LUIGI64 Inviato 30 Aprile Autore Inviato 30 Aprile Sempre dal testo di Francesco, più sopra citato: L’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune. ...Troppe volte, guardando alla nostra vita, vediamo solo quello che ci manca e ci lamentiamo di quello. Allora cediamo alla tentazione del “magari ... ”: magari avessi quel lavoro, magari avessi quella casa, magari avessi soldi e successo, magari non avessi quel problema, magari avessi persone migliori attorno a me! Ma l’illusione del “magari” ci impedisce di vedere il bene e ci fa dimenticare i talenti che abbiamo. Sì, tu non hai quello , ma hai questo , e il “magari” fa sì che lo dimentichiamo. ...Quanta sofferenza, quante lacerazioni, quante guerre potrebbero essere evitate se il perdono e la misericordia fossero lo stile della nostra vita! Anche in famiglia: quante famiglie disunite che non sanno perdonarsi, quanti fratelli e sorelle che hanno questo rancore dentro. È necessario applicare l’amore misericordioso in tutte le relazioni umane: tra i coniugi, tra i genitori e i figli, all’interno delle nostre comunità, nella Chiesa e anche nella società e nella politica....Perdonare non è soltanto la cosa di un momento, è un’azione continua contro il rancore, contro questo odio persistente. Pensiamo alla fine, smettiamola di odiare. ...Nella vita c’è una paralisi pericolosa e spesso difficile da identificare, e che ci costa molto riconoscere. Mi piace definirla “paralisi da divano”. Sì, credere che per essere felici abbiamo bisogno di un buon divano. Un divano che ci aiuti a stare comodi, tranquilli, ben sicuri. Un divano, come quelli che ci sono adesso, moderno, con massaggio incluso, che ci garantisca ore di tranquillità per trasferirci nel mondo dei videogiochi o nelle chat. Un divano contro ogni tipo di dolore e timore. Che ci faccia stare chiusi in casa senza affaticarci né preoccuparci. La “divano-felicità” è probabilmente la paralisi silenziosa che ci può rovinare di più, che può rovinare di più la gioventù ...Oggi spesso c’è “connessione” ma non comunicazione. L’uso dei dispositivi elettronici, se non è equilibrato, può farci restare sempre incollati a uno schermo. Con questo messaggio vorrei anche lanciare la sfida di una svolta culturale, a partire dall’«Alzati!» che Gesù dice al figlio morto della vedova di Nain. In una cultura che vuole i giovani isolati e ripiegati su mondi virtuali, facciamo circolare questa parola di Gesù: «Alzati!» È un invito ad aprirsi a una realtà che va ben oltre il virtuale. Ciò non significa disprezzare la tecnologia, ma utilizzarla come un mezzo e non come un fine. «Alzati» significa anche «sogna», «rischia», «impegnati per cambiare il mondo», riaccendi i tuoi desideri, contempla il cielo, le stelle, il mondo intorno a te. ... L’immersione nel mondo virtuale ha favorito una sorta di “migrazione digitale”, vale a dire un distanziamento dalla famiglia, dai valori culturali e religiosi, che conduce molte persone verso un mondo di solitudine e di auto-invenzione, fino a sperimentare una mancanza di radici, benché rimangano fisicamente nello stesso luogo. ...L’altro giorno una persona mi domandava, parlando dell’intelligenza artificiale: «Ma l’intelligenza artificiale potrà fare tutto?» «I robot futuri potranno fare tutto, tutto quello che fa una persona. Tranne che cosa?», ho risposto io. «Quale cosa non potranno fare?» Quella persona ha riflettuto un po’ e mi ha detto: «Soltanto una cosa non potranno avere: la tenerezza». E la tenerezza è come la speranza. Come dice il poeta Charles Péguy, sono delle virtù umili. Sono virtù che accarezzano, che non affermano… Credo che – e vorrei sottolinearlo – nella nostra conversione ecologica dobbiamo lavorare su questa ecologia umana; lavorare sulla nostra tenerezza e capacità di accarezzare… Dobbiamo lavorare sulla capacità di accarezzare, che è una caratteristica del vivere bene in armonia. ...Tutti noi siamo chiamati a riaccendere nel cuore un impulso di speranza, che deve tradursi in concrete opere di pace. Non vai d’accordo con questa persona? Fai la pace. A casa tua? Fai la pace. Nella tua comunità? Fai la pace. Nel tuo lavoro? Fai la pace. Opere di pace, di riconciliazione e di fraternità. Ognuno di noi deve compiere gesti di fraternità nei confronti del prossimo, specialmente di coloro che sono provati da tensioni familiari o da dissidi di vario genere. Questi piccoli gesti hanno tanto valore: possono essere semi che danno speranza, possono aprire strade e prospettive di pace. ...Tutti abbiamo bisogno di meditare, di riflettere, di ritrovare noi stessi, è una dinamica umana. Soprattutto nel vorace mondo occidentale si cerca la meditazione perché essa rappresenta un argine elevato contro lo stress quotidiano e il vuoto che ovunque dilaga. Ecco, dunque, l’immagine di giovani e adulti seduti in raccoglimento, in silenzio, con gli occhi socchiusi… Ma possiamo domandarci: cosa fanno queste persone? Meditano. È un fenomeno da guardare con favore: infatti noi non siamo fatti per correre in continuazione, possediamo una vita interiore che non può sempre essere calpestata. Meditare è dunque un bisogno di tutti. Meditare, per così dire, assomiglierebbe a fermarsi e fare un respiro nella vita. ...Il silenzio, la preghiera, la concentrazione sono esercizi difficili, e qualche volta la natura umana si ribella. Preferiremmo stare in qualsiasi altra parte del mondo, ma non lì, su quella panca della chiesa a pregare. Chi vuole pregare deve ricordarsi che la fede non è facile, e qualche volta procede in un’oscurità quasi totale, senza punti di riferimento. Ci sono momenti della vita di fede che sono oscuri e per questo qualche santo li chiama: “la notte oscura”, perché non si sente nulla. Ma io continuo a pregare. Datti al meglio della vita! Non osservate la vita dal balcone. Non confondete la felicità con un divano e non passate tutta la vostra vita davanti a uno schermo. Non riducetevi nemmeno al triste spettacolo di un veicolo abbandonato. Non siate auto parcheggiate, lasciate piuttosto sbocciare i sogni e prendete decisioni. Rischiate, anche se sbaglierete. Non sopravvivete con l’anima anestetizzata e non guardate il mondo come se foste turisti. Fatevi sentire! Scacciate le paure che vi paralizzano, per non diventare mummificati. Vivete! Datevi al meglio della vita! Aprite le porte della gabbia e volate via! Per favore, non andate in pensione prima del tempo.
LUIGI64 Inviato 1 Maggio Autore Inviato 1 Maggio D. Oggi, con il fondamentalismo che vorrebbe tornare a riunire potere politico e potere religioso, la questione della laicità torna con forza. R. (Papa Francesco) Lo Stato laico è una cosa sana. Esiste una laicità sana. Come ha detto Gesù, bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio. Ma credo che in certi Paesi come la Francia questa laicità abbia ereditato dall’Illuminismo un’impronta troppo forte, che costruisce un immaginario collettivo in cui le religioni sono viste come una sottocultura. Credo che la Francia – questa è la mia opinione personale, non quella ufficiale della Chiesa – dovrebbe «elevare» un po’ il suo livello di laicità, dovrebbe cioè dire chiaro e forte che anche le religioni fanno parte della cultura. Come esprimere tutto ciò in modo laico? Attraverso l’apertura alla trascendenza. Ciascuno può trovare la propria forma di apertura. Nel patrimonio culturale francese, l’Illuminismo ha un peso eccessivo. Lo capisco, è un retaggio storico, ma bisogna lavorare per ampliarlo. Ci sono governi, cristiani o meno, che non ammettono la laicità. Cosa significa uno Stato laico «aperto alla trascendenza»? Che le religioni sono considerate parte della cultura anziché sottoculture. Decretare che non bisogna portare croci visibili intorno al collo o che le donne non possono indossare questo o quello è una stupidaggine. Perché entrambi gli usi rappresentano una cultura. Uno porta la croce, l’altro porta qualcos’altro, il rabbino porta la kippah, e il Papa porta lo zucchetto! (Ride). La sana laicità è questa qui! Il Concilio Vaticano II lo spiega molto bene, in modo chiarissimo. Mi sembra che su questi argomenti si tenda a esagerare, soprattutto quando si colloca la laicità al di sopra delle religioni. Devo dedurne che le religioni non fanno parte della cultura? Che sono delle sottoculture? --- D. Quali sono i ponti che nel Ventesimo secolo la Chiesa non ha saputo costruire, e quali quelli che invece ha costruito? R. Credo che la Chiesa abbia gettato molti, ma molti ponti. Però non sempre ha saputo farlo… Penso all’epoca della Riforma, cinque secoli fa. Non è riuscita a fare un ponte con i riformatori perché il contesto politico era davvero complesso. E poi era anche una questione di mentalità, che doveva ancora maturare. Una mentalità basata sul principio del «cuius regio, eius religio» («tale regnante, tale religione») non è una mentalità matura. Torniamo ancora più indietro, al tempo delle crociate. Chi è stato il primo a capire come comportarsi con i musulmani? Francesco d’Assisi, che andava a discutere con il loro capo. Fatto sta che fare la guerra faceva parte della mentalità dell’epoca… Qui tocchiamo una questione a mio avviso fondamentale: un’epoca deve essere interpretata con l’ermeneutica propria di quell’epoca. Non fuori contesto. D.Qual è la risorsa principale della Chiesa cattolica nella globalizzazione, oggi? Quali i suoi punti di forza e quali invece i suoi punti deboli? R. Il punto debole, secondo me, è voler modernizzare senza discernimento. È molto generico, ma racchiude tante cose. Un altro punto debole che ci tocca da vicino è il clericalismo rigido. La rigidità. Si vedono giovani preti rigidi. Hanno paura del Vangelo e preferiscono il diritto canonico. Questa comunque è una caricatura, così per dire… C’è rigidità anche in certe espressioni, mentre il Signore ci ha aperto una tale gioia, una tale speranza! Eccole, le due gravi debolezze che conosco: il clericalismo e la rigidità. È per questo che amo dire (e qui cito me stesso, mi perdoni) che i preti devono essere dei «pastori con l’odore delle pecore». Si diventa pastori per servire la gente. Non per guardarsi allo specchio. Sono i deboli la vera ricchezza. I piccoli, i poveri, i malati, quelli che stanno in basso, che sono moralmente indeboliti… le prostitute che cercano Gesù e si lasciano toccare da Lui. Quando sono andato in Africa, ho incontrato sedici prostitute che lavorano con un gruppo di suore che le aiutano a uscire dalla tratta. È lì che si trova la ricchezza della Chiesa: nei peccatori. Perché? Perché quando ti senti un peccatore chiedi perdono, e così facendo getti un ponte. E il ponte si stabilisce eccome! Le piccole cose, le cose semplici: è questa la ricchezza. È ciò che mi fa bene. Parlo per esperienza personale. I due pilastri della nostra fede e delle nostre ricchezze sono le Beatitudini e Matteo 25; il «protocollo» secondo cui verremo giudicati: la nostra ricchezza è lì. Ed è lì che dobbiamo cercarla. Adesso dirà che sono un Papa troppo semplicista! (Ride). Ma grazie a Dio… Conservi il suo senso dell’umorismo! (Ridendo). L’umorismo è un cortocircuito dell’intelligenza. Perché tutti, ma proprio tutti, lo capiscono. Le dirò di più: il senso dell’umorismo è ciò che, sul piano umano, si avvicina di più alla grazia divina. Tratto da: 1
LUIGI64 Inviato 2 Maggio Autore Inviato 2 Maggio Sempre dal testo più sopra citato: Per quanto mi riguarda, io senza silenzio non posso comunicare. Nelle più autentiche esperienze di amicizia, e anche di amore, di amore con il padre, la madre, i fratelli, i momenti più belli sono quelli in cui si mescolano le parole, i gesti e i silenzi. La settimana scorsa è venuto a trovarmi un amico. «Come va?» «Bene.» Eravamo lì, tutti e due… Abbiamo parlato di varie cose. Mi ha parlato di sua moglie, dei figli e dei nipoti. Mi ha fatto piacere. E poi, a un certo punto, siamo rimasti in silenzio. In pace. È stato bello. Dopo un po’ mi ha fatto una domanda, e io gliene ho fatta un’altra. Siamo rimasti insieme un’ora, ma in tutto avremo parlato sì e no la metà del tempo. C’era una comunicazione di pace, di amicizia. È stato bello. Io ero felice e anche lui. Il silenzio però non deve essere come l’amido che si mette sulle camicie per stirarle: altrimenti si trasforma in rigidità, diventa un silenzio formale. E quello non è più silenzio. ...I più anziani hanno una maggiore capacità di comunicare. Non tutti, però: alcuni sono sempre nervosi, scorbutici e fanno la guerra al prossimo. Hanno questa capacità perché hanno la saggezza. La saggezza che si acquisisce con gli anni. Parlo molto con le persone anziane e ho una grande tenerezza per loro. Quando vedo delle persone anziane, in genere qualche vecchia signora con una bella luce negli occhi, faccio fermare la papamobile. Dicono cose così sagge. Sono convinto che, nel mondo di oggi, sia il momento degli anziani, dei nonni. Questo mondo ostenta il culto dell’efficienza e del lavoro, ma emargina i giovani perché non dà loro lavoro, ed emargina gli anziani perché li mette nelle case di riposo. È sulla china del suicidio. Nel libro di Gioele (Gl 3,1) c’è una profezia: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni». Per gli anziani è arrivato il momento di sognare e di raccontarci i loro sogni. Affinché i giovani possano compiere le profezie e cambiare il mondo. Questo non è il momento degli adulti, per così dire, delle persone mature. No, i protagonisti, quelli che salveranno il mondo, appartengono a queste due categorie. A patto che gli anziani sognino e raccontino i loro sogni, e che i giovani si approprino di quei sogni e li portino avanti. Nel Vangelo c’è una scena che mi commuove sempre: quella della presentazione al tempio (Lc 2,22-38). In questo passo si sottolinea per ben quattro volte che saranno i giovani a compiere la legge, e per tre volte si afferma che due anziani, Anna e Simeone, sono mossi dallo Spirito Santo. Solo loro sono capaci di fare i sogni dello Spirito. E ai giovani spetta ricevere questi sogni e compiere le profezie. Ora penserà che mi sono messo a fare la predica! ...Secondo la mia esperienza, i media e il mondo della comunicazione recepiscono solo quello che gli conviene. I media si trovano di fronte a quattro pericoli. Non parlo della comunicazione, ma dei media. Il primo pericolo è la disinformazione. Raccontare esclusivamente una parte delle cose, quella che fa più comodo. Penso ai giornali d’informazione, che inducono il lettore a formarsi un’opinione sbagliata sulla realtà, perché riportano solo la metà dei fatti. Il secondo pericolo è la calunnia. Infangare il prossimo. La calunnia, come si dice nel Barbiere di Siviglia, non è un venticello leggero, è un uragano. Il terzo pericolo è la diffamazione. Un essere umano può avere commesso qualche errore in passato. Ma magari nel frattempo è cambiato. Magari ha perfino chiesto perdono. E tutti hanno constatato che oggi il suo comportamento è diverso. Il pericolo è che i media, per minare la sua autorità, tirino in ballo quel passato. Ecco cos’è la diffamazione. Il quarto pericolo è questa «malattia» dei media, triste, spiacevole, sgradevole, che consiste nel compiacersi dei resoconti e delle descrizioni più scabrose, brutali e voyeuristiche. Nella sfera dei media e della comunicazione sociale, questi pericoli sono dappertutto. ...Sempre a proposito di comunicazione, voglio raccontarle un fatto storico. In piazza Risorgimento c’era un senzatetto polacco spesso ubriaco. Quando aveva bevuto, raccontava di essere stato compagno di seminario di Giovanni Paolo II e di avere poi abbandonato il sacerdozio. Nessuno gli credeva. Un giorno qualcuno ha riferito tutto a Giovanni Paolo II. «C’è un tizio che va in giro a raccontare una strana storia.» E Giovanni Paolo ha replicato: «Chiedetegli come si chiama». Era tutto vero. «Fatelo venire.» Gli hanno fatto fare una doccia e l’hanno portato dal Papa. Lui l’ha ricevuto con un «ma come stai?» e l’ha abbracciato. In effetti, l’uomo aveva abbandonato il sacerdozio per mettersi con una donna. E poi a un certo punto Giovanni Paolo II l’ha guardato. «Avevo appuntamento con il mio confessore, ma non è venuto. Mi confesseresti?» «Io? E come faccio?» «Avanti, te ne do licenza.» Si è inginocchiato e si è confessato. Dopo di che ha fatto lo stesso per il suo ospite. È andata a finire che quell’uomo è diventato cappellano in ospedale, e ha trascorso il resto della vita facendo del bene ai malati. Un atto di prossimità e di umiltà. Mi viene in mente un’altra parola. Prima ho parlato di gratuità, ma anche l’umiltà è essenziale. Non si comunica con l’orgoglio. L’unica chiave in grado di aprire la porta della comunicazione è l’umiltà. O perlomeno un atteggiamento di parziale umiltà. Si comunica da pari a pari. Si comunica dal basso verso l’alto. Ma se pretendi di comunicare soltanto dall’alto verso il basso, farai un buco nell’acqua.
LUIGI64 Inviato 3 Maggio Autore Inviato 3 Maggio Come si può riuscire a dialogare con gli atei e i non credenti, i quali non riconoscono né il peccato originale né la colpa? In che modo dialogare con loro, poiché ci troviamo spesso in un mondo laico e non religioso? Francesco: Fanno parte della realtà. Sono parte di vari poteri. E quando si parla di realtà, subito cozziamo contro punti di vista differenti. Ma la realtà costruisce dei ponti tra questi punti di vista differenti. E questo è l’opposto. La realtà, è la verità. I ponti, sono le nostre chiacchierate. Ma dobbiamo partire dalla realtà, non dalla teoria. Possiamo parlare della quadratura del cerchio fino alla fine del mondo, è inutile. Qual è la realtà? Ciascuno vede la realtà a modo suo. E io la vedo come credo che sia. La comprendo così com’è. Allora occorre cercare insieme. È un cammino di ricerca. Cercare. La mia domanda però è un’altra: come dialogare con lui? Francesco: Cosa dire a un ateo? Gli ho risposto così: «L’ultima cosa che devi fare è “dire” qualcosa (predicare) a un ateo. Tu vivi la tua vita, ascoltalo, ma non devi fare dell’apologia. Lasciala perdere, l’apologia. Se ti domanda qualcosa, rispondigli secondo la tua esperienza umana». Il dialogo deve instaurarsi attraverso l’esperienza umana. Io sono credente, ma la fede è un dono, un dono di Dio. Nessuno può possedere la fede per suo conto. Nessuno. Nemmeno se studi una biblioteca intera. È un dono. E se non hai questo dono, Dio ti salverà in un altro modo. E possiamo parlare di molti argomenti che abbiamo in comune: di problemi etici, di cose mitiche, di cose umane… Un sacco di cose. Di ciò che pensiamo, di questioni umane, di come comportarsi… Possiamo discutere dello sviluppo dell’umanità, parlare di cose comuni. Lui avrà un punto di vista diverso, e anch’io avrò un punto di vista diverso. Però si può parlare, e quando si arriva al problema di Dio, ognuno dice la sua. Ma ascoltando l’altro con rispetto. Le racconto una mia esperienza: una volta, una signora mi ha detto di aver ascoltato un sermone, o una conferenza, non ricordo bene. Mi ha detto di essere atea, ma che in quel momento aveva iniziato a dubitare della non esistenza di Dio. È questo che l’aveva colpita. Vale anche per gli agnostici. Sono differenti. --- ...I preti cattolici rappresentano più o meno il due per cento dei pedofili. Sembra poco, ma è troppo. Che un solo prete cattolico faccia questo, è qualcosa di orribile. Tolleranza zero! Perché il prete deve portare i bambini a Dio, non distruggere le loro vite. E poi c’è la concatenazione. Su quattro bambini abusati, due diventano dei violentatori. Ma lei sa che, da questo punto di vista, è la stessa utopia del comunismo. Il comunismo aveva la stessa utopia del popolo, all’inizio. Così come i socialismi utopistici, tra il 1850 e il 1900, che parlavano a loro volta del «Popolo». Il comunismo ha fallito, ma i suoi valori sono straordinari. Libertà, uguaglianza, amore. È cristiano… Francesco: Una volta mi hanno detto: «Ma lei è comunista!». No. Sono i comunisti a essere cristiani. Sono gli altri che hanno rubato il nostro vessillo! ...Quando la Chiesa diventa moralista… La Chiesa non è una morale, il cristianesimo non è una morale. La morale è una conseguenza dell’incontro con Gesù Cristo. Ma se non c’è nessun incontro con Gesù Cristo, questa morale «cristiana» non vale niente. Si può essere un Papa occidentale e al tempo stesso un Papa della globalizzazione? Sul piano culturale, antropologico, filosofico e umano? Il problema della Chiesa cattolica è che si tratta di un’istituzione universale i cui Pontefici sono tutti occidentali. Lei stesso viene dall’America latina. Un Papa può essere occidentale e universale al tempo stesso? Francesco: Fermiamoci a considerare la natura dell’autorità papale. Pensi a un iceberg. La parte visibile è l’autorità papale, ma il fondamento è la verità della Chiesa universale. Ora rovesciamo l’iceberg: il servizio del Pontefice sta sotto. È per questo che la concezione evangelica dell’autorità è il servizio: il Papa deve servire tutti. Non è un caso se uno dei titoli del Papa è «Servus servorum Dei». È un peccato che questo punto di vista non sia abbastanza noto o recepito. Vediamo la punta, ma non l’iceberg rovesciato. Perché siamo abituati al potere, alle gerarchie. Francesco: Le cose possono anche cambiare. Il fatto che oggi il Papa abiti in una pensione… sono piccoli segnali. Quali sono le parole chiave del suo pontificato, quelle per cui vorrebbe essere ricordato? Francesco: Ultimamente mi sono reso conto che la parola che uso più spesso è «gioia». Basta pensare ai tre testi che ho scritto: l’Evangelii gaudium, che significa «la gioia del Vangelo», la Laudato si’, che è un canto di gioia, l’Amoris laetitia, cioè «la gioia dell’amore»… Perché sono partito dalla gioia? Non saprei… il Vangelo ci regala una gioia grandissima. Poi c’è la croce, che ci permette di vivere i momenti difficili in pace – e la pace è il grado più intimo e più profondo della gioia. Un’altra parola? Francesco: Uso spesso «tenerezza» e «vicinanza». Ai preti dico spesso: «Per favore, siate vicini alla gente». Ai vescovi dico: «Non fate i principi, siate vicini alla gente, ai preti». «Vicinanza» è una delle parole che uso di più. C’è anche la preghiera. Pregare, ma pregare nel senso di stare davanti al Signore, ne abbiamo appena parlato. Una volta letto il Vangelo, come si fa a essere cattolici e reazionari? Francesco: C’è una chiave di lettura preliminare. Dobbiamo leggere il Vangelo con l’anima aperta, senza pregiudizi o preconcetti. Perché? Perché il Vangelo è un annuncio. Va accolto come si riceve qualcosa di totalmente nuovo. Se riceviamo il Vangelo in modo asettico, come un’ideologia o un pregiudizio, il Vangelo non può entrare in noi. Il Vangelo deve toccarci. E qual è la prova che il Vangelo va letto così, direttamente? È lo stupore. La meraviglia. Un reazionario, a prescindere dall’appartenenza politica (esistono anche dei reazionari di sinistra, per usare la terminologia classica destra-sinistra), è uno che va contro il Vangelo, che vi si accosta con la volontà di piegarlo ai suoi pregiudizi ideologici. È uno che si impadronisce del Vangelo. Può benissimo tesserne le lodi, dire: «Com’è bello, il Vangelo!», ma non proverà mai la meraviglia di colui che lo legge e lo sente senza… (accompagna l’idea con un gesto). È un po’ come se parlasse tramite un interprete. Un’esperienza faticosa – con lei ci riesco perché più o meno la capisco, perché ci guardiamo in faccia e l’interprete non è in fin dei conti un interprete. Ma quando devo parlare in qualche lingua straniera con un interprete, che seccatura! Riassumendo, dunque, il reazionario è reazionario perché ha un interprete interiore: la propria ideologia. Prendiamo il termine «laicità». La Chiesa non potrebbe dire chiaro e tondo che abbiamo bisogno di un modello laico che garantisca il rispetto di tutte le religioni, la tolleranza reciproca e la separazione tra sfera politica e sfera religiosa? Francesco: Certo, io questo l’ho già detto. Lo Stato è laico. Questo cosa significa? Che è aperto a tutti i valori, e uno di questi valori è la trascendenza. E quando è aperto alla trascendenza, è aperto a tutte le religioni. La parola che mi convince di meno è «tolleranza». Perché essere tolleranti vuol dire sopportare qualcosa che non ci piace. Non ci piace, ma la sopportiamo comunque. La tolérance, c’est un mot démodé, «tolleranza» è una parola fuori moda. Alla tolleranza preferisce la parola «uguaglianza»? Francesco: Sì, l’uguaglianza. Tutti uguali. Tolleranza è quando io porto la croce e, al contempo, tollero la croce di un’altra persona. Porto la croce di una religione, ma tollero la talaltra… Se ci atteniamo alla radice etimologica, «tollerare» significa permettere qualcosa che non dovrebbe esistere. E invece, in realtà, entrambe le cose hanno pari dignità. La laicità è lo Stato laico. Il che vuol dire aperto a tutti i valori. Uno di questi valori è la trascendenza. E a tal proposito vorrei fare una precisazione: lo Stato non può considerare le religioni come una sottocultura. Così facendo, infatti, nega la trascendenza. Uno Stato fatto di «sana laicità» ammette la trascendenza. Perciò a una donna deve essere consentito di portare il crocifisso, a un’altra il velo… Comunque sia, ciascuno esprime il proprio modo di trascendere con rispetto, non con «tolleranza». Con rispetto. Con l’uguaglianza dei diritti. Lei quindi preferisce i termini «uguaglianza», «fraternità», «umanesimo» e «laicità»? Francesco: La laicità dello Stato, sì. Perché esiste una forma di laicità che nasce da un malinteso, e consiste nel negare la possibilità di avere una religione. Si è laici quando si pratica una «sana laicità». Mi piace molto questo concetto. Una laicità che permette l’espressione verso la trascendenza, a seconda delle culture. Tratto sempre dal testo di cui sopra
LUIGI64 Inviato 5 Maggio Autore Inviato 5 Maggio Che cosa le fa più paura del secolarismo, che è a metà strada tra modernità e tradizione? Francesco: Finisce per diventare una dittatura, con criteri mondani, perché è lì che la mondanità entra in gioco. La secolarizzazione è anche legata al denaro. Le cose buone dal punto di vista mondano sono quelle che valgono dei soldi. Su questo si fonda la mentalità mondana che indebolisce la persona. Perché la allontana dalle radici? Francesco: È un problema. Lei parla di radici, ed è verissimo. Ma ci sono anche i modi di vita, che sono del tutto relativi e dipendono dalle circostanze. Oggi ci si lascia trasportare dalla corrente… Come se non bastasse, il secolarismo porta in sé una negazione della trascendenza. Niente a che vedere con la sana laicità. Il mondo secolare ha una propria autonomia, quella dei governi, delle società, delle leggi. Il secolarismo ci dice di andare avanti per… In un certo senso, il secolarismo inizia quando la laicità diventa ideologia? Francesco: Vorrei tornare sul tema della sana laicità, la quale prescrive che tutto ciò che è stato creato abbia una propria autonomia. Lo Stato, per esempio, deve essere laico. Laico. Abbiamo già parlato dell’eredità dell’Illuminismo francese. Un Paese laico è un luogo in cui c’è posto per tutti. È la trascendenza per tutti. Ciascuno può esercitare un mestiere, una professione ed essere al contempo aperto alla trascendenza: una cosa non esclude l’altra. Questo è uno Stato laico che rispetta tutti i valori umani. Il secolarismo è un movimento… non vorrei usare questa parola, in genere non lo faccio, ma cerco di farmi capire: è come una «malattia» che chiude porte e finestre a qualsiasi tipo di trascendenza. Al punto che si trascorre la vita all’interno, chiusi dentro. Una cattiva laicità, un laicismo esagerato. Il secolarismo cerca esclusivamente valori chiusi dentro di sé. Ed esclude la trascendenza. Probabilmente è questa la ragione per cui secondo lei, in uno Stato laico, le religioni devono poter occupare lo spazio pubblico. Tuttavia il concetto francese di laicità prevede che le religioni rimangano nella sfera privata. Francesco: Questo è laicismo. Un lascito dell’Illuminismo. Quanto alla politica, i cristiani devono impegnarsi in politica. Ma senza creare un «partito cristiano». Si può fare un partito con dei valori cristiani senza che sia cristiano. Sì, umiliarsi è una parola che evoca sempre la gerarchia, i rapporti dall’alto verso il basso. Lei la utilizza in una dimensione più umana. Umiliarsi vuol dire andare verso l’altro. Con umiltà. È un concetto raro. Per contro, nella visione democratica, si parla di uguaglianza, e non so fino a che punto l’uguaglianza possa contenere in sé l’umiliazione. Francesco: Io credo che, per essere uguali, occorra porsi al livello dell’altro. E all’inizio devo abbassarmi al livello dell’altro, anche se l’altro è superiore a me. Ma è sempre un atto che consiste nell’«andare a casa dell’altro». Sono io che devo andarci. Devo fare il primo passo. Non devo dire all’altro, come premessa, di entrare nella mia concezione delle cose, nel mio modo di pensare. La vera uguaglianza consiste esattamente nell’essere capaci di compiere questo atto di umiltà per andare verso l’altro. E si potrebbe dire che c’è un’uguaglianza formale e un’uguaglianza reale. Francesco: Sì, formalmente, tutti sono uguali. Ma nella vita quotidiana… È un modo di agire rivolto verso il servizio. Agire così è cristiano, la comunicazione cristiana è il servizio. Non sono venuto per essere servito, ma per servire, dice Gesù nel Vangelo. Torniamo al tema del dialogo interreligioso. Voleva aggiungere qualcosa in merito al rigorismo, credo… Francesco: Dietro ogni rigidità, si nasconde un’incapacità di comunicare. E ho sempre trovato… Prenda quei preti rigidi che hanno paura della comunicazione, prenda gli uomini politici rigidi… È una forma di fondamentalismo, che è una rigidità. Quando mi imbatto in una persona rigida, soprattutto se è giovane, mi dico subito che è malata. Il pericolo è che cerchino la sicurezza. A questo proposito, le racconto un aneddoto. Quand’ero maestro dei novizi, nel 1972, accompagnavamo per uno o due anni i candidati che volevano entrare nella Compagnia. Studiavano all’università, e il sabato e la domenica venivano da noi. Al noviziato, facevano dello sport, discutevano con il loro direttore spirituale, ma non avevano un rapporto diretto con me, quasi non mi guardavano, non ero qualcuno di importante. Sostenevano dei colloqui, e venivano sottoposti a test piuttosto approfonditi, come i test di Rorschach, di cui si occupava una buona équipe, della quale faceva parte una psichiatra credente, cattolica, che studiava laggiù. Io accompagnavo questi giovani ai test. Mi ricordo di uno di loro, si vedeva che era un po’ rigido, ma aveva grandi qualità intellettuali, e io lo giudicavo di ottimo livello. Ce n’erano altri, molto meno brillanti, e mi domandavo se sarebbero passati. Pensavo che sarebbero stati respinti, poiché avevano delle difficoltà, ma alla fine sono stati ammessi, perché possedevano questa capacità di crescere, di riuscire. E quando è arrivato l’esito del colloquio del primo studente, hanno detto subito di no. «Ma perché? È così intelligente, pieno di qualità.» «Ha un problema» mi hanno spiegato. «È un po’ compassato, un po’ artificioso su alcune cose, un po’ rigido.» «E perché è così?» «Perché non è sicuro di sé.» Si percepisce che questi individui intuiscono inconsciamente di essere «malati psicologicamente». Ma non lo sanno, lo sentono. È qualcosa di inconsapevole, non lo sanno. E quindi vanno in cerca di strutture forti che li difendano nella vita. Diventano dei poliziotti, si arruolano nell’esercito o entrano nella Chiesa. Delle istituzioni forti, per difendersi. Svolgono bene il loro lavoro, ma una volta che si sentono sicuri, inconsapevolmente, la malattia si manifesta. E qui sorgono i problemi. E ho domandato: «Ma, dottoressa, come si spiega tutto questo? Non capisco bene». Lei mi ha dato questa risposta: «Non si è mai chiesto perché ci sono dei poliziotti seviziatori? Questi giovanotti, quando sono arrivati, erano dei bravi ragazzi, buoni, ma malati. Poi sono diventati sicuri di sé, e la malattia si è manifestata». La rigidità mi fa paura. Preferisco un giovane disordinato, che ha dei problemi normali, che perde la calma… perché tutte queste contraddizioni lo aiuteranno a crescere. Abbiamo già parlato delle differenze tra argentini e francesi… Gli argentini sono fissati con la psicanalisi, è vero. A Buenos Aires c’è un quartiere molto chic, chiamato Villa Freud. In quel quartiere sono concentrati tutti gli psicanalisti. Tratto sempre dal testo di cui sopra 1
LUIGI64 Inviato 6 Maggio Autore Inviato 6 Maggio "Nessuna Verità può contraddirne un'altra, la Luce è utile in qualsiasi lampada brilli. Una rosa è bella in qualsiasi giardino fiorisca. Una stella ha lo stesso splendore sia che brilli in Oriente che in Occidente" --- Verrà il giorno in cui tutte le religioni del mondo si uniranno, perché in principio sono già una sola. Non occorrono divisioni, visto che soltanto le forme esteriori le separano. Tra i figli degli uomini troviamo alcune anime che soffrono per l’ignoranza. Affrettiamoci a istruirle. Altre sono come fanciulli bisognevoli di cure e di educazione finché non crescono. Altre ancora sono ammalate, a queste dobbiamo portare la guarigione divina. --- L’Amore è la massima legge che regge questo possente ciclo spirituale, l’unica forza che incatena fra loro i diversi elementi di questo mondo materiale, la suprema forza magnetica che governa i moti delle sfere nei regni del cielo. --- Quando viene un pensiero di guerra, opponetegli un più forte pensiero di pace. Un pensiero d’odio dev’essere distrutto da un più potente pensiero d’amore. .--- Se desiderate con tutto il cuore la fratellanza con ogni razza del mondo, i vostri pensieri positivi e spirituali si propagheranno, il vostro desiderio diverrà il desiderio degli altri e si farà sempre più forte fino a fissarsi nella mente di tutti gli uomini. (Abdu’l-Bahá )
LUIGI64 Inviato 6 Maggio Autore Inviato 6 Maggio La Critica della ragion pura di Kant ci fornisce le basi per comprendere l’ineffabile natura del divino. Come osserva Kant, infatti, ogni nostra esperienza avviene nell’ambito dello spazio e del tempo. Pertanto siamo separati gli uni dagli altri, giacché esiste lo spazio a separarci. Il tempo e lo spazio sono i fattori di condizionamento profondo della nostra esistenza umana. Non possiamo fare esperienza di nulla al di fuori dello spazio e del tempo. Kant le definisce «le forme estetiche della sensibilità». È ciò che in India viene chiamato māyā : la dimensione dello spazio e del tempo che trasforma ciò che trascende la manifestazione in un mondo frammentato . Quando pensiamo a ciò di cui facciamo esperienza nella percezione delle forme nello spazio e nel tempo, utilizziamo la grammatica del pensiero, le cui categorie fondamentali sono essere e non essere. Esiste un Dio? Se la parola «Dio» significa qualcosa, non deve significare nulla. Dio non è un fatto. Un fatto è un oggetto nella dimensione dello spazio e del tempo, un’immagine nell’ambito del sogno. Dio non è un sogno, Dio non è un fatto: «Dio» è un termine che si riferisce a qualcosa al di là di tutto ciò che può essere concepito o nominato. Eppure le persone pensano al proprio Dio come a un essere dotato di sentimenti, il quale, proprio come noi, preferisce alcuni ad altri, e detta loro determinate regole di vita. Mosè ricevette una grande quantità di informazioni da quello che potremmo chiamare questo non-fatto . Così com’è concepito in particolar modo nella tradizione giudaico-cristiana, Dio è un termine finale. In quasi tutti gli altri sistemi, invece, gli dèi sono agenti, manifestazioni, o funzionari immaginari di un’energia che trascende ogni possibile concettualizzazione. Non sono la fonte dell’energia, bensì ne sono gli agenti. Poniamo la questione in questi termini: Dio è la fonte, o è un modo umano di concepire la forza e l’energia che regge il mondo? Nella nostra tradizione Dio è un maschio. Eppure, tale differenziazione tra maschile e femminile è compiuta nella dimensione dello spazio e del tempo, nell’ambito della dualità. Se Dio è oltre la dualità, non si può dire che sia un «Lui». E nemmeno che sia una «Lei». Non si può nemmeno dire che sia un «Esso». Ecco perché, quando ne parlano, i maestri zen dissolvono sempre il termine nominando subito il suo contrario. Ciò che non è una cosa. Ciò che non è quello. È questo il riferimento ultimo delle nostre metafore. Esistono quindi riferimenti metaforici, connotazioni, al di qua di quella distanza estrema, che schiudono il mistero del funzionamento di questa energia trascendente nella dimensione dello spazio e del tempo. Tratto da: J. Campbell è stato uno dei più grandi studiosi di mitologia comparata
LUIGI64 Inviato 7 Maggio Autore Inviato 7 Maggio Come abbiamo detto in precedenza, lo scopo precipuo di una mitologia dinamica, che potremmo evidenziare in quanto sua funzione propriamente religiosa , è quello di risvegliare e conservare nella persona un’esperienza di stupore, umiltà e rispetto nel riconoscimento del mistero ultimo che trascende ogni nome e forma, «dal quale» come si legge nelle Upaniṣad , «le parole ritornano indietro». Negli ultimi decenni, la teologia si è spesso concentrata su un esercizio letterario volto alla spiegazione di testi arcaici, che sono composti di nomi, episodi, detti e azioni storicamente determinati e ambigui, tutti attribuiti all’«ineffabile». Potremmo dire che la fede nelle antiche Scritture o quella nella scienza più avanzata appartengono ugualmente, al giorno d’oggi, solo a coloro che non hanno idea di quanto misterioso sia, realmente, il mistero di sé stessi. Quanti di noi avvertono il peso descritto dal fisico Erwin Schrödinger , secondo cui la vita che state vivendo non è soltanto una parte dell’intera esistenza, ma, in un certo senso, è il tutto ; solo il tutto è costituito in modo tale da non poter essere misurato a un semplice colpo d’occhio. Si tratta […] di quello che i brahmani esprimono con una formula sacra e mistica, eppure altrettanto semplice e chiara: Tat twam asi , quello sei tu. Questa è l’intuizione fondamentale di ogni discorso metafisico, che diviene immediatamente nota – poiché conoscibile da parte di ciascuno, singolarmente – solo quando i nomi e le forme, quelle che io chiamo le «maschere di Dio», si dissolvono. Eppure, come hanno osservato in molti, tra cui Guglielmo di Occam, Immanuel Kant e Henry Adams, la categoria, o il nome, dell’unità in quanto tale è della mente, e non può essere attribuita a qualsiasi presunta sostanza, persona o «Fondamento dell’Essere». Allora chi mai può parlare a chiunque di noi dell’esistenza o non esistenza di Dio, se non puntando implicitamente al di là delle sue stesse parole e di sé e di tutto quel che sa, o può descrivere, verso il trascendente, l’esperienza del mistero? ...Addentriamoci ora nel mistero tramite una meditazione sulla nascita, la vita e la morte di Gesù. A questo riguardo, appare rilevante la questione posta nel I secolo, ovvero se il cristianesimo fosse una religione misterica o la religione misterica di cui tutte le altre erano re-figurazioni. Diversi simboli, come gli animali delle religioni misteriche egizie che soffiano il loro spirito sul Bambin Gesù – il toro del dio Osiride e l’asino di suo fratello Seth nella mangiatoia – suggeriscono che la loro concezione iniziale fosse proprio così. Analogamente, sempre nella scena della natività, i Re Magi, mentre rendono omaggio a Gesù, indossano il copricapo di Mitra. È chiaro che, tanto in Orfeo quanto in Cristo, ricorre esattamente lo stesso archetipo, il motivo dell’abbandono del mondo fisico, ancora simboleggiato da una croce in astronomia, per quello spirituale. Lasciano la Terra, simbolo della Madre, per entrare nel regno del Padre. Nella traduzione di un rito neolitico di fertilità in un rito di fertilità spirituale, vediamo la morte e la risurrezione del chicco di grano, riconfigurato nel simbolo della morte del vecchio Adamo e della nascita del nuovo. ...Quando l’Uomo mangiò i frutti dell’Albero, si scoprì nella dimensione della dualità anziché dell’unità. Di conseguenza si trovò espulso, in esilio. I due cherubini posti a guardia del paradiso rappresentano le coppie di opposti tra cui, essendo stato cacciato dal regno dell’unità, ora si troverà a vivere. Siamo tenuti in esilio dal nostro vincolo con questo mondo. Cristo supera tutto ciò – «Io e il Padre siamo una cosa sola» – e torna al regno dell’unità da cui siamo stati espulsi. Questi sono misteri. Riecheggiano e traducono in un’altra configurazione di immagini quello che noi stessi stiamo vivendo. Ciò che emerge con il chicco di grano, in quanto particella di quell’unica vita che informa di sé tutte le cose, è la rivelazione dell’unità spirituale in tutti i suoi aspetti. Non solo, ma anche la rivelazione che quell’unica vita può essere personificata in una divinità, come avviene nella tradizione cristiana, e da cui tutto deriva. Ma la personificazione non è la cosa importante. Qui si tratta di una rivelazione trans-teologica e trans-personificata. Tratto dal testo di cui sopra
LUIGI64 Inviato 8 Maggio Autore Inviato 8 Maggio Già nell’VIII secolo a.C., nella Chāndogya Upaniṣad , si annunciava la parola chiave di questa meditazione: tat twam asi , «quello sei tu». Il senso ultimo di una religione come l’induismo o il buddhismo è quello di suscitare nell’individuo, in un modo o nell’altro, un’esperienza della sua identità con quel mistero che è il mistero di ogni essere. «Quello sei tu!». Ma non il «tu» che sta a cuore a te e che ti distingue da tutti gli altri Un modo per giungere alla conoscenza di un «tu» più profondo è quello di distinguere, come si dice, tra l’oggetto e il soggetto della conoscenza, identificandosi col soggetto, il testimone, e non con ciò che è percepito. Per esempio: «Io osservo e conosco il mio corpo: io non sono il mio corpo»; «Io conosco i miei pensieri: io non sono i miei pensieri»; «Io conosco i miei sentimenti: io non sono i miei sentimenti»; «Io sono il soggetto conoscente: io sono il testimone». Quand’ecco che arriva il Buddha e ci dice che non c’è nessun testimone. In questo modo ci possiamo ritirare al di là del muro dello spazio. E giungiamo così alla consapevolezza dell’aspirazione «Neti! Neti!», ovvero «Non questo! Non questo!». Qualsiasi cosa possiate nominare non lo è, in nessun modo. «Iti! Iti!», «È lì! È lì!». Tale ossimoro, o affermazione contraddittoria, è la chiave di ciò che chiamiamo il mistero dell’Oriente. Non solo, ma è anche il mistero di molti nostri mistici occidentali; e parecchi sono stati bruciati sul rogo per aver osato tanto. A ovest dell’Iran, in ciascuna delle tre grandi tradizioni originarie del Vicino Oriente, ovvero l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, tali concetti sono impensabili, e costituiscono una pura eresia. Dio creò il mondo. Il Creatore e la creatura non possono essere identici, perché, come dice Aristotele, A non può essere non-A. La nostra teologia, quindi, prende le mosse dal punto di vista della coscienza di veglia e dalla logica aristotelica; invece, a un altro livello di coscienza – ed è il livello a cui tutte le religioni devono infine fare riferimento –, il mistero ultimo trascende le leggi della logica dualistica, della causalità e dello spazio-tempo. Chiunque dica, come si ritiene che Gesù abbia detto (Giovanni 10,30), «Io e il Padre siamo una cosa sola», nella nostra tradizione è tacciato di blasfemia. Gesù Cristo fu crocifisso per questa blasfemia; e novecento anni dopo, il grande mistico sufi, al-Hallaj, fu crocifisso per lo stesso motivo. Si narra che questi avesse paragonato il desiderio del mistico a quello della falena per la luce. Di notte la falena vede bruciare la fiamma di una lanterna e, spinta dal desiderio irresistibile di unirsi a quella fiamma, svolazza intorno alla lanterna fino all’alba, poi ritorna dai suoi amici e racconta loro la sua esperienza con le parole più soavi. «Non hai un aspetto tanto migliore» le dicono, giacché le sue ali sono piuttosto malconce: tale è la condizione dell’asceta. Ma la notte seguente la falena fa ritorno alla lanterna, riuscendo finalmente a oltrepassare il vetro e a unirsi alla sua amata fino a divenire fiamma lei stessa. Nella nostra tradizione non riconosciamo la possibilità di una simile esperienza di identificazione con il fondamento dell’essere di ciascuno. Al contrario, valorizziamo il fatto di conseguire e mantenere una relazione con una personalità concepita come il nostro Creatore. Nella tradizione cristiana, non meno esclusivamente, il personaggio storico di Gesù è ritenuto la sola e unica incarnazione di Dio sulla terra, l’unico vero-Dio-vero-Uomo. Ci viene insegnato a considerare questo avatar un miracolo. In Oriente, al contrario, tutti devono rendersi conto di questa verità in sé stessi, e una simile incarnazione di Kṛṣna, Rāma o Buddha va pensata semplicemente come un modello tramite cui comprendere il mistero dell’incarnazione in un sé individuale. Analogamente, la tradizione cristiana si fonda sull’idea di una singola incarnazione, la cui autenticazione risiederebbe nell’evidenza fornita da alcuni miracoli, ai quali fece seguito la fondazione di una Chiesa e la sua continuità nel tempo: ogni elemento di questo dogma è altrettanto storico . Ecco perché i nostri simboli sono stati così frequentemente e insistentemente interpretati come relativi non, in primo luogo, al nostro sé interiore, bensì a presunti eventi storici esterni. Questa enfasi può essere funzionale all’istituzione della Chiesa o alla prosperità della sinagoga, ma non contribuisce affatto alla salute spirituale degli individui più scettici. Tratto dal testo di cui sopra
giacomino Inviato 9 Maggio Inviato 9 Maggio Il 03/05/2025 at 14:14, LUIGI64 ha scritto: Francesco: Cosa dire a un ateo? Gli ho risposto così: «L’ultima cosa che devi fare è “dire” qualcosa (predicare) a un ateo. Tu vivi la tua vita, ascoltalo, ma non devi fare dell’apologia. Lasciala perdere, l’apologia. Se ti domanda qualcosa, rispondigli secondo la tua esperienza umana». Il dialogo deve instaurarsi attraverso l’esperienza umana. Io sono credente, ma la fede è un dono, un dono di Dio. Accipicchia non ho ricevuto questo dono…
Gaetanoalberto Inviato 9 Maggio Inviato 9 Maggio @LUIGI64 Leggo solo adesso e non tutto. Molto bello. Molto condivisibile (imho) 1
LUIGI64 Inviato 9 Maggio Autore Inviato 9 Maggio L’altro modo di interpretare il termine «trascendente» è quello di Kant nella Critica della ragion pura , ovvero in quanto mistero ultimo dell’essere che, appunto, trascende ogni concettualizzazione ed è al di là del pensiero, delle categorie. Questa è la nozione che si ritrova nelle Upaniṣad . A quel tempo, in India, quando rifiorì il potere femminile della Dea, si diffuse la consapevolezza che il mistero ultimo si cela nel mistero dell’essere di ciascuno, ma rimane inevitabilmente insondabile per qualsiasi pensiero individuale. Tale esperienza spirituale è stata denominata gnosticismo, dal termine greco gnosis , conoscenza, e descrive questa comprensione intuitiva del mistero che trascende la parola. Perciò il linguaggio che usiamo nel parlare del mistero religioso non può che essere quello della metafora. La metafora è il linguaggio del mito che, come abbiamo osservato, rimane un termine ampiamente frainteso. Perfino molte persone cosiddette istruite pensano che «mito» significhi qualcosa di falso, ovvero una menzogna o una distorsione riguardo a una persona o a un evento. Ma questo fraintendimento, come sappiamo, sorge solo quando interpretiamo erroneamente il linguaggio metaforico. Tutte le nostre idee religiose sono metafore di un mistero. È cruciale ricordarsi che, se scambiamo la denotazione della metafora per la sua connotazione, perdiamo completamente il messaggio contenuto nel simbolo. Dio è un simbolo. La connotazione del simbolo è situata al di là di ogni denominazione, di ogni numerazione, di ogni categoria di pensiero. Spesso si domanda: «Dio è uno o è molti?». Ma queste, appunto, sono categorie di pensiero, e quindi inadatte a parlare di ciò che sta al di là di ogni discorso. Probabilmente vi suonerà familiare una delle mie citazioni preferite di Heinrich Zimmer, il quale soleva dire: «Le cose migliori non si possono esprimere a parole; quelle appena inferiori vengono fraintese». Perché quelle appena inferiori vengono fraintese? Perché sono metafore in cui – come evidentemente abbiamo già ripetuto troppe volte – la denotazione viene fraintesa per la connotazione. Gesù muore, risorge e va in Cielo. Questa metafora esprime qualcosa di religiosamente misterioso. Gesù non può essere letteralmente andato in Cielo, perché non esiste alcun luogo geografico siffatto. A quanto ci dicono, Elia salì nei cieli a bordo di un carro, ma non dobbiamo prendere questa affermazione come se descrivesse un viaggio reale. Si tratta di eventi spirituali espressi in forma di metafora. E sembrano esistere solo due categorie di persone: quelle che considerano le metafore dei fatti, e quelle che sanno che non lo sono. Questi ultimi sono chiamati «atei», gli altri «religiosi». Quale delle due categorie recepisce davvero il messaggio? Non giova a nulla gettare via quest’ultimo. Tutti i messaggi del mito, sin dall’epoca delle prime civiltà agricole, parlano di ciò che costituisce i valori della vita del singolo, e quella di tutti. In fin dei conti il messaggio è lì, celato in quella cosa che sembra bloccarci perché presa alla lettera anziché metaforicamente. Poi, soprattutto dopo che i diversi orizzonti in cui è sorto il mito si sono spezzati, ci rendiamo conto che, vivendo tutti insieme su questo pianeta, dobbiamo cominciare a interpretare la nostra mitologia come qualcosa che si riferisce non soltanto a noi stessi, ma, in congiunzione con tutte le mitologie espresse mediante la metafora, a tutti. Tratto dal testo di cui sopra
Gaetanoalberto Inviato 9 Maggio Inviato 9 Maggio Hai una bella resilienza 😀 Io sono abbastanza terra terra, e non ho mai coltivato aspetti meditativi e spirituali. Ho amato la filosofia. Però sono convinto che una certa spiritualità sia una delle molteplici espressioni del bene.
LUIGI64 Inviato 9 Maggio Autore Inviato 9 Maggio È amare l'arte del buono, bello e vero Quando si continuano ad approfondire questi argomenti, non in maniera confessionale ma con mente aperta, è come ammirare un quadro, i cui colori variegati, strani a volte sgargianti o cupi, evocano sommessamente la dimensione dell'Oltre ☺️ 1
LUIGI64 Inviato 10 Maggio Autore Inviato 10 Maggio Genesi La prima parte del libro della Genesi è mitologia pura, ed è largamente quella dei popoli mesopotamici. Abbiamo il Giardino dell’Eden, perché quella è l’era mitologica in cui si entra in un giardino mitologico. Il divieto di mangiare la mela dall’albero proibito è un antico motivo popolare, chiamato appunto «la cosa proibita». Non aprite quella porta, non guardate da quella parte, non mangiate quel cibo. Se volete capire perché mai Dio abbia fatto una cosa del genere, non dovete fare altro che dire a qualcuno: «Non fare questo». Al resto ci penserà la natura umana. L’idea di Dio, in questo racconto, era quella di far uscire Adamo ed Eva dal Giardino. Che dire di quest’ultimo? Era un luogo di armonia, di unità, privo di divisioni nella natura degli esseri e delle cose. Quando ci si ciba del frutto della Conoscenza del Bene e del Male, però, si scoprono le coppie di opposti, che includono non solo il bene e il male, la luce e la tenebra, il giusto e lo sbagliato, ma anche il maschio e la femmina, così come Dio e l’Uomo. Dunque l’Uomo mangia il frutto della Conoscenza del Bene e del Male. Per timore che possa mangiare anche il frutto del secondo albero, quello della vita immortale, Dio caccia l’Uomo dal Giardino, e pone due cherubini, armati di spade fiammeggianti, a guardia delle sue porte. Adamo ed Eva vengono separati da Dio e diventano consapevoli di questa frattura nel loro senso di unità. Cercano di coprire la propria nudità. La domanda allora diventa: come fare a tornare nel Giardino? Per comprendere questo mistero, dobbiamo dimenticare i giudizi, l’etica, il bene e il male. ...Ripensiamo alle porte del Giardino, con i due cherubini armati di spade fiammeggianti, ed ecco che siamo fuori, in esilio dal luogo dove tutto era uno. Qual è la strada per tornare? Sembra che sia Dio a tenerci fuori dal Giardino, proibendoci di rientrarvi. Nella tradizione buddhista, invece, il Buddha dice: «Non avere paura, vieni avanti». Ma cosa significa? Anche nel tema buddhista ci sono due guardiani, uno con la bocca aperta, l’altro con la bocca chiusa: sono opposti. Uno rappresenta la paura, l’altro il desiderio. La paura è quella della morte, e il desiderio quello del possesso mondano: paura e desiderio sono ciò che ci tiene fuori dal Giardino. Non è Dio a tenerci in esilio, siamo noi stessi. ...A sua volta, Blake, nel suo Il matrimonio del cielo e dell’inferno , scrive: «Togliete il cherubino dalla porta, e vedrete che tutto è infinito. Ripulirete i vostri occhi dal desiderio e dalla paura, e vedrete ogni cosa come una rivelazione del Divino». Tutto quello che si trova in questi insegnamenti è proprio qui davanti a noi. Nel Vangelo di Tommaso, rinvenuto nelle giare di Nag Hammadi portate alla luce dal tempio egizio, Gesù dice: «Gli uomini chiedono: “Quando verrà il Regno?”; e la risposta di Gesù è un esempio di puro gnosticismo: «Il Regno non verrà perché lo attendete. Il Regno del Padre è diffuso sulla terra, e gli uomini non lo vedono». Di questo tratta il racconto della cacciata dal Giardino dell’Eden: non riguarda un evento storico, ma un’esperienza psicologica, spirituale, una metafora di quanto ci sta accadendo proprio ora. Il racconto della Caduta e dell’esilio dall’Eden è una delle due storie della creazione contenute nel libro della Genesi, ed è la più antica. Dio possedeva un Giardino, vi si narra, perché ne aveva bisogno. Questo è un tema che risale agli antichi Sumeri: nei loro racconti, infatti, gli dèi, stanchi di coltivare i campi per nutrirsi, creano il genere umano affinché lavori al posto loro. ...Rivolgiamoci ora al Simposio di Platone, che risale a circa quattrocento anni dopo, e che contiene una storia meravigliosa. Un tempo gli esseri umani erano creature doppie, ossia avevano quattro braccia, quattro gambe e via dicendo. Ne esistevano tre tipi: maschio-maschio, femmina-femmina e maschio-femmina. Gli dèi, però, erano insoddisfatti e li rinnegarono: Zeus e Apollo li tagliarono in due, e girarono loro le teste, in modo da farli sembrare tutti uguali. Il punto in cui prima erano uniti venne ricomposto, e in seguito sarà individuato nell’ombelico. Ciononostante, quelle creature non facevano altro che abbracciarsi, desiderando tornare all’unità perduta. Gli dèi dovettero prenderne atto e si dissero: «In questo modo non combineremo mai nulla». Così li separarono, spedendone uno qui e l’altro là, obbligandoli a ricercarsi a vicenda. Questo è un mito piuttosto comune, caratterizzato da uno specifico motivo abbastanza diffuso, all’epoca, in quella zona del mondo. È il mito dell’androgino originario. ...Dio stesso è sia maschio che femmina. I nomi che gli vengono attribuiti combinano sia elementi maschili che femminili, ovvero l’idea di una separazione e quella di un ricongiungimento. ...Il primo capitolo della Genesi, un testo di molto posteriore, descrive tutt’altra creazione. Si tratta di un testo post-Esdra, cioè successivo all’esilio a Babilonia e al ritorno a Gerusalemme. Qui è Dio a creare il mondo attraverso la parola. Dobbiamo ricordare che esiste un testo egizio in cui Dio crea ogni cosa pronunciandone il nome; dà alla luce solo con la parola. Questa idea della parola come simbolo sessuale è piuttosto diffusa. I denti sono la vagina e la lingua è il fallo, e dal loro formare insieme le parole nascono tutti gli dèi, i cieli e il mondo intero. È così che Dio crea nel primo capitolo dell’Antico Testamento. E anche la storia di Caino e Abele è probabilmente una trasformazione di quell’omicidio primigenio, o di quella primigenia separazione, da cui deriva ogni cosa. Estratto sempre dal testo più sopra citato
LUIGI64 Inviato 11 Maggio Autore Inviato 11 Maggio La grotta Anche il motivo della nascita in una grotta è antichissimo. Questo simbolo è associato in particolare al solstizio d’inverno, quando il sole raggiunge il punto più lontano dalla Terra, che a sua volta si trova alla sua massima inclinazione, e la luce è al nadir dell’abisso. Questa è la data di nascita del dio Mitra, Signore della Luce, il quale nasce stringendo in mano un’arma intagliata nella roccia – ricordiamo che sua madre è la Terra. Nei primi tre secoli Mitra era il principale contendente del cristianesimo. La data del Natale fu stabilita il 25 dicembre, il momento del solstizio, proprio per contrastare il Signore della Luce, Mitra. Nessuno sa con certezza quando nacque Cristo; la data fu fissata al 25 dicembre per motivi puramente mitologici, non storici. La grotta è sempre stata lo scenario dell’iniziazione, dove avviene la nascita della luce. Anche qui ritroviamo l’idea generale della grotta del cuore, la camera oscura dove la luce del divino appare per la prima volta. Questa immagine è associata anche all’emergere della luce primordiale, fuori dall’abisso del caos primigenio; la profonda risonanza di questo tema è facilmente comprensibile. La scena cristiana della Natività è sempre stata avvolta da un clima di buonumore. Le prime incisioni di una scena simile si trovano su sarcofagi del II e III secolo. Una delle più antiche mostra il Bambin Gesù nella culla, circondato dall’asino, il bue e i Magi. Originariamente, il Natale coincideva con la visita dei Magi. In questa particolare incisione, indossano il cappello del dio Mitra, che ricorda vagamente il berretto frigio dei giacobini: sono i Re Magi, ovvero i sacerdoti del Signore Mitra. All’epoca, inoltre, l’asino era l’animale simbolo di Seth, e il bue quello di Osiride. Ricordiamo il conflitto tra queste due divinità egizie, e che Seth uccise suo fratello Osiride. Osserviamo quindi gli animali di Seth e Osiride riconciliati nel Cristo bambino. Questi due poteri, quello della luce e quello delle tenebre, sono riuniti in Lui. Gli offrono il loro alito, proprio come Dio soffiò il Suo spirito. Le più antiche figure eroiche concedono dunque il loro potere al più giovane, e i Magi, che rappresentano Mitra, si uniscono a loro intorno al nuovo Re. In questa piccola scena natalizia si può leggere l’affermazione che le più antiche figure del salvatore, Osiride e suo fratello Seth, al pari di Mitra, riconoscono Cristo per chi Egli è. In questa antichissima rappresentazione si riscontra già l’idea cattolica per cui i miti più antichi sono una prefigurazione del nuovo. Nel II e III secolo nessuno poteva fraintendere il significato di tale particolare configurazione in quella piccola scena. Il bambino come maestro Le gesta infantili caratterizzano anche la vita del Buddha, con l’aggiunta di una struttura psicologica molto forte, a differenza del racconto della nascita di Gesù. Nella leggenda del Buddha, uno yogi nota i trentadue segni sulle sue mani e il suo corpo e gli dice: «Tu sarai un re del mondo, o un maestro del mondo». Anche qui, dunque, c’è l’idea della regalità e di un salvatore del mondo. Anche suo padre è un re, che non vuole che il figlio diventi un maestro spirituale. Così lo conduce in un ambiente protetto, circondato da belle ragazze e lontano da spiacevoli distrazioni. Quando però si riduce a una specie di cadavere e prende coscienza dei desideri del mondo, inesperto com’è, ne rimane colpito e cerca di adattarsi e assimilarli. Non c’è nulla di tutto ciò in Gesù. Poi il Buddha incontra uno yogi e afferma: «Ecco un uomo che è riuscito a liberarsi da tutti i desideri», e si mette in viaggio. Come il Buddha va in cerca dei sommi maestri del suo tempo, li interroga e poi li supera tutti, così Cristo va dal più grande maestro del suo tempo, Giovanni Battista, per farsi battezzare e iniziare da lui, e poi lo supera. Tratto dal testo sopra citato
LUIGI64 Inviato 12 Maggio Autore Inviato 12 Maggio Potrebbe spiegare che cosa intende con «il problema» della mitologia al giorno d’oggi? Campbell: Un’immagine mitologica è capace di evocare e dirigere energia psichica. È un segno evocatore e conduttore di energia. Una mitologia è un sistema di immagini affettive o emotive; determinate rappresentazioni provocano determinate emozioni o affetti. La nostra mitologia, la vostra e la mia, è il nostro particolare patrimonio di immagini affettive. Eppure, consideriamo che cosa le è stato fatto. A livello razionale, le immagini sono definite assurde e, perciò, private di senso. Il nostro sistema razionale rompe le loro connessioni e fa’ in modo che la loro energia sia inservibile per noi e per la nostra vita. In secondo luogo, i nostri simboli sono stati resi neutri dalle religioni istituzionali, che li interpretano storicamente. I simboli che rimandano al mistero della psiche o dell’anima sono stati interpretati in riferimento a eventi storici reali, che però, come ci informano gli studiosi moderni, non sono mai accaduti. Finché la gente poteva pensare che fosse davvero esistito un Giardino dell’Eden dove un serpente parlò ad Adamo ed Eva, e dove si verificò un incidente simile a una Caduta, tale da rendere necessaria una Redenzione per salvarci; finché poteva credere che fosse esistito un Diluvio universale, una Torre di Babele, un Abramo, un Esodo dall’Egitto, un’edizione dei Dieci Comandamenti affidata fisicamente a Mosè sulla vetta del monte Sinai, seguita da una seconda consegnatagli dopo che aveva rotto le tavole della prima; finché la gente poteva concepire e accettare tutte queste cose come fatti storici, poteva anche accettare tali simboli e frequentare le chiese e i templi con le loro tradizioni religiose. Ma non appena le persone cominciano a rendersi conto che i suddetti eventi quasi sicuramente non si sono verificati, i simboli perdono il loro carattere storico e la loro energia emotiva si attenua e si esaurisce. Come può la persona comune raggiungere la trascendenza? E quale ruolo vi giocano i rituali? Campbell: Nel dizionario la parola «trascendenza» possiede due definizioni distinte. Il significato più proprio e ovvio del termine è «ciò che va oltre qualcosa», è al di fuori o al di là di qualcosa. Trascende: è oltre. La domanda principale è: cosa c’è oltre? La frase «Dio è trascendente» significa, a un livello, che Dio è qualcosa al di là del mondo. Può esistere un fatto che è al di là del fatto del mondo. L’altra accezione di trascendenza è «ciò che è al di là di ogni concettualizzazione». Di conseguenza non è possibile alcun concetto di ciò che è trascendente, perché va oltre ogni concetto della mente umana. Nella sua accezione fondamentale, ciò che trascende è ciò che trascende ogni concettualizzazione, ogni denominazione. È al di là di tutti i nomi e le forme. Come fanno le persone comuni a raggiungere il trascendente? Tanto per cominciare, direi, studiate la poesia. Imparate a leggere una poesia. Non è necessario essere particolarmente esperti per coglierne il messaggio, o almeno qualche accenno. Ci si può arrivare gradualmente. In generale, comunque, ci sono molti modi di compiere un’esperienza trascendente. Un approccio significativo è attraverso i rituali. Un rituale ci permette di partecipare alla messa in atto di un mito. Ci disponiamo interiormente a sintonizzarci con l’immagine, ed ecco che emerge il trascendente. Spesso accade che chi è interessato all’arte da un punto di vista discorsivo, storico o storico-artistico, rimanga di colpo talmente folgorato da un’opera particolare da esserne letteralmente trasformato. Pensate a quello che succede con la musica: a una certa età, un certo tipo di musica ci interessa e conquista la nostra immaginazione, il nostro io interiore, ci coinvolge a fondo. Poi magari cambiamo gusti e ci appassioniamo a un altro genere. L’arte è un modo di parlare alle possibilità che si celano dentro di noi. Potrebbe approfondire la nozione di aldilà? Campbell: In molte tradizioni troviamo paradisi e purgatori, entrambi al plurale. È un concetto presente in tutti i sistemi di reincarnazione: giainismo, buddhismo, induismo, e anche nel sistema persiano. L’idea si incentra sulle persone in quella che potrebbe essere definita la «sfera eterna», in cui la loro esperienza riflette o ricapitola quella delle loro vite nel corso del tempo. L’inferno, propriamente, è la condizione degli individui talmente legati al proprio ego e ai valori egoistici che non riescono ad aprirsi a una grazia transpersonale. Supera le loro possibilità l’aprirsi a qualcosa che agirà come un’influenza di trasformazione spirituale. Restano quindi ancorati a ciò che sono, in quella fase di stallo, per l’eternità. È questa l’idea cristiana dell’inferno. Il cristianesimo è l’unica religione a possedere l’idea di una condizione permanente di questo genere. Un peccato mortale è ritenuto un’infrazione che condanna una persona all’inferno. Altri sistemi religiosi, invece, hanno un’idea dell’inferno ben più simile a quella del purgatorio cristiano, cioè come un transito di purificazione. Un individuo eccessivamente legato a un sistema di valori limitato non potrebbe mai, dopo la morte, aprirsi alla trascendenza della visione beatifica di Dio. Il purgatorio è dunque un luogo pedagogico, e i cieli del paradiso sono distribuiti secondo le possibilità della consapevolezza spirituale di ciascuno. Tratto sempre dal testo di cui sopra
LUIGI64 Inviato 13 Maggio Autore Inviato 13 Maggio CAMPBELL : Il mito ha molte funzioni. La prima si potrebbe definire mistica, poiché il mito stabilisce una connessione tra la nostra coscienza di veglia e il mistero dell’universo. Questa è anche la sua funzione cosmologica. Ci permette di vedere noi stessi in rapporto con la natura, come quando parliamo di Padre Cielo e Madre Terra. Esiste anche una funzione sociologica del mito, grazie a cui sostiene e legittima per noi un certo ordine sociale e morale. La storia dei Dieci Comandamenti impartiti da Dio a Mosè sul monte Sinai ne è un esempio. Infine, il mito ha una funzione psicologica, in quanto ci offre un modo per attraversare, e affrontare, le varie fasi della vita, dalla nascita alla morte. ...Un simbolo non indica soltanto qualcos’altro da sé. Come ha scritto Thomas Merton, un simbolo contiene una struttura che risveglia la nostra coscienza per una nuova comprensione del significato intimo della vita e della realtà stessa. Tramite i simboli entriamo emotivamente in contatto con il nostro io più profondo, con gli altri e con Dio – parola che, anch’essa, deve essere interpretata come un simbolo. Quando i teologi parlavano della morte di Dio, una decina di anni fa, proprio all’inizio dell’era spaziale, in realtà stavano dicevano che i loro simboli erano morti. ...Sì, questa è la religione del misticismo, l’altra una religione della fede in oggetti concreti, in Dio come oggetto concreto. Per riuscire a comprendere un simbolo concreto, dobbiamo distaccarcene. Quando lasciamo che il significato letterale di una tradizione religiosa si estingua, allora esso si rianima. E ci libera, facendoci rispettare maggiormente le altre tradizioni religiose. Non dobbiamo avere paura di perdere qualcosa, quando abbandoniamo la nostra tradizione. ...Sì, e questo è il problema di lasciar morire la tradizione (religiosa). Il mistico Meister Eckhart scrisse una volta che l’ultimo congedo è lasciare Dio per Dio. La gente cade in preda al panico al pensiero che tutti noi esseri umani potremmo avere qualcosa in comune e che quindi deve rinunciare al possesso esclusivo della verità. È un po’ come scoprire che si è allo stesso tempo un francese e un essere umano. ...Il problema è che le religioni istituzionalizzate non hanno permesso ai simboli di parlare direttamente alle persone nel loro senso proprio. Le tradizioni religiose traducono segni mitologici in riferimenti a fatti storici, mentre essi derivano propriamente dall’immaginazione umana, e si rivolgono alla psiche. Gli eventi storici ricevono un significato spirituale attraverso l’interpretazione mitologica; per esempio, tramite immacolate concezioni, resurrezioni e attraversamenti miracolosi del Mar Rosso. Quando si traduce la Bibbia con eccessivo letteralismo, la si demitizza. E si perde la possibilità di un riferimento convincente all’esperienza spirituale dell’individuo. ...La mia definizione preferita di mitologia è: l’altra religione del popolo. La mia definizione preferita di religione: fraintendimento della mitologia. Il malinteso consiste nella lettura dei simboli mitologici spirituali come fossero principalmente riferimenti a eventi storici. Letture provinciali e localizzate separano le varie comunità religiose. La ri-mitologizzazione, cioè il recupero del significato mitologico, rivela invece una spiritualità comune dell’umanità. A Pasqua, per tornare al nostro esempio, potremmo proporre il rinnovamento della conoscenza della nostra vita spirituale lasciandoci alle spalle, per un momento, i diversi condizionamenti storici. ...Se pensiamo alla crocifissione solo in termini storici, perdiamo il riferimento immediato del simbolo a noi stessi. Gesù ha lasciato il suo corpo mortale sulla croce, il segno della terra, per unirsi al Padre con cui era una cosa sola. Ugualmente, noi dobbiamo identificarci con la vita eterna che è in noi. Allo stesso tempo, il simbolo ci parla dell’accettazione volontaria della croce da parte di Dio, vale a dire la partecipazione alle prove e ai dolori della vita umana nel mondo. Così Egli è qui, dentro di noi, non a causa di una caduta o di un errore, ma con estasi e con gioia. Dunque la croce ha un doppio ignificato: il nostro dirigersi verso il divino e la venuta del divino verso noi. È un vero in-crocio . ...È questa la sfida. L’autoconservazione è solo la seconda legge della vita. La prima è che noi e l’altro siamo una cosa sola. I politici amano dire che ognuno «prega il proprio dio a modo suo». Ma questo non ha senso se noi e gli altri siamo una cosa sola...anche se molte istituzioni religiose fanno resistenza. Ultime interessanti citazioni (!!), tratte sempre dal libro di cui sopra più volte citato 1
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