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Good religion trascendenza/mistica


Messaggi raccomandati

Cosa succede nel cervello quando pratichi mindfulness

Gli studi di neuroimaging mostrano che la meditazione mindfulness modifica la struttura e l’attività di alcune aree cerebrali chiave:

Corteccia prefrontale: migliora il controllo dell’attenzione e la regolazione emotiva.

Amigdala: riduce la reattività allo stress.

Ippocampo: aumenta la densità neuronale, favorendo memoria e apprendimento.

Una recente meta-analisi del 2025 pubblicata su Frontiers in Psychology ha confermato che otto settimane di mindfulness training sono sufficienti per ridurre i marker cerebrali dello stress e potenziare la connettività tra aree legate all’autoconsapevolezza.

 

https://www.salute.it/mindfulness-le-evidenze-scientifiche/

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“Esiste, o monaci, un non nato, non evoluto, non fatto, non condizionato. Se non ci fosse questo non nato, non evoluto, non fatto, non condizionato, non si potrebbe scorgere via di scampo dal nato, evoluto, fatto, condizionato. Ma poiché, invece, c’è un non nato, non evoluto, non fatto, non condizionato, si scorge una via di scampo dal nato, diventato, fatto, condizionato”.

(Buddha)

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I benefici del silenzio secondo la scienza

Sebbene Pitagora non disponesse di risonanze magnetiche né di studi clinici, la sua intuizione sul potere del silenzio ha trovato sostegno nella neuroscienza contemporanea. Uno studio del 2013 (con roditori) pubblicato sulla rivista Brain Structure and Function ha rivelato che due ore al giorno di silenzio favorivano la crescita di nuove cellule nell'ippocampo, un'area chiave per la memoria e l'apprendimento. Inoltre, il silenzio migliora la concentrazione, riduce lo stress e ci permette di regolare le nostre emozioni.

Tacere per ascoltare

Il silenzio pitagorico era la via verso la ricerca della saggezza come obiettivo primario della filosofia. Da qui, imparare a tacere prima di parlare permette alle nostre parole di acquisire peso. L'affermazione «uno stolto si riconosce da ciò che dice; un saggio, dal suo silenzio», attribuita anche a Pitagora, si traduce ai nostri giorni in una forma di comunicazione più consapevole. Ascoltare senza interrompere; non reagire impulsivamente; non parlare per il gusto di parlare e permettere a noi stessi di comprendere senza invadere l'altro.

Per Pitagora, il silenzio era anche un ponte verso il divino. Nella sua cosmologia, l'universo era governato da proporzioni matematiche, da una «musica delle sfere» che poteva essere percepita solo dall'introspezione interiore. L'anima, secondo questo saggio greco, è immortale e può migrare da un corpo all'altro, ma per farlo deve prima purificarsi. E per riuscirci, la prima cosa da fare è accettare il silenzio. Non sempre è necessario dire di più per sapere di più; a volte basta tacere e ascoltare

Pitagora, filosofo greco, sul potere del silenzio: «Ascolta, sarai saggio» https://share.google/xDHNFAl6ySS9IPtBF

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A proposito di silenzio e meditazione...

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 – Caro Paolo (Trianni), cosa intendi per “meditazione” nell’ambito teologico comparato delle religioni?

È sicuramente possibile fare comparazioni tra le religioni per quanto attiene la pratica spirituale, anche perché la meditazione rinvia alla dimensione del silenzio e al puro atteggiamento di ricezione che sono presenti trasversalmente in tutte le religioni.

Diversa, però, è l’interpretazione teologica che viene data ai suoi fini ultimi: risulta essere perciò tale la tensione di fondo che porta con sé la meditazione, che è ovunque simile (nella sua dimensione fenomenologica) e ovunque diversa (nella sua comprensione teologica).

– Quali tipologie di meditazione distingui?

Di tecniche meditative ce ne sono innumerevoli. Ogni tradizione religiosa ha le sue, con numerose varianti interne. Si potrebbe dire che ogni maestro spirituale ha dato le proprie raccomandazioni o indicazioni.

In genere, viene consigliata l’osservazione del respiro, l’ascolto di un suono o l’utilizzo di un mantra o di immagini. Mi preme sottolineare, però, una dimensione di fondo su cui molto insiste lo yoga: l’obiettivo della meditazione coincide sempre con il fermare i movimenti della mente, perché l’esperienza mistica vera e propria comincia – secondo questi orizzonti spirituali – proprio dopo il raggiungimento di quello stato acquietato di coscienza.

Tuttavia, per fermare la mente non bastano tecniche di respirazione o visualizzazioni, occorre una qualificazione morale, altrimenti la mente continua ad agitarsi e ad autoalimentarsi di pensieri e di desideri.

...

Posso ricordare la Vipassana buddhista, che è molto antica, lo yoga di Patanjali, lo zazen o la meditazione “camminata”. Oggi va molto di moda la mindfulness (= consapevolezza di sé e della realtà nel momento presente, ndr).

Per quanto riguarda il mondo cristiano, potrei ricordare la preghiera pura di un Evagrio Pontico o di Giovanni Cassiano, l’esicasmo o la mistica di Eckhart, e quella della “Nube della non conoscenza”. Alcuni movimenti di meditazione cristiana contemporanei coincidono appunto con un recupero di queste antiche tradizioni.

Perché la teologia contemporanea e la pastorale della Chiesa non possono non confrontarsi col «fenomeno mondiale» della meditazione, come tu lo definisci?

Un certo confronto comincia ad esserci. Molti cristiani si sono allontanati dalla spiritualità cristiana perché sentono il bisogno di essere aiutati da “tecniche”, oppure perché la percepiscono troppo povera spiritualmente e troppo verbosa. La vera lacuna pastorale consiste nel fatto che quasi nessuno insegna la profondità e la varietà della spiritualità cristiana. Anzi, più in generale, si parla troppo poco anche di mistica.

Nelle parrocchie chi parla dei padri del deserto, della mistica renano-fiamminga o anche dei grandi maestri esicasti del Monte Athos? Molti battezzati che si sono allontanati dalla Chiesa, si sono riavvicinati al cristianesimo dopo aver letto i libri dei missionari cristiani che hanno lavorato in India a contatto con l’induismo – come Henri Le Saux – o in Giappone a contatto con lo zen, come Hugo Enomya Lassale.

Oggi si stanno diffondendo la Centering prayer e la Comunità mondiale per la meditazione cristiana. Queste iniziative, però, non rappresentano una vera novità, sono, molto più semplicemente, una riscoperta delle antiche radici spirituali cristiane.

https://www.settimananews.it/spiritualita/meditazione-camminare-silenzio/

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Introdurre la meditazione nella vita non significa ritirarsi dalla realtà con le sue relazioni, responsabilità, carriera, politica, svaghi, festività. La meditazione ci rende più liberi di impegnarci nelle cose che ci interessano davvero, e spesso in modo più sano

...

Quando la mente si ritrae dal pensare ossessivamente, dal preoccuparsi invano e dal recriminare, vi sembrerà di aver trovato un rifugio. Avete un posto sicuro dove andare, ed è dentro di voi

(Sharon Salzberg)

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La coscienza potrebbe sopravvivere alla morte: la nuova teoria sulle esperienze pre-morte

Secondo la fisica e docente di nanotecnologia Maria Strømme, dell’Università di Uppsala (Svezia), la coscienza non nasce dal cervello, non sarebbe un prodotto biologico. Al contrario, sarebbe un campo fondamentale dell’universo, un elemento costitutivo della realtà tanto basilare quanto lo spazio, il tempo e l’energia. Se questa ipotesi fosse corretta, molti fenomeni considerati “misteriosi” - dalla telepatia alle esperienze di pre-morte, fino alla possibilità della vita dopo la morte - non richiederebbero più spiegazioni metafisiche, ma scientifiche. La coscienza individuale, suggerisce Strømme, non svanisce con il decesso: al momento della morte tornerebbe semplicemente al campo di fondo, da cui è emersa.

 “La possibilità che la coscienza sia fondamentale è stata poco esplorata - e non per motivi scientifici, ma culturali - afferma la ricercatrice -. Stiamo raggiungendo un punto in cui domande più profonde sulla coscienza non sono più filosofia marginale, ma una necessità scientifica

Secondo l'interpretazione proposta dalla profe.ssa Strømme, la coscienza non sarebbe un prodotto del cervello, ma si comporterebbe in modo simile a fenomeni già noti nella fisica quantistica. Per capire l’analogia, bisogna partire dal concetto di campo quantistico: nella fisica moderna, le particelle - come elettroni o fotoni - non sono entità isolate che esistono “da sole”, ma sono manifestazioni temporanee di un campo più profondo. Il campo è sempre presente, mentre la particella è solo un’oscillazione locale che compare, persiste per un certo tempo e poi si dissolve, senza che il campo sottostante cessi di esistere. 

Strømme applica questo stesso modello alla coscienza. Nell'approccio tradizionale, ogni persona possiede un’identità mentale individuale che nasce e muore con il cervello: l’“io” è un fenomeno biologico delimitato. Nella nuova teoria, invece, la coscienza individuale non sarebbe generata dal cervello, ma rappresenterebbe un’attivazione localizzata all’interno di un campo universale di coscienza. In altre parole, il cervello non produrrebbe la coscienza, ma la modulerebbe, proprio come un’antenna non crea il segnale radio, ma lo riceve e lo interpreta. 

Secondo Strømme, se la coscienza fosse un campo fondamentale dell’universo, allora l’interazione tra mente e materia sarebbe naturale e non misteriosa. In questo contesto, fenomeni come telepatia, premonizioni o percezioni extrasensoriali non sarebbero automaticamente “pseudoscienza”, ma fenomeni potenzialmente testabili. Se tutte le coscienze condividessero lo stesso campo, la trasmissione di informazioni tra persone separate nello spazio o nel tempo potrebbe essere possibile. Strømme suggerisce che questo potrebbe essere verificato sperimentalmente: due individui in meditazione profonda o in forte connessione emotiva potrebbero mostrare sincronizzazione delle loro attività cerebrali, segno di un’interazione attraverso il campo condiviso.

Senza prove sperimentali solide, non mette ancora in discussione il modello dominante, secondo cui la mente nasce dal cervello. Tuttavia, la teoria segue una tendenza crescente nelle scienze cognitive: l’idea che per capire la coscienza sia necessario andare oltre il riduzionismo tradizionale. Se la mente fosse davvero più vasta della materia, allora la morte non sarebbe una fine, ma un passaggio verso un’altra dimensione della coscienza.

https://www.today.it/benessere/salute/coscienza-sopravvivere-morte.html

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In un’epoca dominata dalla scienza, dalla tecnologia e dalla razionalità, come può collocarsi lo Zen? Sono due mondi agli antipodi, o possono dialogare?  Lo Zen non nasce per spiegare il mondo con misurazioni o dati scientifici, eppure dialoga con la mente contemporanea.

 

“…. La scienza, per sua natura, si fonda su misurazioni, ipotesi, linguaggio, definizioni. Lo Zen, paradossalmente, mira a trascenderli. La scienza cerca regolarità lo Zen cerca libertà. La scienza costruisce mappe; lo Zen invita a gettare via le mappe per vedere direttamente il territorio….”

 

Non coincidono, eppure non si ostacolano: possono completarsi, illuminarsi a vicenda, pur muovendosi su piani diversi.

È un invito a riflettere su ciò che possiamo comprendere, ciò che possiamo osservare e ciò che va oltre ogni misura.

Una spiritualità “razionale”: lo Zen ?

È curioso come, in un’epoca in cui cerchiamo soluzioni complesse per problemi complessi, la risposta arrivi da un gesto tanto semplice: stare seduti; meditare. Come direbbe un antico maestro, “Quando hai fretta, siediti”. Le neuroscienze confermano ciò che l’esperienza suggerisce: quando ci fermiamo, il cervello trova un ritmo nuovo, più lento, più umano. I pensieri diventano più docili, le emozioni meno tempestose. Il mondo non smette di correre, ma noi smettiamo di correre dietro a tutto.

La meditazione diventa una porta. Una porta che non porta altrove, ma che ci riporta qui. 

Forse, senza nemmeno accorgercene, Oggi cerchiamo una Via “razionale” alla spiritualità, se vogliamo chiamarla così. È curioso: più il nostro mondo diventa complesso e illuminato dalla scienza, più diventa difficile abbracciare ciò che non può essere spiegato. Viviamo in un’epoca in cui abbiamo imparato a misurare quasi tutto, a fidarci solo di ciò che possiamo verificare, vedere, comprendere. Così anche il sacro, nell’orizzonte contemporaneo, chiede una nuova lingua per poter essere ascoltato. Non ci accontentiamo più di verità consegnate dall’alto: vogliamo capire come funzionano, perché funzionano, in che modo toccano la nostra esperienza quotidiana. Una celebre frase Zen dice: “Non credere alle parole del Buddha: guarda dentro di te”. È quasi un manifesto di spiritualità laica ante litteram.

Allo stesso tempo, però, la scienza non risponde a tutto. Non colma la solitudine, non placa l’ansia, non dà un senso all’esperienza quotidiana. Così nasce la ricerca di una spiritualità che sia allo stesso tempo profonda e credibile, esperienziale e coerente con ciò che oggi sappiamo sulla mente. Una spiritualità che non chieda di sospendere il pensiero critico, ma lo integri. 

Lo Zen si colloca in un punto molto particolare rispetto ad altre tradizioni, anche buddhiste, che tentano lo stesso dialogo con la scienza e che stanno cercando da tempo un terreno comune con la psicologia e le neuroscienze. Lo Zen ha una caratteristica che lo distingue immediatamente: è una spiritualità senza sovrastrutture. Non parla di Buddha da venerare, non richiede credo, non racconta miti da accettare, karma o vite future da reincarnare. La sua essenza è pratica, concreta, essenziale. La meditazione non è un rituale sacro, ma un’attività che coinvolge il corpo, il respiro, l’attenzione. È talmente sobria che può essere studiata scientificamente senza tradirne lo spirito. Non c’è nulla da credere: c’è solo da sedersi ed essere. Come diceva Dōgen: “Zazen non serve a nulla, ed è proprio per questo che è perfetto”.

Inoltre, mentre altre tradizioni spirituali cercano la verità in un aldilà, lo Zen la cerca nell’adesso. Non parla di salvezza futura, ma di presenza. Non promette paradisi, ma propone una relazione diversa con ciò che già esiste. Un antico koan recita: “La verità è davanti ai tuoi occhi, perché la cerchi altrove?”
Questa concretezza è profondamente moderna: è una spiritualità che vive nello stesso tempo della scienza, che non la teme, non la contraddice e, spesso, la anticipa.

Proprio per questo lo Zen è percepito come una delle forme di spiritualità più vicine alla razionalità contemporanea. Non pretende di spiegare l’universo, nessuna cosmogonia, invita ad ascoltare sé stessi, e soprattutto, non chiede di rinunciare al pensiero critico. Lo Zen non offre risposte assolute, o modelli, ma una postura: quella di chi guarda il mondo con occhi aperti, mente presente e cuore tranquillo.
Da questo punto di vista, parlare di “compatibilità” tra scienza e Zen è legittimo, e forse anche naturale.

Ma… la compatibilità si complica quando lo Zen afferma di essere privo di contraddizioni con la scienza “in assoluto”. In realtà, lo Zen porta con sé una visione del mondo che non è scientifica nel senso moderno del termine. Non perché sia irrazionale, ma perché si muove su un piano diverso: quello dell’esperienza immediata e non duale, dove il linguaggio si dissolve, dove il sé si scopre illusorio, dove la realtà non viene descritta ma attraversata. “La luna non è la parola ‘luna’”, ricordano i maestri zen.

La scienza, per sua natura, si fonda su misurazioni, ipotesi, linguaggio, definizioni. Lo Zen, paradossalmente, mira a trascenderli. La scienza cerca regolarità lo Zen cerca libertà. La scienza costruisce mappe; lo Zen invita a gettare via le mappe per vedere direttamente il territorio.

Da questo punto di vista, dire che siano “compatibili” rischia di essere una semplificazione, utile per comunicare al pubblico occidentale, ma non del tutto accurata. È più appropriato dire che non sono in conflitto, ma non che coincidono. La scienza può descrivere gli effetti della meditazione, può mostrarci come il cervello si modifichi durante la pratica, come le reti neurali si stabilizzino, come lo stress diminuisca, come l’attenzione e la regolazione emotiva migliorino. Questa conoscenza è preziosissima: non solo per la salute psicofisica del meditante, ma anche per la società, perché diffonde strumenti concreti di benessere.

Eppure… 

Lo Zen è compatibile con la scienza finché parliamo di pratica, effetti psicologici, neuroscienze, regolazione emotiva, ma tutto ciò resta limitato. La neuroscienza può osservare i processi cerebrali, ma non può catturare la profondità di ciò che lo Zen propone: la trasformazione del modo in cui viviamo il mondo, il riconoscimento della vacuità del sé, la comprensione immediata della realtà così com’è. La mente può essere misurata, le emozioni regolate, ma l’esperienza diretta dell’illuminazione, del Satori, della non dualità resta oltre ogni strumento di misurazione.

 

Quindi la considerazione potrebbe essere duplice: Si, esiste una forte compatibilità “pragmatica”, empirica, fenomenologica con la scienza e le moderne psicologie. No, la compatibilità totale è più uno slogan che una verità, utile alla diffusione culturale ma insufficiente a descrivere la complessità dello Zen.

 

In fondo, non c’è bisogno che siano compatibili. Forse il punto più importante è che lo Zen non ha mai cercato di essere scientifico. Non nasce per spiegare il mondo, ma per trasformare il modo in cui lo viviamo. La scienza osserva; lo Zen attraversa. La scienza misura; lo Zen libera.

 

Eppure, proprio perché si muovono su piani diversi, non si ostacolano. Possono dialogare, illuminarsi a vicenda, senza doversi fondere in un unico sistema. La loro verità non sta nell’essere identici, ma nell’essere complementari.

 

Quando il rumore diventa insopportabile, il silenzio non è più un lusso: è un rifugio.
Quando tutto ci trascina via, la presenza diventa un’ancora.
E quando ci sembra di non riconoscerci più, la meditazione ci riporta al luogo in cui siamo sempre stati: qui, ora, nel cuore vivo della nostra stessa esistenza.

 

Tetsugen Serra -insegnante riconosciuto della tradizione Sōtō Zen, e uno dei pionieri dello zen in Italia. Dopo studi accademici e monastici in Giappone, al monastero Toshoji nel lignaggio del Maestro Harada Daiun Sogaku, nel 1988 apre a Milano il Tempio Zen Ensoji – Il Cerchio, centro di pratica e cultura zen.

Nel 1996 fonda Sanboji – Tempio dei Tre Gioielli, eremo zen a Berceto (PR), sulle colline tosco-emiliane, luogo di formazione monastica, ritiri intensivi e pratica aperta a tutti. Oggi è Maestro spirituale dei sei Templi e Monasteri del Cerchio: L20 Il Cerchio (Milano), Sanboji (Berceto), Gyosho (Cecina), OraZen (Padova), Ten Shin (Napoli), UnSui (Pesaro). È autore di numerosi libri e articoli sullo zen: dalla psicologia zen al vivere quotidiano, fino all’organizzazione del lavoro secondo i principi della Via.Guida spirituale riconosciuta a livello nazionale, ministro di culto dello Stato italiano, è consigliere direttivo dell’Unione Buddhista Italiana (UBI). Ha ideato il Corso Zen Triennale dell’Istituto di Formazione Buddhista Zen Dharma Academy, di cui è cofondatore. È docente nel Master in Contemplative Studies dell’Università di Padova. È anche tra i firmatari del Manifesto religioso italiano per la pace-

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Con la franchezza che lo contraddistingue, Thich Nhat Hanh va dritto al cuore della questione. Dopo aver preso in esame le similitudini tra la teologia della Trinità e il concetto buddhista di «inter-essere», si dichiara in disaccordo con papa Giovanni Paolo II, ovvero con colui che milioni di persone considerano il più illustre esponente della tradizione cristiana. Nel suo libro Varcare la soglia della speranza, quest’ultimo afferma infatti:

Cristo è assolutamente originale […] unico e irripetibile. Se fosse soltanto un «saggio» come Socrate, se fosse un «profeta» come Maometto, se fosse «illuminato» come Buddha, senza dubbio non sarebbe ciò che è. Ed è l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini.

Citando questo brano, Thich Nhat Hanh commenta:

Un’affermazione del genere non sembra riflettere il profondo mistero dell’unità della Trinità. Né riflette il fatto che Cristo è anche il Figlio dell’Uomo. Quando pregano Dio, tutti i cristiani si rivolgono a lui chiamandolo Padre. Cristo è unico, certo. Ma chi non lo è? Socrate, Maometto, il Buddha, voi e io siamo tutti unici. L’idea sottesa all’affermazione, comunque, è che il cristianesimo offra l’unica via di salvezza e che tutte le altre tradizioni religiose siano inutili. Un atteggiamento, questo, che esclude il dialogo e fomenta l’intolleranza e la discriminazione. Non è di alcun aiuto.

In quanto studiosa delle tradizioni cristiane, nonché cristiana praticante, mi trovo d’accordo con Thich Nhat Hanh su questo come su quasi tutti gli altri punti più rilevanti di Buddha vivente, Cristo vivente. A ogni modo, il mio consenso non scaturisce da un’immersione nella tradizione buddhista quanto, piuttosto, da un’esplorazione del cristianesimo delle origini. Quando ero dottoranda, fu grande la mia sorpresa nell’apprendere di una scoperta che sta ancora modificando la

nostra visione del cristianesimo e del suo misterioso fondatore. Nel 1947, mentre scavava in cerca di guano fertilizzante sotto una rupe nei pressi di Nag Hammâdi, nell’Alto Egitto, un beduino di nome Mohammed Ali disseppellì una giara di terracotta sigillata, alta più di un metro e ottanta, che al suo interno custodiva tredici antichi codici avvolti in una pelle di gazzella goffrata. La raccolta includeva un sorprendente numero di vangeli cristiani e di altri scritti, tra cui spiccavano dialoghi, conversazioni e visioni attribuiti a Gesù e ai suoi discepoli. Uno di questi era quel Vangelo di Tommaso che Helmut Koester, professore di teologia e storia della chiesa presso la Harvard University, nonché studioso di scritture neotestamentarie, colloca intorno al 50 d.C., ovvero vent’anni prima della stesura di qualsiasi altro vangelo. C’erano poi il Vangelo di Filippo, il Dialogo del Salvatore, il Libro segreto di Giovanni, l’Apocalisse di Paolo e altri scritti, per un totale di cinquantadue testi. Libri evidentemente prelevati dalle biblioteche dei monasteri protocristiani d’Egitto e messi in salvo dopo che l’arcivescovo di Alessandria aveva ordinato ai monaci di distruggere tutti gli scritti da lui reputati «eretici» (vale a dire, tutte le fonti cristiane non approvate dalle autorità clericali).

Spaziando da questi testi gnostici cristiani all’opera di Thich Nhat Hanh, mi sento comunque in un territorio familiare. Nel periodo di formazione del movimento cristiano (50-150 d.C.), svariati discepoli, esprimendosi da una prospettiva simile alla sua, vedevano Gesù come colui tramite il quale il divino si era manifestato, e attraverso il cui esempio e insegnamento speravano di raggiungere un’illuminazione analoga. La maggior parte dei capi della chiesa cristiana, però, rifiutava questo insegnamento non solo in quanto «blasfemo» nell’invitare i discepoli a identificarsi con il Cristo stesso, ma anche perché promuoveva un principio potenzialmente ambiguo e destabilizzante per molti membri della chiesa.

Investigando queste fonti a lungo nascoste, scopriamo che il movimento cristiano delle origini racchiudeva una molteplicità di punti di vista e di pratiche ben più ampia di quella che, in seguito, la maggior parte dei cristiani avrebbe riconosciuto o anche solo immaginato. Basta semplicemente ascoltare le parole del Vangelo di Tommaso per sentirvi riecheggiare la tradizione buddhista:

Gesù disse: «Se coloro che vi guidano vi dicono: “Ecco! Il Regno (di Dio) è in cielo!” allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono: “È nel mare!” allora i pesci vi precederanno. Il Regno è invece dentro di voi e fuori di voi. Quando vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che voi siete i figli del Padre che vive [corsivo mio]. Ma se voi non vi conoscerete, allora dimorerete nella povertà, e sarete la povertà».

Secondo il Vangelo di Tommaso, il «Gesù vivente» offre davvero il modo di accedere a Dio; tuttavia, invece di presentarsi quale «unigenito Figlio di Dio» (come in seguito affermato con forza dal Vangelo di Giovanni), Egli rivela che «voi siete i figli di Dio». Questo vangelo è attribuito a «Tommaso il gemello». Nella letteratura ebraica, il nome Tommaso significa appunto «gemello». Gesù aveva dunque un fratello gemello? Sono piuttosto dell’idea che l’attribuzione, intesa simbolicamente, voglia condurre il lettore a scoprire di 

essere egli stesso, a un livello profondo, «gemello» di Gesù in quanto figlio di Dio.

Alla fine del vangelo, Gesù si rivolge direttamente a Tommaso:

Colui che beve dalla mia bocca, diventerà come me, e io stesso diventerò come lui [corsivo mio] e gli saranno rivelate le cose nascoste.

Secondo il Libro di Tommaso il Contendente, altro testo rinvenuto nella giara, Gesù parla a Tommaso – ovvero al lettore – con queste parole:

Ora essendo stato detto che tu sei il mio gemello e compagno vero… non è giusto che ignori te stesso… Sicché mentre mi accompagni sebbene ignorante, di fatto sei già giunto a conoscere, e sarai detto «colui che conosce sé stesso». Colui infatti che non ha conosciuto sé stesso, non ha conosciuto nulla, ma colui che ha conosciuto sé stesso è – contemporaneamente – giunto alla conoscenza dell’abisso del tutto.

Mentre i vangeli del Nuovo Testamento presentano Gesù come l’unica porta per la salvezza, come l’unico sentiero («Io sono la via, la verità e la vita

Tratto dall'introduzione di Elaine Pagels (Dopo aver conseguito il dottorato presso l'Università di Harvard nel 1970, Elaine Pagels ha insegnato al Barnard College, alla Columbia University, dove ha presieduto il dipartimento di religione. Ora è la Harrington Spear Paine Professore di Religione all'Università di Princeton. Il professor Pagels è autore di diversi libri su argomenti religiosi ed è stato insignito di una MacArthur Fellowship nel 1981. Vive e insegna a Princeton, nel New Jersey.) del testo:

 

 

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Thích Nhất Hạnh. – Monaco buddhista, filosofo e attivista per i diritti umani vietnamita (Huế, Thừa Thiên, Annam, 1926 – ivi 2022). Dopo gli studi in Religioni comparate a Princeton e la docenza alla Columbia university, ha contribuito alla fondazione (1964) dell’università buddhista di Saigon e creato la School of youth for social service, organizzazione di volontari per il soccorso alle fasce di popolazione maggiormente colpite dalla guerra di resistenza in atto in Vietnman contro gli Stati Uniti. Costretto all’esilio in Francia, da lì ha proseguito il suo impegno pacifista, di insegnamento e di studio, fondando nel 1982 nei pressi di Bordeaux il Plum Village, il più vasto e attivo monastero buddhista dell’Occidente, affiancato negli anni successivi da una rete di centri di meditazione e scuole situati in Germania, Australia, Thailandia e negli Stati Uniti.  Rientrato in Vietnam nel 2005, vi ha proseguito la sua attività di poeta, di storico del buddhismo e di saggista, focalizzando la sua ricerca interiore sulla condizione di consapevolezza (mindfullness) raggiungibile attraverso la meditazione, il cui obiettivo ultimo è l’acquisizione di un ruolo partecipe e attivo nelle relazioni con l’umano e il non umano.

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La vita religiosa è la vita

Venti anni fa, a una conferenza di teologi e professori di religione, un mio amico indiano di fede cristiana disse all’auditorio: «Daremo voce alla bellezza delle diverse tradizioni, ma ciò non significa che ne faremo una macedonia». Quando toccò a me prendere la parola spiegai: «Certe macedonie sono ottime! Ho condiviso l’eucaristia con padre Daniel Berrigan, e questa nostra liturgia è stata resa possibile dalle sofferenze che noi vietnamiti abbiamo condiviso per lunghi anni con gli americani». Alcuni buddhisti presenti rimasero esterrefatti nell’apprendere che avevo preso parte al rito eucaristico, per non dire dell’autentico orrore dipinto sul volto di molti cristiani. Per quanto mi riguarda, la vita religiosa è la vita. E non vedo alcun motivo per cui si debba trascorrere l’intera esistenza gustando solo un tipo di frutta. Noi esseri umani possiamo nutrirci dei migliori valori di diverse tradizioni.

Il professor Hans Küng ha detto che fino a quando non ci sarà pace tra le religioni non potrà esserci pace nel mondo. La gente uccide e si fa uccidere perché troppo aggrappata alle proprie credenze e ideologie. La convinzione che la nostra sia l’unica fede a possedere la verità non può portare che dolore e sofferenze. Il secondo precetto dell’Ordine dell’Inter-essere, fondato in seno alla tradizione buddhista zen durante la guerra del Vietnam, prescrive appunto il distacco dalle proprie opinioni: «Non ritenere la conoscenza di cui disponi al momento una verità immutabile e assoluta. Evita la ristrettezza di vedute ancorata alle idee contingenti. Impara e pratica il non attaccamento alle opinioni, così da disporti all’apertura verso il punto di vista degli altri». Per me questa è la più essenziale delle pratiche di pace.

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Frasi molto belle e sagge tratte dal testo di cui sopra

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Essendo oggi la scienza moderna un faro di riferimento obbligato per il progresso della conoscenza umana, non manca chi pretende di assumere il sapere e i metodi scientifici quali sistemi interpretativi universali, capaci cioè di spiegare e risolvere questioni esistenziali come quella del significato della vita e questioni etiche come l’origine del bene e del male, rendendo metodologicamente inutile l’ipotesi dell’esistenza di Dio. Si è affermata nel XX secolo una maniera di essere atei strettamente collegata con la ricerca scientifica e con la filosofia della scienza, che ha trovato in molti scienziati e filosofi dei convinti e autorevoli teorici, per altro anche piuttosto aggressivi e motivati, come Steven Weinberg, Richard Dawkins e Daniel C. Dennett.

L’ateismo moderno è tuttavia in primo luogo una manifestazione pratica, vale a dire un modo concreto di vivere nel quotidiano etsi Deus non daretur (come se Dio non ci fosse), magari talvolta dichiarandosi ancora credenti e perfino appartenenti a una specifica confessione religiosa. L’attuale diffuso atteggiamento ateo è sicuramente uno dei prodotti della secolarizzazione e degli effetti di uno stile di vita disincantato rispetto al trascendente, nonché predisposto dai progressi della tecnologia e dalle banalizzazioni del consumismo a cogliere maggiormente o preferibilmente le esigenze pratiche piuttosto che quelle teoretiche o di valenza superiore. Sia pure con posizioni non sempre tra loro convergenti, tale processo è stato a suo tempo colto nel suo generarsi e nei suoi riflessi filosofici da due pensatori italiani come Cornelio Fabro e Augusto Del Noce. Partendo dalle loro analisi e spingendoci oltre, possiamo oggi vedere bene come l’ateismo contemporaneo iniziato con il pensiero moderno abbia percorso una parabola che dall’esaltazione dell’uomo fin quasi alla divinizzazione l’ha condotto a esiti oggettivamente nichilistici.

Da un simile angolo visuale l’ateismo attuale può essere interpretato come il segno della crisi della modernità e della postmodernità, come la condizione in cui l’essere umano alla fine si ritrova solo a tu per tu con la prospettiva del nulla. È evidentemente difficile rassegnarsi a questa conclusione; ma se esiste una via di uscita, siamo convinti possa essere conseguita soltanto dopo un’indagine critica delle ragioni dell’ateismo.

Roberto Giovanni Timossi (Nel segno del nulla) laureato in filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Genova nel 1977, ha svolto docenze presso l’ateneo genovese. È stato membro del Comitato Etico dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Piemonte-Liguria e componente del Comitato di Gestione della Fondazione Compagnia di San Paolo di Torino. È attualmente Consigliere di Amministrazione della Fondazione Carige di Genova e componente del Comitato di Indirizzo del Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana. È inoltre Accademico dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Presidente del Consiglio Scientifico della “Scuola Internazionale Superiore per la Ricerca Interdisciplinare” (SISRI) del Centro di ricerca DISF presso la Pontificia Università della Santa Croce e Docente presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Liguria (ISSRL).

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"Una grande maestra di vita”

Eppure, nel decesso si può intravedere persino un valore pedagogico. Lo ricorda sant’Alfonso Maria de’ Liguori nel suo Apparecchio alla morte, definendola “una grande maestra di vita”. Accostarsi ad essa, meditarla, aiuta a stabilire le priorità dell’esistenza, a liberarsi del superfluo e a vivere nella consapevolezza che il tempo terreno prepara all’eternità.

Eppure molte visioni antropologiche attuali promettono immortalità immanenti, teorizzano il prolungamento della vita terrena mediante la tecnologia. È lo scenario del transumano, che si fa strada nell’orizzonte delle sfide del nostro tempo. La morte potrebbe essere davvero sconfitta con la scienza? Ma poi, la stessa scienza potrebbe garantirci che una vita senza morire sia anche una vita felice?

Il Papa: la morte non è la fine ma un passaggio, attenzione agli scenari del transumano - Vatican News https://share.google/HIeoctnW7nKwKusqI

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Studi condotti presso prestigiose istituzioni come l'Università della California a Berkeley, l'Università di Graz in Austria e la Canterbury Christ Church University nel Regno Unito dimostrano che interventi della durata di appena 20 secondi al giorno possono produrre effetti misurabili sulla riduzione dello stress, sull'aumento del benessere soggettivo e persino su parametri fisiologici come la variabilità della frequenza cardiaca. Questa scoperta apre prospettive inedite per l'implementazione di strategie di salute mentale accessibili, particolarmente rilevanti in un'epoca caratterizzata da sovraccarico cognitivo e cronicizzazione dello stress.

https://www.tomshw.it/scienze/microdosi-di-mindfulness-benefici-per-la-salute-2025-12-09

 

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Nella nostra epoca dominata dalla scienza e dalla tecnologia, al paradigma antropologico o umanistico dell’ateismo si è aggiunto quello scientifico o scientista. Pur mantenendo l’impostazione di fondo materialista, ammantata tutt’al più di una nuova forma di naturalismo evoluzionistico, col paradigma scientista gli atei teorici hanno ritenuto di poter dare una veste «scientifica» alle loro tesi. Tuttavia, l’ateismo di gran lunga prevalente nell’attuale civiltà secolarizzata resta quello «pratico» e comunque in generale quello dell’indifferenza o di un’incredulità di fondo nei confronti del problema dell’esistenza di Dio e della religione. Su cosa rappresenti la secolarizzazione nel contesto dell’ateismo si è discusso molto sia dal punto di vista teologico sia dal punto di vista sociologico. Per un sociologo e al tempo stesso teologo come l’austriaco Peter Ludwig Berger è da intendersi come il «processo attraverso il quale settori della società e della cultura diventano estranei al dominio delle istituzioni e dei simboli religiosi»91. Tale processo, considerato sotto il profilo individuale, si presenta come uno stile di vita delle persone che neppure percepiscono il bisogno di credere nella presenza di un Ente trascendente o di cercare il proprio senso in una risposta religiosa, come uno spontaneo e abitudinario distacco dalle grandi questioni metafisiche ed esistenziali (Chi siamo? Perché esistiamo? Che significato hanno la nostra vita e l’universo? Perché c’è l’essere piuttosto che il nulla?).

L’ateismo pratico non ha normalmente dietro di sé un particolare approfondimento delle motivazioni del rifiuto di Dio e non si fonda nemmeno su precise argomentazioni razionali, ma si caratterizza come un atteggiamento individuale, una forma di comportamento quotidiano che esclude di fatto l’idea stessa del divino, «senza preoccuparsi della sua esistenza e organizzando la propria vita privata e pubblica prescindendo dall’esistenza di qualsiasi Principio assoluto»92. Per questo talvolta viene anche definito «apateismo», sincrasi di «apatia» e «ateismo», per segnalare come l’ateo pratico si dimostri apatico nei confronti del problema di Dio e reputi irrilevante qualsiasi discussione problema dell’esistenza di Dio e della religione. Su cosa rappresenti la secolarizzazione nel contesto dell’ateismo si è discusso molto sia dal punto di vista teologico sia dal punto di vista sociologico. Per un sociologo e al tempo stesso teologo come l’austriaco Peter Ludwig Berger è da intendersi come il «processo attraverso il quale settori della società e della cultura diventano estranei al dominio delle istituzioni e dei simboli religiosi»91. Tale processo, considerato sotto il profilo individuale, si presenta come uno stile di vita delle persone che neppure percepiscono il bisogno di credere nella presenza di un Ente trascendente o di cercare il proprio senso in una risposta religiosa, come uno spontaneo e abitudinario distacco dalle grandi questioni metafisiche ed esistenziali (Chi siamo? Perché esistiamo? Che significato hanno la nostra vita e l’universo? Perché c’è l’essere piuttosto che il nulla?).

L’ateismo pratico non ha normalmente dietro di sé un particolare approfondimento delle motivazioni del rifiuto di Dio e non si fonda nemmeno su precise argomentazioni razionali, ma si caratterizza come un atteggiamento individuale, una forma di comportamento quotidiano che esclude di fatto l’idea stessa del divino, «senza preoccuparsi della sua esistenza e organizzando la propria vita privata e pubblica prescindendo dall’esistenza di qualsiasi Principio assoluto»92. Per questo talvolta viene anche definito «apateismo», sincrasi di «apatia» e «ateismo», per segnalare come l’ateo pratico si dimostri apatico nei confronti del problema di Dio e reputi irrilevante qualsiasi discussione sull’esistenza del divino o di un Creatore. Come emblema di questo modo di essere atei è rimasta celebre un’osservazione dell’illuminista francese Denis Diderot (1713-1784) all’amico deista Voltaire, che recita così: «È molto importante non prendere la cicuta per il prezzemolo, ma non lo è affatto credere in Dio o non crederci».93 Quello dell’ateo pratico, secondo il cattolico convertito André Frossard (1915-1995), si può definire «ateismo perfetto» perché viene vissuto come fosse uno stato del tutto naturale, come una tranquilla e scontata abitudine: «Mia nonna era ebrea, mia madre protestante, mio padre non era battezzato. […] In casa nostra non si sfiorava neppure per sbaglio l’argomento “religione”. […] Eravamo degli atei perfetti, di quelli che non si pongono più interrogativi sul loro ateismo

Tratto dal già citato:

 

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