iBan69 Inviato 24 Marzo Inviato 24 Marzo I social rendono stupidi? L’intelligenza artificiale, l’innovazione e il ritardo dei giovani: il caso-Italia di Federico Fubini Nell’era della AI, l’Ocse evidenzia un misurabile declino del potere della menta umana. Siamo sempre meno capaci di distinguere vero e falso, realtà e propaganda. https://www.corriere.it/economia/intelligenza-artificiale/25_marzo_24/perche-siamo-sempre-piu-stupidi-l-intelligenza-artificiale-il-problema-dei-giovani-e-il-caso-italia-f0d657c4-fb7f-4e6f-8536-fdaba0f4axlk.shtml?refresh_ce
Dufay Inviato 24 Marzo Inviato 24 Marzo A proposito dell'argomento un video della mia amica yasmina Pani. Il libro citato parrebbe interessante
wow Inviato 24 Marzo Inviato 24 Marzo Impressionante https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/limpatto-dei-social-sullo-sviluppo-cerebrale-cosa-dicono-gli-studi/
Questo è un messaggio popolare. Savgal Inviato 24 Marzo Questo è un messaggio popolare. Inviato 24 Marzo @wow (se hai tempo e pazienza per leggerlo) LA FOLLA SOLITARIA DEI SOCIAL MEDIA Scriveva Marshall McLuhan: "Le società sono sempre state modellate più dalla natura dei media con cui gli esseri umani comunicano che dal contenuto della comunicazione". "L’azione dei media è quella di far accadere le cose piuttosto che di darne conoscenza.". Le tecnologie di comunicazione di cui una società dispone condizionano fortemente la cultura di quella società, la visione del mondo e la forma mentis di chi ne fa parte. L’autore sviluppa la sua tesi in “La galassia Gutenberg”, in cui argomenta come la modernità sia conseguenza dell'invenzione della stampa. Con il libro stampato diviene prevalente la lettura, un atto solitario; dalla riflessione sul testo scritto origina la consapevolezza di sé, l’individuo. Con l’individualità nascono le prospettive, i punti di vista, che si comunicano sempre con il linguaggio scritto. L’espressione delle prospettive si manifesta nel liberalismo, nei limiti del potere e nei diritti individuali che sono parte fondamentale della democrazia. Per secoli il lettore è stato il borghese colto, l’alfabetizzazione di massa è un fenomeno molto recente, universalizzato come il “cittadino” delle democrazie liberali. Va evidenziato che il mondo antico e medioevale guardava con diffidenza all’individuo, al soggetto che rivendicava la sua differenza dagli altri. In quel mondo la comunicazione era quasi esclusivamente orale e diretta, la piazza o le chiese erano i luoghi della comunicazione ed in quei luoghi non vi era spazio per la prospettiva individuale. Nella piazza prevalevano la comunità, e, intesa negativamente con le parole di Nietzsche, “l’istinto del gregge”. Nel giro di due generazioni abbiamo vissuto passaggi epocali, di cui non siamo del tutto consapevoli. McLuhan aveva quali riferimenti le tecnologie del ‘900. Le reti costruite dai social media sono realmente il “villaggio globale” di cui parlava l’autore, ma in un curioso ossimoro per cui i soggetti sono soli, ma parte di una folla spesso composta per la quasi totalità da sconosciuti in cui si identificano ed in cui torna a prevalere “l’istinto del gregge”. La folla solitaria dei social media è l’ambito ideale in cui attecchiscono le “fake news”, un fenomeno che mette a rischio la nostra democrazia. Di un dato si deve tener sempre conto. Se sono occorsi secoli per alfabetizzare i cittadini dei paesi occidentali, sono stati sufficienti pochi anni affinché i social media diventassero un fenomeno planetario, nel 2024 erano circa 5 miliardi i profili attivi sui social media (5,04 miliardi), pari a più del 62% della popolazione mondiale. È sufficiente piantare i semi del male affinché maturino i propri frutti È innegabile che nel passato, remoto o prossimo, la diffusione di notizie manipolate ad arte sia parte integrante della storia. Ma nel passato prossimo si dovevano possedere radio, TV e giornali, con la conseguente di disponibilità di ingenti mezzi economici e, nei paesi democratici, il rischio di essere smascherati in ogni momento. Si tende troppo spesso ingenuamente a credere che gli individui siano soggetti autonomi e consapevoli, dimenticando o rimuovendo quanto si sia facilmente influenzabili e manipolabili in determinate condizioni. Vi è una locuzione entrata nel linguaggio comune, “fake news”, che in italiano corrisponde a notizie false o volutamente fuorvianti. Se nei media del passato prossimo erano individuabili e smascherabili con una relativa facilità, nel mondo virtuale dei social media ciò diviene estremamente difficile. La storia dimostra come sia sufficiente piantare i semi del male affinché questi facciano maturare i propri frutti in un processo di emulazione, nel mondo virtuale dei social media ciò è decisamente più facile rispetto al mondo reale. Anzi le fake news condizionano i soggetti con una rapidità ed un coinvolgimento che non ha precedenti nella storia della disinformazione. Queste non solo modificano la percezione del mondo del soggetto, ma lo condizionano al punto da condividerle in tempo reale spontaneamente. Ciò avviene anche perché dietro la struttura dei social media vi sono operazioni di ingegneria comunicativa e sociale totalmente differenti rispetto al passato, che consentono una rapida diffusione di fake news. Le identità del mondo virtuale producono fatti reali Le fake news modificano la percezione e rappresentazione delle cose della folla solitaria che popola i social media e li spinge spesso spontaneamente a condividerle. Uno studio pubblicato sulla rivista “Science” ha mostrato come le notizie false si diffondono sei volte più rapidamente di quelle vere ed hanno una probabilità di essere condivise del 70% superiore. Siamo portati a sottovalutare l’impatto che i social media hanno sulla società. Non si deve dimenticare che gli utenti di internet passano la gran parte del tempo in cui sono connessi sui social media ed in questo tempo l’utente si costruisce un’identità che, se pur può essere differente da quella mostrata nel mondo off line, è reale al pari di quella del mondo reale. L’identità nei social media si costruisce attraverso l’interazione con gli altri utenti ed inevitabilmente condiziona e determina i comportamenti, e non solo nel mondo virtuale. È questo potere, per non pochi aspetti coercitivo, che trasforma le fake news in “fatti sociali”, con il conseguente impatto sulla società. Molte valutazioni delle fake news conseguono da analisi superficiali, tuttavia se tanti sono convinti dell’evidenza di un fatto, sebbene falso, grande diviene il potere di coercizione sui singoli. La storia del secolo scorso dimostra ampiamente come tesi totalmente false possano determinare i comportamenti di interi popoli. La manipolazione di emotività e credenze Nel mondo virtuale dei social media costruire una massa, inizialmente solo virtuale, di soggetti che condividono le stesse (assurde) convinzioni non è difficile. Con i “bot” e i “chatbot” è possibile creare gruppi anche di milioni di utenti partendo da profili totalmente falsi, con cui gli utenti veri discutono come se fossero persone reali. Nell’interazione con bot e chatbot e con altri utenti veri l’utente dei social media mostra la sua psicologia, le motivazioni che lo spingono ad interagire e, soprattutto, i suoi limiti e le sue debolezze. È così possibile proporre a lui e agli altri utenti con un profilo simile delle fake news coerenti con il loro profilo psicologico e costruite su misura affinché siano accettate come vere da quel gruppo di utenti, che divengono fatti rilevanti e condivisi per il gruppo. Se si posseggono strumenti informatici sufficientemente sofisticati è possibile creare argomentazioni che, facendo leva sull’emotività e sulle credenze diffuse in quel gruppo siano accettate come vere, condizionandone di conseguenza i comportamenti pubblici. Pertanto ciò che avviene nel mondo virtuale dei social media produce dei fatti sociali. Vi è un’altra conseguenza di ciò, il potere della verità di essere strumento per analizzare la realtà e cercare di trovare soluzioni ai problemi della società può essere progressivamente ridotto ed emarginato se chi controlla i social media intendesse consapevolmente utilizzare la pervasività delle fake news per imporre in modo malevolo i propri obiettivi ed ignorando ogni valore morale. Si consideri le richieste di rimuovere i vincoli giuridici alla diffusione di fake news in nome della “libertà di parola”. I social network comunità chiuse Siamo inevitabilmente portati ad interagire con persone simili a noi, con cui abbiamo affinità, ma il mondo reale limita di molto questa possibilità. Invece le comunità che si costruiscono nei social media si fondano sulle affinità tra i soggetti. Si è quindi in presenza di comunità virtuali composte da persone con interessi e profili psicologici molto simili, chiuse all’esterno, sufficientemente ampie, che condivide le stesse convinzioni. I gruppi dei social media sono fondamentalmente chiusi all’esterno, come se fossero dei silos sigillati che contengono soggetti con caratteristiche molto simili. I social media, con i loro meccanismi di selezione, creano a loro volta una selezione di contenuti destinati a specifici gruppi di utenti, escludendo ciò che non corrisponde ai gusti e alle scelte di questi gruppi, impedendo confronto e spegnendo lo spirito critico, facendo tacere ogni potenziale voce di diversità. Queste comunità virtuali sono il terreno ideale su cui le fake news si diffondono ed attecchiscono. Vi è anche un altro aspetto che va evidenziato, le comunità reali sono sempre più deboli. Negli ultimi anni l’interesse per i problemi sociali, la partecipazione politica, la fiducia nelle istituzioni ha subito un forte declino. Ma vi è anche un altro aspetto che non è adeguatamente considerato, la solitudine, la vera epidemia del nostro tempo. I social divengono una compensazione illusoria ai rapporti umani di uomini e donne sempre più soli e, in quanto tali, più facilmente manipolabili ed ingannabili. La profilazione avanzata degli utenti dei social Ci si chiederà in che modo si può tracciare il profilo psicologico degli utenti dei social media. Nel 2015 fu pubblicato uno studio da cui emergeva che attraverso i «mi piace» in un profilo Facebook, un modello computerizzato era in grado di svelare la personalità di un individuo in modo più accurato rispetto alla maggior parte di amici e familiari. E se vi erano abbastanza «like» da analizzare, solo un marito o una moglie risultavano più abili nel descrivere con precisione i tratti psicologici di un soggetto. Qualcuno ricorderà del caso di “Cambridge Analytica”, che con il c.d. “microtargeting psicografico” ha svolto un ruolo importante nell’influenzare le scelte di voto degli elettori indecisi, servendosi di annunci pubblicitari modulati sulla base delle loro personalità e messi in rete attraverso i social media. Gli strumenti di profilazione avanzata degli utenti sono il principale strumento per la diffusione delle fake news. Su Facebook è presente una sezione “notizie”, al cui interno vi è la lista “popolari”. La scelta delle notizie avviene con algoritmi di intelligenza artificiale. Studi hanno mostrato come questi algoritmi producono pregiudizi simili a quelli umani. È sufficiente che la gran parte delle notizie sia in qualche modo legata a fake news affinché gli algoritmi scelgano fake news. Se vi è un numero sufficiente di utenti che fanno apparire le fake news come notizie popolari, gli algoritmi scelgono queste notizie. Una volta che queste fake news si sono affermate, divengono da fatti virtuali, fatti sociali, che si sostengono autonomamente. Vi è un altro aspetto che supporta ulteriormente questa diffusione e condivisione. Se la fake news è costruita esattamente in base al profilo degli utenti di quel gruppo, non verranno mai messe in discussione ed anche in questo caso quanto avviene nel mondo virtuale diviene un fatto reale. I social media alimentano superficialità e bassa attenzione Vi è un altro aspetto che consegue dalla fruizione dei social media, la superficialità e il basso livello di attenzione. In 15 anni si è passati da una media di 12 secondi per contenuto, ad una media di 8 secondi. Il basso livello di attenzione e di analisi ai contenuti dei social conducono a non discriminare adeguatamente alla qualità dei contenuti, il che crea il contesto ideale per la diffusione delle fake news. La bassa attenzione sui contenuti spinge l’utente dei social a scegliere notizie e contenuti che non siano in contrasto con la propria visione delle cose. Inoltre il condividere in modalità anonima l’identità di gruppo e la caratteristica sopra descritta della sostanziale chiusura di questi gruppi nei social media, oltre ad escludere informazioni in contrasto con la visione del mondo del gruppo, conduce lo stesso a polarizzarlo su posizioni estreme. I social media sono progettati per creare dipendenza Il quadro che emerge non è affatto positivo, a renderlo più fosco è la sostanziale dipendenza degli utenti dai social media. I social media hanno un ruolo centrale nella rappresentazione dell’identità del soggetto e ne condiziona fortemente i comportamenti. Ciò è conseguenza della modalità con cui i social media sono stati progettati, ossia di far leva della vulnerabilità psicologica dei singoli, con un meccanismo che crea dipendenza al pari di una droga. I social media sono strutturati per creare dipendenza, affinché gli utenti passino più tempo possibile nella piattaforma. È stata attribuita una sigla a questa dipendenza, la sindrome “FOMO” (fear of missing out), la paura di essere tagliati fuori che caratterizza molti utenti dei social media. Sul punto si pensi che il sistema sanitario inglese ha segnalato l’emergere del moltiplicarsi di malattie mentali negli adolescenti riconducibili ai social media. La digitalizzazione rende “vero” il falso Le fake news trovano il terreno in cui moltiplicarsi anche grazie ad una caratteristica del mondo digitale sostanzialmente diversa da quella del mondo fisico, analogico. Le rappresentazioni nel mondo digitale possono essere modificate a piacimento, esemplare è come le foto delle persone pubblicate sui social spesso corrispondono ben poco a come le stesse persone sono nella realtà. La relativa facilità con cui è possibile i contenuti digitali consente di creare contenuti digitali falsi, ma molto persuasivi, perché apparentemente veri. Le nuove tecnologie dell’intelligenza artificiale consentono un altro salto, ossia creare video che sono apparentemente veri. Ed una volta che in tanti si convincono nel mondo virtuale dei social che quelle foto o quei video sono “veri”, ciò produce conseguenze “vere” nel mondo reale. Conclusioni: che fare? Fino al passato prossimo nei libri, nei giornali e più recentemente in radio e televisione vi era un elemento implicito conseguente alla tecnologia di quei media, la natura gerarchica della comunicazione. Nel libro vi è lo scrittore ed il lettore, nei giornali il giornalista ed il lettore, nei programmi radiofonici e televisivi il produttore della trasmissione e chi ascolta o guarda. Tutto ciò riflette quanto avviene nella società, la sua stratificazione sociale. Ciascuno di noi ha una propria posizione nella stratificazione sociale, una sua collocazione di classe, uno status conseguente dal ceto e dalle competenze che a questo sono riconosciute. Nel mondo reale sono fattori fondamentali. In un confronto pubblico quanto sostiene lo specialista di un ambito è molto più tenuto in considerazione rispetto a quanto può affermare chi non può vantare alcuna competenza in merito. Lo status sociale colloca la persona in uno spazio superiore o inferiore nella stratificazione sociale, cosa che diamo per scontato. La gerarchia delle competenze limita il proliferare di convinzioni totalmente false, si pensi al tema del surriscaldamento globale. All’inizio è stato citato McLuhan che sosteneva che "L’azione dei media è quella di far accadere le cose piuttosto che di darne conoscenza.". Quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi pone una serie di questioni, alcune anche inquietanti. La diffusione delle fake news mostra come gli strumenti tradizionali per contenere e smascherare la disinformazione e le falsità nell’era di internet non siano più efficaci. Non è ancora chiaro quanto la manipolabilità degli utenti dei social media renda vulnerabili le istituzioni e ancor più fragile la coesione sociale qualora coloro che posseggono i social media li utilizzino per finalità intenzionalmente malevole e immorali. Un fatto emerge con chiarezza, che le fake news diffuse dai social media sono in grado di condizionare i loro utenti con una rapidità ed un coinvolgimento che non ha precedenti nella storia. O forse l’ha avuto nella Germania nazista. I social media hanno creato un fenomeno del tutto nuovo, in cui ciò che avviene in un mondo virtuale, ieri lo avremmo chiamato immaginario, diviene poco dopo un fatto reale nella società. La tecnologia ha consentito di aggregare comunità virtuali in grado di contrapporsi ed anche di sostituire le comunità reali nella produzione di fatti sociali. Chi si sente parte di queste comunità virtuali si sottomette alla forza di coercizione conseguente all’esigenza di essere accettato e sentirsene parte. L’istinto del gregge di cui parla Nietzsche, fenomeno un tempo delle piccole comunità, diviene ora fenomeno che può abbracciare anche milioni di persone tra di loro sconosciute. Quindi una fake news condivisa in un social network conduce il soggetto che ne fa parte a considerarla “vera”, oppure, temendo l’esclusione dal gruppo, a non contraddirla. Scrive Daniel Kahneman in "Pensieri lenti, pensieri veloci": “Le persone continuano a credere incrollabilmente in qualsiasi asserzione, per quanto assurda essa sia, quando godono del sostegno di una comunità di credenti che hanno la loro stessa mentalità.” Non corrisponde quindi del tutto al vero che se le idee circolano liberamente la verità prevale. Ciò può essere vero se vi è spirito critico e i sistemi di comunicazione consentono di far emergere le idee migliori. Purtroppo l’architettura dei social media opera con criteri opposti. I social media sono sistemi chiusi che silenziano le voci discordanti e fanno emergere le idee più popolari, non le migliori. Vi sono altri aspetti che vanno evidenziati. Nel 2017 due ricercatori universitari belgi verificarono come non fosse sufficiente mettere in discussione le fake news e mostrare la falsità per modificare l’atteggiamento degli utenti dei social media. In particolare i ricercatori nel loro campione rilevarono come gli individui con più basse capacità cognitive adattavano i loro atteggiamenti in misura minore rispetto agli individui con capacità cognitive maggiori. Tuttavia la situazione non migliora di molto tra i giovani che frequentano l’università. Nella ricerca “L’élite dei giovani (dis)informati” è emerso che su 1200 studenti il 65% considera il mondo digitale il luogo di riferimento per l’informazione, con il 41% che ha nei social media lo strumento più utilizzato. Seguiva con il 31% la Tv e con solo il 2% i giornali. L’università di Stanford nel 2016 ha svolto una ricerca su 8000 studenti. La conclusione del rapporto è stata: “Nel complesso la capacità dei giovani di ragionare sulle informazioni su internet può essere riassunta in una sola parola: desolante. … Ma quando si tratta di valutare le informazioni che passano attraverso i canali dei social media vengono facilmente ingannati.” È purtroppo un dato di fatto che insulti, discriminazioni di ogni genere, misoginia, istigazione alla violenza, omofobia, fake news, revenge porn caratterizzano i social media, che sono divenuti il luogo nel quale sfogare, senza limiti e regole, l’odio, la rabbia e le frustrazioni senza sensi di colpa. È uno scenario che crea non poche preoccupazioni, per alcuni aspetti è inquietante, e pone il problema di quali strumenti costruire per difendersi da qualcosa che può mettere in discussione le nostre istituzioni democratiche. Il primo punto è comprendere quale è il contesto culturale che ha prodotto la convinzione che non solo nei social media si possano diffondere fake news, ma che si possano manifestare l’odio e i peggiori sentimenti, che sia un luogo, sia pure virtuale dove vige la totale impunità. Si è dinanzi al fatto assai contraddittorio che se una persona diffama un’altra a mezzo stampa commette un reato (art. 595 cod. pen.), mentre nei social media è possibile dire ogni falsità ed offesa su chiunque senza doverne rispondere. Un passaggio fondamentale sarebbe di porre delle regole ai social media, a partire dal non consentire di cedere i dati degli utenti all’esterno. Invece molto recentemente porre delle regole è stata considerata una forma di limitazione della “libertà”, soprattutto per l’attuale governo statunitense. Il quadro è fosco e pone non pochi interrogativi su cosa può fare la scuola per contenere i tantissimi rischi per la democrazia. La prima fondamentale forma di difesa contro le fake news è lo spirito critico della persona. Educare allo spirito critico, alla capacità di discriminare cosa sia verso e cosa falso, all’autonomia personale, alla riflessione sui propri comportamenti e quanto questi possano essere condizionati dagli altri. Si dovrebbe altresì educare a limitare la dipendenza dai social media, si pensi che in media gli utenti controllano in proprio smartphone circa 150 volte al giorno. Quali sono le ragioni che spingono a controllare continuamente che non vi siano messaggio sullo smartphone? Una ragione, probabilmente la fondamentale, è quella che è stata definita “la lebbra del ventunesimo secolo”, la solitudine. Nel mondo virtuale dei social media si cerca un conforto alla solitudine del mondo reale. È un fenomeno che tocca tutte le età, non solo gli anziani, ma anche i nostri ragazzi. Chi lavora nella scuola osserva con preoccupazione il moltiplicarsi di disturbi psichiatrici e depressivi fra gli adolescenti, fenomeni marginali fino a poco più di un decennio addietro. Aristotele definì l’uomo un “animale politico”, scrivendo che “chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello stato, e di conseguenza è o bestia o dio.” e che “La comunità esiste per rendere possibile una vita felice”. La riflessione filosofica e sociologica hanno prestato un’attenzione modesta a quali fossero le condizioni che consentissero la costituzione di comunità, ovvero spazi sociali in cui uomini e donne potessero incontrarsi e trovare la loro dimensione umana, delle relazioni in cui potessero identificarsi. La modernizzazione e la secolarizzazione hanno sostanzialmente eroso la “comunità”, sostituendola con la società. Ma la società è costituita da relazioni impersonali, dalla distinzione fra persona e ruolo, da norme formalizzate, da relazioni fondate su pratiche contrattuali, da rapporti fondati sullo status dei soggetti. Il processo ha dissolto al comunità e con essa i luoghi in cui uomini e donne avevano relazioni umane. Si è creata un’immensa folla solitaria (citando il titolo di un saggio di David Riesman), di uomini e donne disperatamente soli, privi di quelle relazioni umane che generano il confronto, il dubbio, il pensiero critico. Questa folla è la stessa che cerca un conforto alla solitudine nei social media e che potrebbe (o forse lo è già) di essere facilmente manipolabile da chi li controlla. Una folla quasi completamente eterodiretta, per utilizzare un concetto di David Riesman. La missione del futuro è di ridare senso all’idea di comunità, creando spazi e luoghi in cui uomini e donne possano ritrovare il senso di appartenenza ad una comunità spazi e luoghi che, riprendendo Aristotele, possano rendere possibile una vita felice, o almeno non infelice. In assenza avremo una società composta di in gran parte di monadi che fingono di comunicare con gli altri sui social media, disperatamente sole e facilmente manipolabili. CONCLUSION Current hand-wringing over fake news in many ways mirrors widespread concern in the mid-20th century that propaganda—by Nazis, and later by Communists—posed a fundamental threat to democracy. These concerns prompted the post-World War II generation of sociologists, psychologists, and political scientists to pioneer the social-psychological school of political behavior research. Ironically, these scholars found little evidence of such a threat. Yet subsequent generations of scholars, building on these foundational works, have found that even if the media (the presumed purveyors of propaganda) typically cannot change what we think (that is, our attitudes), they are far more successful at changing what we think about (via priming, framing, and agenda setting). The analogy to fake news is clear: even if fake news does not alter most people’s beliefs, it may nonetheless reinforce existing false beliefs, increase their salience, or shape the news agenda, with potentially harmful effects for society. Explicating and countering such effects requires a multidisciplinary research program similar to the post-World War II scholarly effort aimed at countering propaganda effects. Our call here is to promote interdisciplinary research spanning psychology, computer science, political science, economics, law, and communication with the normative objective of reducing the spread of fake news and of addressing the underlying pathologies it has revealed. The failures of the news in the early 20th century led to the rise of a set of journalistic norms and practices that, while imperfect, generally served us well by striving to provide objective, credible information. We must again redesign our news ecosystem in the 21st century. Doing so will require new, multidisciplinary science on fake news and misinformation. "The science of fake news" David M. J. Lazer et al., The science of fake news. Science 359,1094-1096 (2018) https://arxiv.org/pdf/2307.07903 5
extermination Inviato 24 Marzo Inviato 24 Marzo 23 minuti fa, Savgal ha scritto: se hai tempo e pazienza per leggerlo Letto. Sarebbe bene contrapporre l’altra “faccia” dei social; quella più propensa a farti vedere la luce piuttosto che l’oscurità. 1
Savgal Inviato 24 Marzo Inviato 24 Marzo @extermination Quanto postato sopra riflessioni dopo la lettura di "Fake news. Vivere e sopravvivere in un mondo post-verità" di Giuseppe Riva. Oltre un recente articolo pubblicato sul Corriere della Sera. -------------------- Internet, da «dono di Dio» a pericolo per la democrazia: cosa è andato storto? di Riccardo Luna La rete e il web dovevano servire ad «abbattere muri e costruire ponti», Rita Levi Montalcini definiva Internet la più grande invenzione del '900. Ma oggi si è trasformato nel più insidioso strumento per picconare le democrazie. Quand’è, precisamente, che la storia è cambiata? Cos’è andato storto? Come è successo che «la prima arma di costruzione di massa», la rete di computer che doveva servire ad «abbattere muri e costruire ponti» fra le persone, si è trasformata nel più insidioso strumento per picconare le democrazie? Quand’è, precisamente, che la storia è cambiata? Ecco la prima puntata di una serie che proverà a rispondere a questa domanda. Da martedì 18 sarà online la seconda puntata . Qualche giorno fa sulla bacheca digitale interna di Google è apparso un messaggio che fotografa benissimo lo sconcerto che tanti avvertono. É apparso dopo che nel giro di qualche giorno Google ha ribattezzato, sulle sue mappe, «Golfo d’America» il Golfo del Messico, come ordinato dal presidente degli Stati Uniti; e cancellato i programmi di inclusione delle minoranze, come auspicato dal presidente degli Stati Uniti; e infine rimosso lo storico divieto - che si era autoimposto - di utilizzare l’intelligenza artificiale per scopi militari, aprendo ad una collaborazione con il Pentagono, il dipartimento della Difesa. Tutto nel giro di una settimana. Una svolta apparentemente netta per l’azienda che anni fa si era presentata al mondo con il motto «don’t be evil», non fare il cattivo. Il motto ufficiale è cambiato da un po’ ma l’accelerazione dei giorni scorsi faceva impressione lo stesso. Al che uno dei 180 mila dipendenti dell’azienda di Mountain View è andato sulla bacheca interna - Memegen, un generatore di meme aziendali -, ha postato l’immagine di un soldato nazista e ha chiesto: «Siamo diventati noi i cattivi?». La risposta però è un'altra domanda: quando è successo? E perché non ce ne siamo accorti prima? Oggi è troppo facile prendersela con il web e con i social, ma un tempo non era così. Era tutto un coro che inneggiava alle «magnifiche sorti e progressive» del digitale. Ancora all’inizio del 2009, intervistata per i suoi 100 anni, la scienziata Rita Levi Montalcini scolpiva una epigrafe: «La più grande invenzione del ‘900? E me lo chiede? Internet». Ecco, per lei non c’era neanche bisogno di chiederlo: la più grande invenzione del secolo passato non erano la penicillina o i vaccini; non erano gli aerei o il cinema. Era Internet, ovviamente. Questo era lo zeitgeist, lo spirito del tempo. Se quella che abbiamo vissuto per un paio di decenni è stata davvero una allucinazione collettiva o se invece ad un certo punto chi dava le carte ha truccato il mazzo, proveremo a scoprirlo; ma intanto va riconosciuto che ci siamo cascati tutti o quasi. Persino papa Francesco. É accaduto il 23 gennaio 2014, in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, quando definì Internet - addirittura - «un dono di Dio». L’espressione non era nuova e non era del pontefice, ma del cinese Liu XiaoBo che nel 2010, mentre era in carcere, aveva vinto il premio Nobel per la Pace. Liu XiaoBo era un importante intellettuale che aveva insegnato in diverse università occidentali: tornato in Cina nel 1989 per sostenere la rivolta di piazza Tienanmen, aveva fatto avanti e indietro in carcere diverse volte, fino al 2009, quando ci entrerà per uscire solo prima di morire di cancro, nel 2017. Nel suo ultimo testo da uomo libero il professore aveva definito Internet «un dono di Dio per la Cina», e si capisce perché: perché doveva sembrargli l’unico strumento per superare la censura e comunicare liberamente (non aveva intuito che invece, al riparo della Grande Muraglia cibernetica, il regime stava costruendo un sistema di sorveglianza di massa come non si era mai visto prima). Quell’espressione, «dono di Dio», che inizialmente era appunto circoscritta alla situazione cinese, grazie al documento del papa divenne universale. Un dono di dio, per tutti. Per tutti forse, ma non per sempre. Qualche giorno fa, sempre nella Giornata delle comunicazioni sociali, stavolta il pontefice ha invertito la rotta. Ha detto che i sistemi digitali «profilandoci secondo le logiche del mercato modificano la nostra percezione della realtà». E ancora, a proposito delle interazioni sui social: «Sembra allora che individuare un nemico contro cui scagliarsi verbalmente sia indispensabile per affermare sé stessi. E quando l’altro diventa nemico, quando si oscurano il suo volto e la sua dignità per schernirlo e deriderlo, viene meno anche la possibilità di generare speranza». Tutti i conflitti «trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti». Un dono di Dio? Non più. Eppure non doveva andare così. Internet e il web non erano nati con questo scopo. E per moltissimo tempo sono sembrati il più formidabile strumento di progresso dell’umanità dai tempi dell’invenzione della carta stampata o dell’elettricità. Gli esempi sono moltissimi, ma uno fu addirittura in mondovisione, davanti a novecento milioni di persone. Nel 2012, alla cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Londra, fra la regina d’Inghilterra e James Bond a un certo punto, in mezzo allo stadio, era apparso un signore di mezza età dinoccolato, appena impacciato, che sul suo personal computer aveva scritto «world wide web». E poi aveva aggiunto: «And this is for everyone», è per ciascuno di voi. Era Tim Berners Lee, il fisico che nel 1989, a 34 anni, mentre stava al Cern di Ginevra come stagista, nel tempo libero aveva scritto i protocolli del web e li aveva letteralmente donati al mondo perché il mondo fosse migliore. Non so se Internet è stato davvero un dono di Dio, ma il web è stato sicuramente un dono di Tim Berners Lee. Un clamoroso atto di generosità. Alcuni sottolineano che in realtà la realizzazione di una rete di computer tramite la quale le persone potessero dialogare all’inizio aveva avuto lo scopo di dotare gli Stati Uniti di uno strumento per resistere in caso di attacco nucleare sovietico. L’idea era disporre di una rete che continuasse a funzionare anche se un nodo veniva distrutto. Ma se questa era l’origine dei fondi del progetto di ricerca governativo da cui prese il nome la prima rete che poi diventerà Internet (Arpanet, ovvero Advanced Research Project Agency Network); non era certamente militare lo spirito che animava i pionieri che fecero l’impresa «andando a letto tardi», come titola il più dettagliato libro sulla storia di Internet (Where the Wizards Stay Up Late). In loro c’era piuttosto la visione utopica di Xanadu, ovvero la creazione di un grande archivio digitale del sapere del mondo di cui si era iniziato a favoleggiare all’inizio degli anni ‘60. Sembrava utopia pura, ma poi l’hanno fatto davvero. Come è noto il primo storico collegamento avvenne, sulla costa Ovest degli Stati Unuti, alle 10 e 30 di sera del 29 ottobre 1969. Il messaggio per errore fu semplicemente «Lo», al posto di «Login», perchè il viaggio del primo «pacchetto di dati» dall'università della California a Los Angeles (Ucla) al Centro di Ricerca di Stanford (Sri), cinquecento chilometri appena, si interruppe. Ma a ripensarci oggi era profetico: «Lo», in inglese si usa nell’espressione «Lo and Behold», ovvero «guarda e trattieni il fiato» (sottotesto: che sta per cambiare tutto). A capo del team c’era un ingegnere elettrico, che ai tempi aveva 35 anni, Leonard Kleinrock. Mezzo secolo più tardi, quando gli utenti di Internet nel mondo avevano superato il muro dei quattro miliardi e gli effetti collaterali, non tutti benefici, della rivoluzione digitale iniziavano ad essere evidenti, un giornalista del New York Times lo andò a trovare per festeggiare l’anniversario e invece di un trionfatore pronto a condividere gli aneddoti migliori, trovò un anziano signore afflitto dai sensi di in colpa. Disse: «Eravamo soltanto un gruppo di ingegneri che doveva risolvere un problema, non pensavamo mai che un giorno questa cosa sarebbe stata guidata dal profitto, e infatti non brevettammo nulla». Neanche loro, come Tim Berners Lee. E poi ha ammesso sconsolato: «Il lato oscuro di Internet noi non lo abbiamo visto arrivare, non faceva parte della nostra mentalità». Il «lato oscuro di Internet» rimanda alla celebre risposta che nel 2010 il guru del mitico Medialab del Mit di Boston Nicholas Negroponte diede ad un giornalista: «Il lato oscuro di internet? É non averlo». Un’altra epigrafe. Altro che diritto alla disconnessione, altro che appelli a tenere gli schermi lontani dai bambini, altro che fake news. Quelli erano gli anni in cui l’obiettivo principale di tutti i governi era portare la banda larga ovunque e Internet da molti veniva considerato addirittura un diritto costituzionale. Quell’anno un giurista raffinato come Stefano Rodotà, grande conoscitore della Rete, avanzò la proposta di modificare l’articolo 21 della Costituzione aggiungendo un comma, questo: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale». (La proposta non venne mai approvata, ma quell’articolo aprirà il «Bill of Rights» che una commissione della Camera dei deputati varò qualche anno dopo, e se ne tornò a parlare nel 2019 quando il premier Giuseppe Conte disse che esisteva «un diritto a Internet gratis» e il vice premier Di Maio si lanciò in una strampalata proposta «per garantire a tutti 30 minuti gratuiti al giorno». Chiusa parentesi). Chiariamo: la sbornia tecno ottimista non fu un problema italiano ma generalizzato. Persino le Nazioni Unite nel 2012 avevano approvato una risoluzione in questo senso. E poi c’erano gli Stati Uniti a guidare questa rivoluzione, filosofica prima ancora che tecnologica: nel 2008 Barack Obama era diventato il primo presidente a usare sistematicamente la rete e i social per fare la campagna elettorale dando a quegli strumenti un’aura di santità. «Sono stato il primo presidente digitale, si può tranquillamente argomentare che non sarei stato eletto senza i social network», ha ricordato Obama un paio di anni fa. Ma va detto che i social di allora non erano ancora diventati lo stesso strumento che poi porterà due volte Donald Trump alla Casa Bianca. La profilazione degli utenti e la segmentazione sistematica dei contenuti per privilegiare quelli che generano paura e rabbia, non esistevano. La «grande strategia social» di Obama in pratica fu la creazione di un sito web e la raccolta, tramite Facebook, di donazioni e l’organizzazione dei volontari. Tutto qui. Il suo profilo Twitter, dove ebbe subito milioni di follower, non era una clava per attaccare gli avversari, ma uno strumento molto istituzionale. Per i primi tre anni lo maneggiò soltanto il suo team di comunicazione. Il primo tweet autentico, siglato «Bo», è addirittura del 2011, in occasione della Festa del papà: «Being a father is sometimes my hardest but always my most rewarding job...». In tutto 122 caratteri che il New York Times celebrò con un articolo festoso manco fosse una poesia di Allen Ginsberg. Fu grazie all’effetto Obama che nel mondo si iniziò a parlare di «tech democracy» di una nuova stagione della democrazia potenziata da Internet, il cosiddetto «open government», governo aperto, aperto alla partecipazione diretta dei cittadini e al loro controllo (da cui, in Italia, la deriva grillina con le dirette streaming di ogni riunione e la raccolta degli scontrini delle spese degli eletti). La paladina di questa visione era Beth Noveck, una giovane professoressa del New Jersey che aveva pubblicato un saggio intitolato: «Il governo wiki: come la tecnologia può migliorare il governo, rafforzare la democrazia e rendere i cittadini più potenti». Ero presente nel 2011 a New York quando ad un summit infiammò una piccola folla di idealisti con queste parole: «La prossima grande innovazione in democrazia? La tecnologia». Capita a molti di fare previsioni che si rivelano sbagliate, questo è un caso di scuola. Da allora infatti è cambiato tutto e non come avevamo previsto. Sono pochissimi quelli che possono salire in cattedra, guardare il disastro che ci circonda e vantarsi: «Ve l’avevamo detto». Sono pochi: lo scrittore bielorusso Evgeny Morozov e qualcun altro. Gli altri sembrano sperduti, increduli. Lo stesso Barack Obama, nel 2022, parlando ad un convegno all’università di Stanford sull’impatto della tecnologia sulla democrazia, anche se il suo amico Joe Biden aveva bloccato la rielezione del «campione del mondo di Twitter» Donald Trump, aveva ormai smesso i panni del pifferaio magico digitale. Quel giorno, dopo un discorso molto critico sulle distorsioni della realtà create dagli algoritmi dei social, Obama ha concluso: «Vogliamo accettare il declino della nostra democrazia o vogliamo provare a fare di meglio?». Un dilemma con un forte contenuto di ottimismo, perché presuppone l’idea che sia ancora possibile fare reverse engineering e tornare indietro. Forse sì. Ma per farlo occorre rispondere alla domanda iniziale: cosa, esattamente, è andato storto? 10 marzo 2025 2
extermination Inviato 25 Marzo Inviato 25 Marzo 8 ore fa, Savgal ha scritto: Vogliamo accettare il declino della nostra democrazia o vogliamo provare a fare di meglio?» La democrazia è sempre minacciata perché richiede molte condizioni preliminari per prosperare. E’ come un fiore raro che non può crescere in qualsiasi luogo, mentre la dittatura è come un’erba dove ovunque la lanci, può prosperare” Yuval Noah Harari
extermination Inviato 25 Marzo Inviato 25 Marzo Da noi: I social; minaccia alla democrazia. altrove, vedi ad esempio la repubblica popolare cinese: il Governo sorveglia, censura e blocca l’accesso ai social ritenendoli una minaccia per la sovranità del paese- dittatura nel paese. Internet: opportunità o minaccia alla democrazia? Attenti a quei due. 1
maurodg65 Inviato 25 Marzo Inviato 25 Marzo 7 ore fa, wow ha scritto: Bei tempi quando ci lamentavamo della televisione In realtà era esattamente lo stesso, il Berlusconismo lo hanno spiegato e giustificato con il possesso dei mezzi televisivi e la concentrazione mediatica esattamente come oggi attribuiscono ai social le vittorie elettorali alla destra americana. In realtà il “possesso” o meglio “l’utilizzo” ai fini politici dei media sono endemici con la lotta politica, a tale scopo sì è sfruttata anche la “cultura” tanto che della “saldatura” tra il ceto operaio e gli intellettuali ne abbiamo parlato recentemente a proposito di un “Manifesto” recentemente “riscoperto”. Se poi parliamo di condizionamento o meglio di “indottrinamento” politico cosa era meglio delle “cellule” le vecchie sezioni di partito nelle quali i militanti si ritrovano per discutere per ore pensandola allo stesso modo e parlandosi addosso, questo era più presente a sinistra ma a destra non era diverso solo che erano pochissimi al confronto, il risultato di quell’indottrinamento lo abbiamo potuto vedere nelle università in questi ultimi due anni ad esempio. Questo ovviamente non significa che non ci siano problemi legati ai social ed al loro utilizzo, ma che le novità ed i cambiamenti sono ciò che spiazzano e creano problemi. 1
Velvet Inviato 25 Marzo Autore Inviato 25 Marzo A qualcuno ancora nel 2025 sfugge la sostanziale differenza che passa fra la capacità di influenza collettiva di un medium 1.0 (giornale, TV, libro, cinema ecc) e quelle dei media 2.0 (social, chat ecc). E' stato un cambio totale non diverso da quello che sta arrivando con AI. Le ragioni sono tutte psicologiche e sociali, le hanno spiegate in molti ma con un po' di logica e osservazione ci si arriva anche da soli.
Velvet Inviato 25 Marzo Autore Inviato 25 Marzo 42 minuti fa, extermination ha scritto: la repubblica popolare cinese: il Governo sorveglia, censura e blocca l’accesso ai social E fa benissimo. Non sono scemi e non vogliono fare la fine degli USA.
Savgal Inviato 25 Marzo Inviato 25 Marzo @wow Per usare una metafora, la propaganda in TV era ed è un soldato che tira una sventagliata di mitra alla cieca, il “microtargeting psicografico” dei social media è un cecchino con una mira eccellente. 2
Questo è un messaggio popolare. extermination Inviato 25 Marzo Questo è un messaggio popolare. Inviato 25 Marzo 33 minuti fa, Velvet ha scritto: benissimo È proprio il caso di dirlo: fortunati i cinesi che hanno un saggio presidente che guida loro da buon padre di famiglia!!! 3
wow Inviato 25 Marzo Inviato 25 Marzo 2 ore fa, Savgal ha scritto: Per usare una metafora, la propaganda in TV era ed è un soldato che tira una sventagliata di mitra alla cieca, il “microtargeting psicografico” dei social media è un cecchino con una mira eccellente. tu ti soffermi sui micidiali meccanismi di penetrazione e di microtargeting. Io, ormai ex insegnante, sono rimasto impressionato, perché ho, come si dice, toccato con mano, dalla "mutazione" dei processi di apprendimento e di "interazione" con l'esterno nonché dall'aggravarsi del fenomeno dell'analfabetismo funzionale. Avevo sentito qualcosa per radio questa estate e anni fa in una puntata di Report. Il link dell'articolo che ho postato conferma e offre una spiegazione scientifica dell'impatto dei SM sulle strutture cerebrali dei giovani utenti. Non so se la tua esperienza, su questi aspetti, coincide con la mia.
briandinazareth Inviato 25 Marzo Inviato 25 Marzo 4 ore fa, extermination ha scritto: il Governo sorveglia, censura e blocca l’accesso ai social ritenendoli una minaccia per la sovranità del paese in realtà, per quanto esista il controllo, è molto più finto di quanto pensiamo. in cina vendono le esim con la vpn integrata, negli alberghi ti danno normalmente il wifi già con la vpn e tutti usano la vpn. questo accade anche in iran ad esempio. è una questione tecnica, se vuoi che internet funzioni bene, filtrare è praticamente impossibile, e in cina lo usano proprio per tutto, anche per l'elemosina ai mendicanti. comunque in cina usano i social quanto da noi... anche se pare che in generale i bambini siano molto meno esposti (questione di stle geitoriale)
extermination Inviato 25 Marzo Inviato 25 Marzo @briandinazareth Non avevo dubbi sul circuito Hotel-turisti
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