debito pubblico.
Savgal Inviato 5 Agosto Autore Inviato 5 Agosto Mi rendo conto che leggere un post di 2600 parole non è facile, ma vi invito a fare uno sforzo. Il debito privato rispetto al PIL negli Stati Uniti è diminuito al 142% nel 2024 rispetto al 147,50% nel 2023. Il debito privato rispetto al PIL negli Stati Uniti ha mediato il 131,72% dal 1995 al 2024, raggiungendo un massimo storico del 158,30% nel 2020 e un minimo record del 100,50% nel 1997. https://it.tradingeconomics.com/united-states/private-debt-to-gdp Ossia nel 2024 il debito dei privati ammontava a 41.435 miliardi di dollari, una cifra spaventosa 35.634 miliardi di euro, quasi 12 volte il debito pubblico italiano.
extermination Inviato 6 Agosto Inviato 6 Agosto 9 ore fa, Savgal ha scritto: Il debito privato Quanto di questo debito è stato contratto per l’acquisto di beni di consumi ( dunque “bruciato” nel breve termine) e quanto invece per investimenti ? ( ad esempio per l’acquisto di una casa) Riguardo la sostenibilità del debito privato, (anche solo per farsi un’idea vista la storia del pollo di Trilussa) qual’è il reddito medio pro capite e quale l’ indebitamento medio pro capite? (come noto una famiglia “media” che spende oltre il 40-50% del proprio reddito per pagare rate dei prestiti è da considerarsi fortemente indebitata dunque in probabile difficoltà nel far fronte all’acquisto di beni di prima necessità). Da ultimo e non per ultimo, il tasso di crescita, il tasso di occupazione -disoccupazione il tasso di inflazione ed il tasso medio sul credito al consumo e sui mutui. Massima semplificazione tra il mare magnum di indicatori…4 numeri …magari per fare anche un confronto con altri stati.
senek65 Inviato 6 Agosto Inviato 6 Agosto @extermination ma se oltreoceano hannola spada di Damocle dei debiti universitari, che analisi vuoi fare?
extermination Inviato 6 Agosto Inviato 6 Agosto @senek65 Mettiamo dentro pure quelli nel “frullatore”. Non ho la minima contezza di quanto pesino e delle eventuali difficoltà nel rimborsarli (immagino con rate spalmate a lungo termine)
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