LUIGI64 Inviato 15 Maggio Autore Inviato 15 Maggio La mia esperienza - Conclusione L’esperienza personale che segue dovrebbe aiutarvi a capire che cosa è successo in me negli anni passati. Ricorrendo a un’analogia potrei dire che ho inserito nel mio computer gli elementi che desideravo integrare, come ad esempio il profondo senso taoista del “naturale”, la ricchezza del concetto di “natura umana” della filosofia cinese, la ricerca della “natura originale” del buddhismo Zen. Ho lasciato che questi importanti fattori dell’esperienza spirituale dell’Oriente penetrassero a fondo nel mio intimo, più a fondo del livello emotivo, fino a raggiungere la profondità irraggiungibile del mio io autentico. Non cerco di avere coscienza dei loro effetti in me, perché so che stanno operando su di me a livello inconscio. Sapevo di avere molto tempo a disposizione e dunque non ho cercato di affrettare il processo di integrazione con la mia vita e la mia cultura cristiane, optando invece per lasciare che le cose accadano in maniera naturale. Quando appresi che sarei stato mandato in Cina, mi resi conto che per la mia integrazione personale ci sarebbero voluti molti anni, appunto perché volevo integrare elementi della cultura cinese a livello umano e spirituale. E difatti ci sono voluti parecchi anni prima di poter percepire che una qualche integrazione avesse realmente avuto luogo al livello in cui il divino e l’umano si incontrano per “fare” una persona umana. La mia vita cristiana, la vita di Cristo in me, è stata posta incessantemente a contatto con una nuova cultura. Lentamente mi sono reso conto che, mentre lavoravo, dormivo, mangiavo e durante i miei incontri con la gente, qualcosa stava accadendo. Si trattava per l’appunto dell’integrazione in me di due mondi apparentemente molto distanti. In me veniva data a Cristo una nuova maniera di pensare, sentire, amare ed essere. Mi sono reso conto altresì di vivere una reale “indigenizzazione” mediante una continua incarnazione della parola di Dio, grazie al potere dello Spirito di Dio. Di recente ho preso maggior coscienza del fatto che un simile processo coinvolge tutto l’essere, mente e corpo, a ogni livello. Un’attività puramente intellettuale tocca solamente l’intelletto, ma una di tipo spirituale coinvolge ogni facoltà umana. Inoltre, per quanto possa sembrare paradossale, l’esperienza mistica è un’esperienza che coinvolge la totalità della nostra umanità. Alcuni possono pensare che l’esperienza spirituale sia distaccata dalla nostra parte senziente. È vero il contrario: in un’esperienza mistica siamo coinvolti in tutta la nostra globalità. Ed è un coinvolgimento che non avviene a livello superficiale, ma al nostro livello più profondo, laddove non ci sono né pensieri né sensazioni, soltanto l’esperienza di una vita piena. La vita di Dio in noi è in dialogo costante con la nostra umanità al livello più profondo. Il dialogo all’interno di una persona inizia tra due mondi, quello in cui essa è nata ed è stata allevata e quello in cui si trova a vivere. È questo il primo scambio che siamo chiamati a praticare. Il secondo è invece il dialogo tra Cristo, da una parte, e la nostra cultura e il nostro essere, dall’altra. Entrambi iniziano con parole, teorie, spiegazioni, chiarimenti, dibattiti e via dicendo. Alla fin fine, però, approdano al silenzio, perché il livello al quale si compie il dialogo è troppo profondo perché lo si possa cogliere nella nostra ordinaria esperienza cosciente. Verrà un giorno in cui ci accorgeremo che qualcosa si è realizzato in modo molto misterioso. Allora capiremo meglio cosa accadde ai grandi mistici che abbiamo incontrato lungo le pagine di questo libro. Sebbene non abbiamo trascorso molto tempo con ognuno di loro, abbiamo ora un’idea più chiara di cosa accomuni e cosa separi le varie modalità di preghiera, soprattutto mistica, non importa di quale tradizione, cristiana, taoista, buddhista o hindu. Una cosa, però, va chiarita. Se è vero che questo dialogo può essere condotto e orientato da noi stessi all’inizio del processo, verrà il momento in cui sfuggirà alla nostra presa, perché al livello più profondo diverrà una conversazione tra la nostra psiche e Cristo stesso. Sarà divenuto un dialogo mistico. E un dialogo di tal fatta non è frutto di metodi, non importa quanto elaborati. Tratto dall'ottimo testo già citato. Mi permetto di consigliarlo a chi fosse interessato/incuriosito all'argomento: 1
LUIGI64 Inviato 17 Maggio Autore Inviato 17 Maggio Che cos’è il Sufismo? Alla celebre domanda, Abū l-Ḥasan Fūshanjī (IV h./X secolo) avrebbe risposto a un proprio discepolo che «il Sufismo è oggi un nome senza una realtà, mentre un tempo era una realtà senza un nome» . Questo aforisma è tradizionalmente accostato all’idea secondo cui il Sufismo, nel corso della sua evoluzione storica, sarebbe stato afflitto da un’inevitabile decadenza. Ciò a seguito di una visione quasi certamente legata alla peculiare concezione islamica del tempo cronologico, segno di inesorabile involuzione e deterioramento dei costumi. Ma va altresì intesa sin da subito anche in senso allegorico, a maggior ragione in questa sede, come esempio di vero e proprio paradosso sufi. Esso infatti ci mostra come, già all’interno della cultura sufi delle origini, sia stata messa in luce la caratteristica esoterica e, in un certo senso, insondabile di un’esperienza di ricerca spirituale che si pone al di fuori di ogni categorizzazione e spiegazione di natura razionale. Potremmo quindi sostenere che il Sufismo non è definibile a parole, ma può solo essere vissuto attraverso il gusto, dhawq ; le descrizioni non sono altro che allusioni a una realtà posta in una dimensione sovrasensibile. L’arabo Taṣawwuf è infatti la forma all’infinito di un verbo che richiama l’idea di trasformazione o processo evolutivo intrinseco al «farsi sufi» o «divenire sufi». Si tratta così di una «disciplina della mistica islamica», laddove per mistica si intendono non solo gli aspetti più esoterici, ma anche formali, rituali ed etici. Il Sufismo è dunque una mistica islamica, ma in un’accezione peculiare e onnicomprensiva in cui gli aspetti esteriori della religione caratterizzano la ricerca spirituale sia simbolicamente, sia formalmente....Nel Sufismo, come in tutte le altre tradizioni mistiche analizzate in modo comparativo, il rito può condurre a una forma di realizzazione spirituale solo in presenza di una giusta intenzione – quella che nella giurisprudenza islamica viene definita niyya – elemento essenziale a rendere operativa la ripetizione della formula e a mettere in atto una trasformazione interiore dell’orante. La semplice ripetizione meccanica del rito non sarà altro che una «farsa» Come sottolineato nel corso del volume, il dhikr raffigura il metodo esemplare dei sufi, di cui sono presentate le descrizioni di alcune cerimonie così come praticate da diverse confraternite. Naturalmente, i casi affrontati non esauriscono in sé le tantissime tipologie di dhikr collettivo, così come sono state praticate nel corso dei secoli fino a oggi. Più volte, il rituale collettivo è definito ḥaḍra (letteralmente «presenza»), termine particolarmente evocativo perché indica sia la presenza, nel corso del rito, dei santi sufi che presiedono alla silsila (la catena spirituale) dell’ordine – oltre a quella del Profeta stesso – sia la presenza interiore di coloro che prendono parte alla cerimonia ...L’analisi della storia del Sufismo delle origini, attraverso la voce dei suoi maggiori esponenti e lo studio comparativo delle sue dottrine e metodi, aprirà di certo al lettore uno squarcio su una corrente dell’Islam troppo spesso fraintesa, ma che continua a essere retaggio storico e cuore pulsante della cultura islamica. Tratto dalla premessa di Francesco Alfonso Leccese (professore associato di Islamistica presso l'Università della Calabria. È specializzato in studi islamici con particolare attenzione al sufismo contemporaneo nel mondo arabo e in Occidente.) dal testo: 1
LUIGI64 Inviato 19 Maggio Autore Inviato 19 Maggio La «via» (ṭariq o ṭarīqa , secondo una sfumatura di significato) è allo stesso tempo ascetica e mistica. Essa richiede una certa purificazione che prepari l’anima all’unione divina. Colui che percorre questa via attraversa tre tappe fondamentali: quella del novizio o iniziato (murīd o mubtadi’ ), quella di colui che progredisce lungo la via (sālik ) e, infine, quella del perfetto (kāmil, wāṣil o muḥaqqiq ). Vi ritroviamo le grandi suddivisioni dell’ascetica orientale cristiana. La via (ṭarīq, sulūk ) è percorsa in modo graduale: non si accede a un grado superiore se non passando attraverso il grado che lo precede. Le diverse tappe della via ascetica recano il nome di maqām (plurale maqāmāt ), cioè «stazione», «sosta». Il loro numero e il loro elenco variano secondo gli autori. Al-Sarrāj, nel suo Kitāb al-luma‘ ne enumera sette: 1) il pentimento (tawba ), posto dalla maggior parte degli autori in cima all’elenco, dunque la prima delle soste; 2) la delicatezza scrupolosa della coscienza (wara‘ ), che deve oltrepassare quella del credente ordinario; 3) la rinuncia assoluta ai beni di questo mondo, anche se legittimi (zuhd ); 4) la povertà (faqr ); 5) la sopportazione di ogni avversità (ṣabr ); 6) l’abbandono fiducioso in Dio (tawakkul ); 7) l’accettazione (riḍā ) di tutto ciò che accade – cioè vivere conformandosi alla Volontà Divina. Il lavoro di perfezionamento è una lotta (mujāhada ), un combattimento interiore (il «grande jihād ») condotto sotto la direzione indispensabile di una guida spirituale (shaykh, murshid ). L’iniziato deve essere nelle mani del proprio shaykh «come un cadavere tra le mani di un lavatore di morti» . Spetta alla guida spirituale tener conto delle attitudini dell’iniziato per formarlo all’umiltà, al rimorso per i suoi errori, al silenzio, al digiuno e così alla meditazione (fikr ), alle preghiere recitate ad alta voce, al dhikr (la ripetizione incessante della stessa orazione giaculatoria), all’esame di coscienza (muḥāsaba ), etc., che insieme occupano la giornata dell’aspirante sufi. Mentre le «stazioni» sono conquiste dell’impegno personale, gli «stati» (aḥwāl ) sono gli effetti della Misericordia divina. Sarrāj ne cita una decina: la concentrazione costante (murāqaba ), la prossimità (qurb ), l’amore (maḥabba ), il timore (khawf ), la speranza (rajā’ ), il desiderio (shawq ), l’intimità (uns ), la tranquillità nella pace (ṭuma’nīna ), la contemplazione (mushāhada ), la certezza (yaqīn ). Ma le classificazioni differiscono enormemente a seconda degli autori. In alcuni casi, l’amore è classificato tra le «tappe» acquisite, in altri è considerato la base dell’«unificazione» (tawḥīd ) . Notiamo infine che, nel secolo IX , si confrontano tre teorie dell’unione divina così concepita: a) come una congiunzione (ittiṣāl o wiṣāl ), che esclude l’idea di un’identità dell’anima unita con Dio; b) come un’identificazione (ittiḥād ), che include essa stessa due sensi diversi: uno sinonimo del precedente, l’altro che indica un’unione di natura; c) o come inabitazione (ḥulūl ): lo Spirito di Dio abita, senza scambio di natura, l’anima purificata del mistico. I dottori dell’Islam ufficiale non ammettono l’unione se non nel senso di ittiṣāl (o, il suo equivalente, il primo significato di ittiḥād ), ma respingono con veemenza ogni idea di ḥulūl . L’accusa di ḥulūl sarà una delle più gravi tra quelle rivolte ad al-Ḥallāj. L’oggetto dell’unione mistica è Dio. Tuttavia, molti sufi, basandosi sulle classificazioni tradizionali della teodicea musulmana, ammettono dei gradi: un grado inferiore di unione con alcune degli atti divini simboleggiati dai «più bei nomi» di Dio; un grado intermedio di unione con un «attributo dell’Essenza»; il grado supremo, infine, che è l’unione con l’Essenza divina stessa. Successivamente, a partire dal XVIII secolo, alcune scuole di pensiero minimaliste affermeranno che questi rappresentano dei casi eccezionali, e che il mistico dovrebbe limitarsi all’unione con la persona del Profeta. Tratto dal testo di cui sopra
LUIGI64 Inviato 21 Maggio Autore Inviato 21 Maggio Tratto dal testo Indagine sulla vita eterna in forma di dialogo tra Massimo Polidoro (scrittore, giornalista e cofondatore del CICAP, è stato docente di Metodo scientifico e psicologia dell’insolito all’Università di Milano-Bicocca) e Marco Vannini (filosofo, già docente di Storia della mistica all’Istituto di scienze religiose di Trento, ha riportato alla luce alcuni grandi maestri spirituali, primo fra tutti Meister Eckhart, con i quali si riscopre la verità di una religione altrimenti ridotta a mera credenza, in conflitto con la scienza) P.: ...È un discorso molto ampio e potremo eventualmente affrontarlo più avanti. Chiarito questo, però, sono perfettamente d’accordo con lei che il dogmatismo e lo scientismo siano derive deleterie per chiunque voglia realmente conoscere come funziona il mondo. Forse alcuni dimenticano, a volte, che la scienza non pretende di fornire verità in senso assoluto, ma ci fornisce piuttosto un modello accettabile di realtà, di cui ci possiamo fidare ma che nuove scoperte potrebbero smentire. V.:..Per quanto riguarda le religioni, tuttavia, è vero che molto spesso esse parlano di una vita ultraterrena, o comunque dopo la morte, ma in primo luogo non è sempre così: basti pensare all’ebraismo originario, biblico, nel quale non v’è sostanzialmente nulla dopo la morte, oppure al buddhismo originario, per il quale l’estinzione, il nirvana , è ciò che di meglio ci si deve aspettare al termine di questa peraltro illusoria vita terrena. In secondo luogo, all’interno delle grandi religioni storiche – induismo, buddhismo, ma anche cristianesimo e prima ancora all’interno della grande religione classica, greco-romana, sbrigativamente chiamata «pagana» – sono state e sono presenti, coesistenti, diverse concezioni relative al nostro tema, che è la vita eterna, e che non coincide necessariamente col cosiddetto aldilà. In questo caso il problema è perciò quello di intenderci prima di tutto sui termini, per evitare un dialogo tra sordi. ...Convengo che dovremo discutere principalmente proprio di questo ma, giusto per procedere nella nostra introduzione, le faccio notare la differenza enorme che i termini assumono se ai sostantivi «vita» e «morte» aggiungiamo l’aggettivo «spirituale»: «vita spirituale» e «morte spirituale», anche proprio in rapporto al nostro specifico tema, la vita eterna. Balza all’occhio che i criteri di ricerca e di interpretazione che possiamo usare per la vita biologica non bastano, o addirittura non valgono, per quella vita che non è tanto e solo biologica. Così, per esempio, quando il vangelo parla di «vita eterna», è chiaro che non si sta riferendo a una prosecuzione infinita del vivere sotto il profilo biologico (rammento che nel greco del vangelo ci sono due termini per dire vita: uno è bios , l’altro è zoè, ed è quest’ultimo a essere usato per la vita eterna), bensì a una realtà di ordine spirituale. «Questa è la vita eterna, che conoscano te, unico vero Dio» dice Gesù. E i maestri spirituali del mondo cristiano sottolineano quel «conoscere», evidenziando così come la dimensione dell’eterno non sia una prosecuzione all’infinito del biologico, ma un passaggio per così dire a un altro genere, come si direbbe aristotelicamente; in questo caso un altro genere di vita, nella quale l’eternità sta in un sapere, in una esperienza di ordine appunto spirituale, già tutta al presente, e dunque non si tratta affatto di un aldilà opposto a un aldiquà. «Io sono la vita» dice di se stesso Gesù, ed è chiaro che non si tratta qui della vita biologica, ma di quella spirituale. Completamente diverso, perciò, il pensiero di una prosecuzione della vita biologica dopo la morte, magari all’infinito, o anche di un’anima che permane immortale alla dissoluzione del corpo, da quello di una vita eterna che è già qui e ora. Non dimentichiamo che «eterno» significa non solo senza fine, ma anche senza principio. P.:Le confesso di avere come minimo qualche perplessità. Che cosa si ipotizza qui, una vita dell’uomo che non solo non ha termine, ma che non ha neppure avuto inizio? Mi scusi professore, ma questa sembra un’assurdità. V:Lo è certamente, se pensiamo alla vita nel suo senso biologico, almeno per quanto attiene al singolo individuo. Per quanto concerne invece il complesso del cosmo e dell’umanità, proprio la fisica contemporanea ci dice che siamo fatti di quella stessa materia che si è originata all’inizio, ovvero nel cosiddetto Big Bang. Ma non è questo affatto il punto, non sto alludendo a questo, bensì a un’esperienza, come le ripeto, di ordine spirituale, presente non solo nel mondo cristiano, ove Gesù di fronte agli sbigottiti dotti ebrei, che non capiscono, pronuncia le parole: «Prima che Abramo fosse, io sono». «Io sono», al presente, badi bene, non «io ero»; perché il tempo dell’eterno è uno solo, ed è il presente, e Gesù non sta alludendo a una sua mitica pre-esistenza nei tempi: sta invece esprimendo quella esperienza di essere, di «io sono», appunto, che nella religione dell’India è espressa in modo identico nell’aham asmi , ovvero «io sono», degli asceti e dei maestri. Nel secolo scorso, per esempio, pensiamo alla straordinaria figura di Ramana Maharshi, una figura, sottolineiamo subito, che non ha nulla del miracolistico-magico tanto spesso attribuito, a torto o a ragione, al mondo indiano. Accanto a lui, possiamo menzionare un altro grande e significativo personaggio, il benedettino francese Henri Le Saux, che visse in India e conobbe Ramana. La stessa esperienza, che è esperienza di distacco dal proprio ego e di unità con Dio e col cosmo tutto, è espressa in modo identico anche da Meister Eckhart, definito a giusto titolo «figura normativa di vita spirituale». Vita spirituale, appunto, «vita eterna» in un senso che non è affatto temporale. P: Se parliamo di un’esperienza di tipo spirituale, e dunque per definizione soggettiva, è chiaro che gli strumenti della scienza ci possono essere di poco aiuto. Da questo capisco che la nostra sarà dunque, almeno in questa parte iniziale, una discussione di tipo speculativo, dove comunque, ogni volta che sarà possibile, cercheremo di valutare se tali idee e ipotesi possono avere un corrispettivo oggettivo e verificabile. Anche perché chi crede è disposto ad accettare questo tipo di affermazioni per fede, cioè, sulla base dell’autorità che le afferma, al di là dell’esistenza o meno di prove che le confermino o smentiscano. Chi non crede, invece, o comunque nutre dei dubbi o non è disposto ad accettare dogmi, si farà inevitabilmente tale tipo di domande. Da quanto dice, comunque, mi pare ovvio che il nostro dialogo dovrà affrontare anche il cruciale problema del tempo, reso particolarmente complesso dagli sviluppi della fisica contemporanea, che mette in discussione le certezze del tempo lineare, distinto in passato, presente, futuro, così come lo potevano pensare i nostri nonni. Sono anche perfettamente d’accordo nel sottolineare la complessità e la diversità dei vari organismi viventi, così come si sono sviluppati nel corso dell’evoluzione, per cui è ovvio che parlare della vita dell’uomo non è identico a parlare di quella di una pianta, e neppure di un animale, ma resta vero, a mio parere, che la dimensione biologica è quella di partenza, senza la quale non ha senso parlare di vita intellettuale o spirituale. V.: Non deve pensare che la fede sia una credenza, opposta o comunque diversa dal sapere scientifico: so bene che questo è il modo comune di pensare, ma, mi creda, è assai poco meditato. La fede in senso forte non è una credenza, ma il contrario: è il movimento dell’intelligenza che si muove verso l’assoluto, e perciò toglie via ogni relativo, ogni credenza. Così ragionano i grandi maestri cristiani – Eckhart, san Giovanni della Croce, Hegel, Simone Weil, eccetera – di cui mi sono occupato anche nel mio Dialettica della fede . In parallelo, la Chandogya Upanishad recita: «Solamente quando si ha fede si pensa; chi non ha fede non pensa; pensa solamente colui che ha fede». E l’esperienza dello spirito non è, come lei dice, soggettiva, ma, al contrario, quanto di più universale vi sia. Ma dovremo tornarci sopra. Riguardo alla sua domanda, comunque, almeno per quanto concerne noi, «miseri mortali», come ci chiama Omero, non v’è dubbio che la dimensione biologica sia quella di partenza. tratto da : 1
LUIGI64 Inviato 16 Giugno Autore Inviato 16 Giugno La ricerca neuroscientifica si è inizialmente dedicata, in effetti, soprattutto allo studio dei processi neurali che intervengono nel breve tempo che circonda la morte clinica, ma oggi è in grado di valutare empiricamente il processo esteso del morire e, più specificamente, di indagare sulla possibilità che sussistano attività cerebrali dopo la cessazione della funzione cardiaca e respiratoria. L’eventualità che le antiche tradizioni mistiche possano non aver torto è, nel caso di quella tibetana, supportata da una serie di osservazioni di testimoni oculari meticolosamente annotate in tempi antichi e a noi vicini, da cui non si può prescindere. Ci si interroga allora tanto su come poter dimostrare o misurare oggettivamente la presenza di una coscienza soggettiva post mortem, quanto sugli eventuali fattori o comportamenti (per esempio la meditazione) che possano favorire il persistere di un’attività cerebrale, dopo il decesso, collegabile a una tale consapevolezza soggettiva, e, ovviamente, sui risvolti etici di una conferma del genere. Di questo si occupa uno studio ancora in corso che riguarda il fenomeno noto come tukdam, in tibetano, fenomeno di cui parleremo qui ma soprattutto nel capitolo 7. Lo studio in questione1, condotto da un gruppo formato da esperti del Center for Healthy Minds dell’Università del Wisconsin-Madison e da medici tibetani, fra cui il dottor Tsetan Dorji Sadutshang che è a capo di una importante istituzione medica, il Delek Hospital di Dharamsala in India, è anche il primo progetto che riporti le osservazioni sul tukdam in modo sistematico ad essere sottoposto a revisione paritaria su una rivista scientifica: Frontiers of Psychology. Tenta per primo di descrivere il fenomeno del tukdam nella letteratura scientifica, medica e medico-legale occidentale, e intende scoprire se durante le ore successive alla morte clinica gli individui che mostrano i segni del tukdam abbiano un’attività cerebrale misurabile. I risultati dell’indagine sono ancora di là da venire, perché al momento i ricercatori si sono trovati davanti a difficoltà tanto culturali quanto logistiche con le quali dovranno venire a patti in qualche modo per poter rilevare in tempo utile i dati di cui hanno bisogno. Sebbene questo significhi che non si hanno ancora dati per risolvere l’enigma che il tukdam rappresenta per la scienza, il report pubblicato su Frontiers of Psychology avvia se non altro una riflessione sul fatto che la morte sia un processo e non un istante nel tempo, e su quale compito abbia l’intera società nel garantire olisticamente il benessere fisico, mentale e spirituale (non necessariamente inteso nel senso di “religioso”) di chi sta attraversando tale processo. Lo stato di tukdam si verifica quando il corpo del “defunto” mostra una serie di segni, tra cui assenza di decomposizione dopo la morte, che in genere è preceduta da un periodo di meditazione che accompagna il processo stesso del morire ma soprattutto è il coronamento di una vita di pratica meditativa. Secondo le numerose testimonianze, molte delle quali riportate nel capitolo 7, questo stato meditativo si manifesta esternamente come un ritardo o un’attenuazione dei processi di decomposizione post mortem: il viso di coloro che sono in tukdam è descritto come radioso, la pelle rimane morbida ed elastica, e l’area intorno al cuore si dice sia più calda del resto del corpo. E questi segni possono permanere per una settimana o anche un mese: persino nella stagione calda, in India, c’è chi è rimasto in questo stato meditativo post mortem anche per un mese. Quando compaiono i segni di decomposizione corporea, si capisce che il tukdam è finito. Questo stato è ritenuto dai buddhisti tibetani un modo di esperire la natura fondamentale della mente, resa particolarmente accessibile nel momento della morte giacché la mente ordinaria smette di registrare impressioni sensoriali e di impegnarsi in elaborazioni concettuali: un’opportunità che sorge in modo naturale per tutti gli esseri senzienti durante il processo della morte, ma che richiede un buon addestramento meditativo per poter essere riconosciuta e usata per la realizzazione spirituale. Scrive il dottor Tsetan Dorji Sadutshang, che ha contribuito alla ricerca sul campo e come consulente allo studio di cui stiamo parlando: «Gli individui che ero sicuro fossero in stato di tukdam erano persone il cui corpo non mostrava alcun segno di decomposizione anche dopo una settimana – dice. – Questo è il segno più affidabile, e ci sono pochissimi casi del genere… una persona che sia veramente in tukdam mantiene ancora una certa luminosità della pelle, in particolare del viso. Si trattava di individui noti per essere, rispetto a chi non era in tukdam, espertissimi praticanti di Dharma, e c’erano, in questo senso, molti testimoni». Il progetto nasce da decenni di collaborazione tra Sua Santità il Dalai Lama e Richard Davidson, direttore del Center for Healthy Minds, e dalla sfida lanciata a scienziati, psichiatri e psicologi perché scoprano, applicando rigorosamente il metodo scientifico, cosa accade alla mente durante il manifestarsi del tukdam. «La medicina occidentale ha della morte un concetto binario: sei vivo in un dato momento o morto in un altro, – dice Davidson. – Ma i processi biologici non funzionano come un semplice interruttore: sono più graduali. Abbiamo la speranza che questa ricerca catalizzi un dibattito e sollevi domande sulla morte come un processo e non come un interruttore binario». I corpi dei praticanti vengono di solito osservati per tre giorni per determinare se il tukdam si insedierà; alcuni mantengono, nel tukdam, la postura eretta della meditazione, altri scelgono la postura del “leone dormiente”, sul fianco destro e con le gambe leggermente flesse: dipende dalla pratica in cui sono assorti, dalla scuola di appartenenza e ovviamente anche dalle difficoltà fisiche oggettive che la fine della vita può comportare. Il volto conserva ancora un po’ di colore e un certo dhang, termine tibetano che indica quella presenza energetica percepita come carismatica, solare, luminosa, calorosa, fresca. La pelle resta soffice, flessibile, e le ali del naso non si infossano; non compare il rigor mortis né compaiono i segni della putrefazione, a cominciare dall’odore, e questo malgrado a volte il tukdam avvenga in luoghi dalle temperature molto alte come l’India o il Sud-est asiatico, perché è lì che si trovano perlopiù le comunità tibetane in esilio. Gli occhi sono di solito socchiusi: questo è il modo in cui il praticante ha meditato durante la vita. E – dicono i testimoni oculari – si percepisce in essi uno sguardo ancora brillante, compassionevole. Rimane un calore residuo in certe parti del corpo, soprattutto in corrispondenza del chakra del cuore: «Si fa bene attenzione, allora, a non toccare il corpo, e a mantenere il silenzio fino a quando la persona non abbandona quello stato meditativo»111. La conclusione del tukdam corrisponde al concludersi dell’esperienza di chiara luce: la coscienza sottilissima lascia allora il corpo, evento segnalato dall’emissione di due gocce: una bianca, sotto forma di fluido generativo che esce dai genitali, e una rossa, sotto forma di sangue che esce dal naso. A questo si accompagna l’afflosciarsi della postura, seguito dal rigor mortis, dai segni di putrefazione, eccetera: ossia da tutti quei segni che sono universalmente riconosciuti quali segni di morte certa e che fino a quel preciso momento il tukdam sembra essere riuscito a impedire. Dal punto di vista scientifico, infatti, il quesito principale sembra essere se durante il tukdam ci sia qualcosa che abbia un significato biologico e che sia misurabile, qualcosa che possa aiutarci a capire se la coscienza stia effettivamente dimorando nella chiara luce della pura consapevolezza della morte. Inoltre, occorre comprendere se il fatto che il corpo non mostri segni di decadimento rilevabili anche tre settimane dopo la morte clinica sia strano o normale in base alle condizioni di ciascun caso in fatto di temperatura ambientale, altitudine, umidità, maggiore o minore presenza di batteri intestinali legata alla malattia o a cure antibiotiche recenti, eccetera. Sono peraltro questi, i dubbi sollevati da persone come il dottor Rutherford, anatomopatologo intervistato dalla rete televisiva neozelandese TVNZ il 19 giugno 2011 in occasione di un reportage sul tukdam di un noto maestro buddhista tibetano: Jampa Thupten Tulku Rinpoche112, direttore spirituale di un centro buddhista di Dunedin. Tratto da: 1 1
LUIGI64 Inviato 19 Giugno Autore Inviato 19 Giugno La scoperta del mondo delle Idee e delle Forme intelligibili La “seconda navigazione” porta Platone alla scoperta dell’esistenza di un piano dell’essere oltre quello dei fenomeni fisici che conosciamo mediante i sensi, ossia dell’essere metafenomenico, conoscibile solamente mediante i puri “logoi”, vale a dire mediante l’Intelligenza, e quindi dell’essere puramente intelligibile . Con la “seconda navigazione”, pertanto, ha luogo il passaggio dal mondo sensibile al mondo soprasensibile , e quindi si raggiunge la scoperta della “vera causa” non fisica, che sola può spiegare il generarsi e l’essere delle cose fisiche, e senza la quale il sensibile, abbandonato a se medesimo, verserebbe in contraddizioni insuperabili. Dunque, la “seconda navigazione” porta alla scoperta del mondo delle Idee o Forme intelligibili, con tutte le conseguenze che questo comporta. Leggiamo nel Fedone : Mi accingo infatti a mostrarti quale sia quella specie di causa che io ho elaborato e, perciò, torno nuovamente su quelle cose di cui molte volte si è parlato, e da esse incomincio, partendo dal postulato che esista un Bello in sé e per sé, un Buono in sé e per sé, un Grande in sé e per sé e così di seguito. [...] Allora guarda se le conseguenze che da questi postulati derivano ti sembrano essere le stesse che sembrano a me. A me sembra che, se c’è qualcos’altro che sia bello oltre al Bello in sé, per nessun’altra ragione sia bello, se non perché partecipa di questo Bello in sé, e così dico di tutte le altre cose. [...] Pertanto, io non comprendo più e non posso più riconoscere le altre cause, quelle dei sapienti; e, se qualcuno mi dice che una cosa è bella per il suo colore vivo o per la figura fisica o per ragioni del tipo di queste, io, tutte queste cose, le saluto e le mando a spasso, perché, in tutte queste cose, io perdo la testa, e solo questo io tengo per me, semplicemente, rozzamente e forse ingenuamente: che nessun’altra ragione fa essere quella cosa bella, se non la presenza e la comunanza di quella Bellezza in sé, o quale altro sia il modo con cui ha luogo questo rapporto: infatti, sul modo in cui ha luogo questo rapporto non voglio ancora insistere, ma insisto semplicemente nell’affermare che tutte queste cose sono belle per la Bellezza. Questa mi pare sia la risposta più sicura da dare a me e agli altri; e, afferrandomi a essa, penso di non poter mai cadere, e che sia sicuro, e per me e per chiunque altro, rispondere che le cose belle sono belle per la Bellezza.6 L’esempio della bellezza è molto chiaro: la bellezza del quadro che il pittore dipinge o quella della statua che lo scultore scolpisce non si possono spiegare in base agli elementi fisici di cui il pittore e lo scultore si avvalgono per realizzare le loro opere, non sono in alcun modo riducibili al colore, alla tela, al marmo, né ad alcun altro dei materiali di cui gli artisti fanno uso. Questi elementi non sono le “vere cause” della bellezza, ma solo “con-cause”, ossia i mezzi per la realizzazione della Bellezza-in-sé-e-per-sé. Nel passo letto Platone parla di Bello-in-sé-e-per-sé, ma più avanti usa il termine Idea e il corrispettivo Eidos ,7 che costituiscono i termini tecnici che esprimono l’essenza stessa, la forma o natura metasensibile del Bello, che si realizza nei fenomeni sensibili. ...Dunque, quelle Idee che si raggiungono mediante la “seconda navigazione” sono le eterne Forme o Essenze del bene, del bello, del giusto, e così di seguito. Sono quelle realtà che l’Intelligenza, quando raggiunge la dimensione dell’intelligibile e si muove in essa, riesce a guadagnare, e quindi a “vedere”, a “contemplare”. Tratto da:
densenpf Inviato 20 Giugno Inviato 20 Giugno Il 11/02/2025 at 20:18, analogico_09 ha scritto: Durante il pranzo e la cena che preparavamo insieme, mentre un frate leggeva un testo religioso, si mangiava in silenzio, si udivano soltanto i rumori "diegetici" d'ambiente, rumori delle cose, di piatti, biccheri, un colpetto di tosse.., ciascuno concentrato sul suo piatto e di tanto in tanto ci scrutavamo, non di maniera invadente, anzi.., si cercarva di instaurare una sorta di comunicazione con gli sguardi, Grazie, mi hai fatto ricordare una esperienza in una comunita' yoga, ove durante il pranzo si mangiava, nel piu' completo silenzio. E' una esperienza che tutti dovrebbero fare, poiche' e' un modo per dirci che anche nei momenti di leggerezza, fra un corso e l'altro, o nella pausa di un lavoro, e' sempre bene trovare il proprio "silenzio interiore". Ed e' di una utilita' enorme, sopratutto in questa societa' fatta di grandi urlatori, di caos ideologico, di "la ragione e' sempre dalla mia parte" di finti sorrisi e pugnalate alle spalle....ebbene il silenzio e' quel bene prezioso che un serio ricercatore spirituale dovrebbe sempre coltivare durante la giornata. 2
LUIGI64 Inviato 20 Giugno Autore Inviato 20 Giugno 7 minuti fa, densenpf ha scritto: ebbene il silenzio e' quel bene prezioso che un serio ricercatore spirituale dovrebbe sempre coltivare durante la giornata Permette un giusto distacco dagli eventi non piacevoli Rallentando i pensieri disturbanti che martellano la nostra mente
densenpf Inviato 20 Giugno Inviato 20 Giugno 37 minuti fa, LUIGI64 ha scritto: Permette un giusto distacco dagli eventi non piacevoli si, ma non deve essere interpretato come una panacea consolatoria di fronte al caos della societa'. Esso e' passare da uno stato A >>>>>ad uno stato B. Ovvero, mi connetto con quella parte piu' interiorizzata di me stesso, e li' trovo la pace. Un po' come migliaia di persone che fanno alla sera yoga pensando che sia un esercizio fisico, quando in realta' e' qualcosa di molto piu' profondo.
LUIGI64 Inviato 20 Giugno Autore Inviato 20 Giugno Mente e coscienza: il problema difficile delle neuroscienze https://www.neuroscienze.net/mente-e-coscienza-il-problema-difficile-delle-neuroscienze/
LUIGI64 Inviato 20 Giugno Autore Inviato 20 Giugno 14 minuti fa, densenpf ha scritto: Un po' come migliaia di persone che fanno alla sera yoga pensando che sia un esercizio fisico, quando in realta' e' qualcosa di molto piu' profondo. Sicuramente è così Ma sappiamo che in occidente tendiamo a svuotare di significato spirituale, un po' tutto Lo Yoga è una pratica spirituale, poi si può utilizzare come una semplice ginnastica salutare La stessa ormai diffusissima mindfulness è di estrazione buddhista...la si può utilizzare esclusivamente come anti- stress eliminando tutto il resto Ho conosciuto persone che praticavano yoga, soltanto come ginnastica, escludendo la dimensione spirituale di questa disciplina Ormai, è un po' tutto così Contenti loro ☺️
analogico_09 Inviato 20 Giugno Inviato 20 Giugno Oggi è diventato tutto apparenza: avere visto che non serve più Essere... Si seguono le mode...
LUIGI64 Inviato 20 Giugno Autore Inviato 20 Giugno 9 minuti fa, analogico_09 ha scritto: Si seguono le mode... Vero pure questo
LUIGI64 Inviato 23 Giugno Autore Inviato 23 Giugno Per quanto possa sembrare inconcepibile al senso comune [cioè alla modalità dualistica], voi - e tutti gli altri esseri senzienti - costituite un tutto indivisibile. Quindi, la vita che state vivendo non è semplicemente una parte di tutta l’esistenza; in un certo senso essa è il tutto… Così, potete gettarvi sulla terra e abbracciarla sicuri di essere una cosa sola con essa, ed essa con voi. Siete forti e invulnerabili come la terra, anzi mille volte più forti e invulnerabili. Domani essa vi inghiottirà, e il giorno dopo vi trascinerà verso nuove lotte e nuove sofferenze. E ciò non avverrà soltanto “un giorno”: Adesso, oggi, ogni giorno essa vi dà alla luce, non una sola volta, ma migliaia e migliaia di volte, proprio come ogni giorno migliaia di volte essa vi inghiotte. --- Un mistico? No... tratto da: Erwin Schroedinger, La Mia Visione del Mondo
Panurge Inviato 23 Giugno Inviato 23 Giugno Schroedinger ha ispirato gli scopritori della doppia elica del dna per cui è un progenitore pure di Dawkins. 1
LUIGI64 Inviato 23 Giugno Autore Inviato 23 Giugno Così lo Zen non prende posizione in materia di dottrina o di dogma, ma “punta dritto alla Mente” e quando usa le parole lo fa quasi sempre in modo ingiuntivo, perché “il Buddha non fa altro che indicare la via”. Chang-Ching, che aveva tentato di raggiungere la Mente attraverso il filtro del pensiero, quando riuscì a vederla direttamente esclamò: Come mi sbagliavo! Quale grande errore! Solleva il velo e guarda il mondo! Se qualcuno mi chiederà quale sia la mia filosofia, Immediatamente lo colpirò in bocca con il mio bastone! Com’è comprensibile, non tutte le tradizioni parlano della Mente come Unica Realtà, preferendo invece parlare di Essere Assoluto, Via Assoluta, Vuoto, Abisso, o - in termini più familiari - Dio, Divinità, Unico Spirito; e tuttavia “essi chiamano in molti modi ciò che in verità è Uno”. Così nel Cristianesimo troviamo dichiarazioni come quella che segue, tratta dalla Prima Lettera ai Corinzi: Non sapete voi che i vostri corpi sono membra di Cristo? Ma chi si unisce al Signore è uno Spirito solo con lui. (6:15-17) E dello stesso tenore sono le parole di Gesù, riportate nel Vangelo di San Giovanni: Che siano tutti Uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch’essi siano (Uno) in noi. (17:21) Per questo Plotino parla di “riduzione di tutte le anime all’Uno”, e Meister Eckhart dichiara che “Tutto è Uno nella Divinità, e su ciò non v’è nulla da dire,” esortandoci quindi ad “essere quell’Uno per poter trovare Dio.” Per “essere quell’Uno” dobbiamo abbandonare il dualismo, come ci viene suggerito nel Vangelo di San Tommaso: Gli dissero: potremo allora, come bambini, entrare nel Regno dei Cieli? Gesù rispose: quando di due farete uno, e quando renderete l’interno come l’esterno e l’esterno come l’interno, quando renderete il sopra come il sotto, e farete del maschio e della femmina un solo essere… allora entrerete (nel Regno dei Cieli). (20) Sempre in questo Vangelo troviamo: Gesù disse: Io sono la Luce che è su tutte le cose, Io sono tutte le cose. Tutto nasce da Me e Tutto si raggiunge attraverso di Me. Spacca un pezzo di legno, Io sarò là; solleva una pietra e là Mi troverai. (21) Cristo è ovunque perché, come spiegano gli apocrifi Atti di Pietro, Tu sei fatto di solo spirito, Tu sei in me il padre, la madre, il fratello, l’amico, il servo della gleba, il colono: Tu sei Tutto e Tutto è in Te: e Tu SEI, e non v’è altra cosa che SIA ad eccezione di Te. (22) Quest’esperienza del “solo-Cristo” formalmente non è distinguibile da quella del “solo-Mente” dei buddhisti o dei fisici. Passando all’Induismo, ecco che entrambe sono formalmente indistinguibili dalla “dottrina” vedantica della Realtà come solo-Brahman. Così è scritto nella Katha Upanishad: Come il vento, che è uno, assume forme nuove ovunque esso entri; così lo Spirito, che è Uno, assume forme nuove negli esseri viventi. Esso è in tutte le cose, ed anche fuori di esse… Esiste un solo Regolatore, lo Spirito che è in tutte le cose, e che modella la Sua unica natura in molte forme. Soltanto i saggi che Lo vedono nelle loro anime raggiungono la gioia eterna. E nella Mundaka Upanishad: Da Lui derivano la vita, la mente e i sensi. Da Lui derivano lo spazio e la luce, l’aria, il fuoco e l’acqua, e questa terra che ci sostiene… così un’infinità di esseri derivano dallo Spirito supremo. In tutte le Upanishad troviamo affermazioni sull’esistenza di una Singola Realtà, che può essere chiamata Prajapati, Vishnu, o Brahma, ma che sotto una quantità di nomi diversi rimane comunque l’unica Realtà: “Tutto l’universo in verità è Brahman”. (Chandogya Upanishad, 3.14.1) Al di là del tempo tutto è Brahman, Uno ed Infinito. Egli è oltre il nord, il sud, l’est e l’ovest, oltre l’alto e il basso. Verso l’unione con l’Uno si dirige chi è a conoscenza di questo. (Maitri Upanishad, 6.17) Quest’Uno non è uno tra i tanti, è “l’Uno senza secondo”, completamente al di là del dualismo pur non escludendolo, matrice di ogni relatività senza essere vincolato da nessuna. Passando al Taoismo, Chung Tzu parla così di quest’“Uno senza secondo”, che è completamente al di là del dualismo e degli opposti: Non c’è nulla che non sia questo; non c’è nulla che non sia quello… Perciò io dico che questo emana da quello; e che quello deriva da questo. È la teoria dell’interdipendenza di questo e quello. Nondimeno, la vita sorge dalla morte, e viceversa. La possibilità sorge dall’impossibilità, e viceversa. L’affermazione si basa sulla negazione, e viceversa. Per questo il vero saggio rifiuta ogni distinzione [e dualismo], e si rifugia nei Cieli. Se qualcosa può basarsi su questo, allora questo è anche quello e quello è anche questo. Questo può essere “giusto” o “sbagliato”, e anche quello può essere “giusto” o “sbagliato”. Esiste allora veramente distinzione tra questo e quello? Quando questo (soggettivo) e quello (oggettivo) si trovano entrambi senza termini di correlazione, si ha il vero “Asse del Tao”. E quando quell’Asse passa attraverso il centro nel quale convergono tutti gli Infiniti, anche le affermazioni e le negazioni si fondono insieme in un unico essere infinito. (23) Tratto da:
LUIGI64 Inviato 23 Giugno Autore Inviato 23 Giugno Il dibattito sulla questione se la natura sia temporale o atemporale non è nuovo, ma ha origini antiche. Eraclito e Parmenide, vissuti entrambi tra il VI e il V secolo a.C., proprio riguardo a questo argomento svilupparono visioni del mondo contrastanti. Mentre Eraclito sosteneva che «nessuno può calarsi due volte nello stesso fiume», Parmenide affermava che «il cambiamento è un’illusione». Nonostante queste visioni del mondo apparentemente opposte, i due filosofi concordavano sul fatto che l’universo è un’unità onnicomprensiva – che al livello più fondamentale «tutto è Uno». Le visioni del mondo dei due filosofi greci si possono quindi considerare corrispondenti a prospettive complementari anziché a ontologie contraddittorie. Il premio Nobel per la fisica Frank Wilczek ha descritto queste diverse prospettive come «l’occhio di Dio» (la visione dall’esterno della totalità dello spaziotempo) e «l’occhio della formica» (l’esperienza individuale lungo un certo percorso attraverso lo spaziotempo). «Un tema ricorrente nella filosofia naturale è la contrapposizione tra l’occhio di Dio, che vede la realtà nella sua interezza, e l’occhio di formica della coscienza umana, che percepisce una successione di eventi nel tempo», spiega Wilczek. «Fin dai tempi di Isaac Newton, la visione della formica ha dominato la fisica fondamentale. Dividiamo la nostra descrizione del mondo in leggi dinamiche che, paradossalmente, esistono al di fuori del tempo e condizioni iniziali su cui queste leggi agiscono». Wilczek ritiene che sia giunto il momento di modificare questo punto di vista: «Questa divisione è stata enormemente utile e di successo dal punto di vista pragmatico, ma continuiamo a essere ben lontani da una descrizione scientifica completa del mondo così come lo conosciamo». Nel 2016, prevedendo il futuro della fisica, Wilczek ha scritto: «Secondo me, innalzarsi dalla visione della formica alla visione di Dio della realtà fisica sarà la sfida più ardua per la fisica fondamentale nei prossimi cent’anni». 3 In una conferenza sullo stesso argomento tenuta qualche mese prima alla Brown University, Wilczek aveva associato la prospettiva di Dio alla filosofia atemporale di Parmenide e Platone e la visione della formica a Eraclito. 4 Inoltre, aveva citato la descrizione di Hermann Weyl, amico di Erwin Schrödinger, delle implicazioni di questa concezione: «Il mondo oggettivo semplicemente è , non avviene . Soltanto allo sguardo della mia coscienza che striscia lungo la linea di universo del mio corpo, una sezione di questo mondo prende vita come una fuggevole immagine nello spazio che cambia continuamente nel tempo». 5 Le prospettive della formica e di Dio di Wilczek ricordano le prospettive della rana e dell’uccello del suo collega del Massachusetts Institute of Technology (MIT ) Max Tegmark, che contrappongono l’esperienza quasi classica di un osservatore quantistico locale a quella di un ipotetico osservatore che guarda l’intero universo quantistico dall’esterno. Dalla prospettiva dell’uccello, non c’è un ambiente che provoca la decoerenza; presumibilmente, quindi, l’universo sarà percepito come un singolo oggetto quantistico. Si è tentati di associare la formica alla prospettiva della rana e l’uccello alla prospettiva di Dio. Tratto da: Heinrich Päs è docente di Fisica teorica presso la Technische Universität Dortmund in Germania.Ha conseguito il Ph.D. presso l’Università di Heidelberg e ricoperto incarichi presso la Vanderbilt University e l’Università dell’Alabama, svolgendo ricerche al CERN, al Fermilab, al Laboratorio del Gran Sasso e altrove. Päs ha scritto per «Scientific American» e «New Scientist».
LUIGI64 Inviato 25 Giugno Autore Inviato 25 Giugno Per meglio comprendere come le immagini possano mutilare la Realtà passiamo adesso alla scuola Madhyamika del Buddhismo Mahayana. Il Madhyamika rappresenta la forma più pura della modalità negativa, del “neti, neti”; per cui ciò che diremo di questa scuola va inteso come rappresentativo della via negativa in generale, del tentativo di liberarci degli idoli della conoscenza simbolica per raggiungere la conoscenza diretta e personale della Realtà. Il Madhyamika venne fondato intorno al II sec. da Nagarjuna, considerato da molti il più grande filosofo mai vissuto. In un certo senso non è esatto, perché Nagarjuna non era un filosofo, non mise a punto, né sviluppò alcun sistema logico. Egli al contrario volse la logica contro se stessa, al fine di rivelarne la natura contraddittoria. Non aderì ad alcuna particolare filosofia sulla realtà, volle soltanto dimostrare l’inevitabilità del fatto che tutte le filosofie che pretendevano di abbracciare la realtà finivano con l’autocontraddirsi. Per raggiungere questo obiettivo, Nagarjuna e il Madhyamika non propongono una contro-tesi; non demoliscono una filosofia per erigerne un’altra; piuttosto seguono sistematicamente ogni filosofia fino alla sua logica conclusione, dimostrandone così le contraddizioni interne. Il Madhyamika, tuttavia, non sostiene affatto l’inesistenza di una Realtà Assoluta; semplicemente sottolinea l’impossibilità di applicare alla realtà alcun concetto. Il rifiuto, da parte del Madhyamika, di tutte e alternative logiche, è al tempo stesso il rifiuto della possibilità, per la ragione dualistica, di comprendere la Realtà. La Ragione genera illusione, mai Realtà. La Realtà è quindi assenza (Vuoto) di ragione! Non dovrebbe più sorprenderci l’idea che qualunque cosa si pensi non rappresenta veramente la Realtà; infatti, come dice il Lankavatara Sutra, la “più alta Realtà è l’eternamente impensabile.” (30) Per Giovanni Scoto Eriugena, la Realtà nella sua totalità non ha opposti e dunque non è possibile formulare su di essa alcun pensiero. Scrive Suzuki: “Poiché [la Realtà] è aldilà di ogni forma di dualismo, non vi è in essa alcun contrasto, [e quindi] non è possibile caratterizzarla in alcun modo.” (31) Nicola Cusano chiamò Dio “coincidenza degli opposti”... Riassumendo, il Madhyamika chiama l’Assoluto Sunyata, Vuoto: Vuoto di cose e Vuoto di pensieri. Ma, di nuovo, vuoto non significa il nulla, non è nichilismo; è semplicemente la Realtà prima della sua frantumazione in concetti - il puro territorio al di là di ogni mappa descrittiva. Per questo motivo, il Buddhismo si riferisce alla Realtà anche come tathata, “esser tale”il mondo come veramente è, non come viene classificato o descritto. Discuteremo del tathata, l’“esser tale”, in un capitolo successivo. Ovviamente non esiste un modo per descrivere ciò che è al di là di ogni descrizione, e infatti è scritto che la vera natura dell’“esser tale” è il Vuoto. Perfino il considerarlo “puro territorio” non è corretto. Il Vuoto non è un’idea, non è un oggetto di pensiero. Non è possibile pensare al Vuoto, eppure proprio ora lo state osservando! Per restare nei limiti del linguaggio dualistico, Sunyata non è oggetto di pensiero ma “oggetto” di prajna, la consapevolezza non duale (più correttamente, Sunyata è prajna: conoscenza della Non-dualità). Se in ultimo Sunyata viene concepito come un’idea, anche questa va eliminata - Non può essere detto vuoto, né non-vuoto, Né entrambe le cose, né nessuna delle due; Tuttavia, per indicarlo, Lo si chiama “Vuoto”. (37) ...Se la realtà è inesprimibile, nondimeno è sperimentabile. Ma poiché quest’esperienza del mondo reale è offuscata dai nostri concetti su di essa, e poiché questi concetti riposano sulla frattura tra soggetto che conosce e concetti appresi, tutte le tradizioni esaminate affermano con forza che la Realtà può essere sperimentata solo non dualisticamente, senza scissione tra colui che conosce e l’oggetto della conoscenza, perché solo in questo modo l’universo non diventa illusione....Che la realtà si chiami Brahman, Dio, Tao, Dharmakaya, Vuoto o altro non è molto importante, perché tutti questi termini indicano la medesima condizione di Mente non duale, condizione in cui l’universo non si lacera in osservatore ed osservato. Tale livello di coscienza non è difficile da scoprire, e non è neppure sepolto così profondamente nella nostra psiche. È anzi molto vicino, proprio qui, e sempre presente. Tratto dal testo di Ken Wilber, più sopra citato
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