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Good religion trascendenza/mistica


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Inviato

Interessanti riflessioni di  Arnaud Desjardins (autore che ha sviluppato e insegnato una spiritualità laica offrendo una sintesi delle religioni tradizionali e delle scoperte della psicologia moderna. È anche conosciuto per i suoi scritti sulle tradizioni spirituali orientali come l’induismo, il buddismo tibetano, lo zen e il sufismo in Afghanistan. In qualità di direttore presso l’ORTF dal 1925 al 1974, è l’autore di materiali televisivi, precursori in Francia, che riguardano le tradizioni spirituali) 

...

Una domanda mi è stata posta spesso. “I saggi che avete incontrato, i saggi che avete mostrato nei vostri diversi film, che cosa hanno più di noi?” La vera domanda è: “Che cosa hanno meno di noi?” Che cosa non hanno più che noi abbiamo ancora e che ingombra il campo della coscienza? Certo, è imperativamente necessario non confondere lo psichico e lo spirituale propriamente detto, non ricondurre lo spirituale allo psichico. Ma è anche necessario tenere conto  dello psichismo, delle sue complessità, delle sue contraddizioni, dei suoi dinamismi inconsci...

Come ha scritto Jaques Vigne, che unisce a una formazione di psichiatra una profonda esperienza della saggezza hindu: “La psicoterapia guarisce il mentale, la via spirituale guarisce dal mentale ”.

Prima di guarire dall’ego, bisogna prima guarire l’ego, conoscerne i meccanismi, le contraddizioni e la forza d’inerzia delle abitudini (reazioni emozionali e mentali). Non si può essere liberi da ciò di cui non si è prima perfettamente coscienti.

Il lavoro di guarigione dell’ego comprende una parte di decondizionamento. Swami Prajnanpad usava il termine diseducare. Bisognava, secondo lui, diseducarsi da tutto quello che i genitori, la società, la cultura, la scuola e  la religione imprimono in noi e che abbiamo represso a nostra volta. “I vostri pensieri sono citazioni, le vostre emozioni sono imitazioni, le vostre azioni sono caricature”, diceva senza mezzi termini.

Evidentemente, quando ci si avvia sulla via progressiva, bisogna fare prova di costanza e pazienza. E’ un lavoro a lunghissimo termine, a volte ingrato, dove bisogna rimettere in discussione le proprie convinzioni senza scoraggiarsi

 

Tratto da:

Guarire l'ego prima di guarire dall'ego- da 3ème Millénaire  n. 51 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini

 

 

 

  • Melius 1
Inviato

 Non dovete confondere ‘sapere’, ‘conoscere’ e ‘comprendere’: la vera conoscenza è una funzione dell’essere: si conosce quello che si è. Gli studi scolastici sono soprattutto un fatto di sapere, che si tratti di calcolare una radice quadrata o della prima guerra mondiale. Ma qui parliamo di qualcosa di infinitamente semplice e insieme estremamente sottile, che va contro le nostre abitudini mentali...

immaginate un uomo che ha preso l’abitudine di guardare attraverso degli occhiali, l’ego appunto, di cui non sospetta neppure l’esistenza perché gli sono stati messi fin dall’infanzia. Non gli verrà mai in mente di toglierseli, e continuerà a vivere fino alla fine condizionato dall’ego....

Già è arduo farlo sparire anche ponendo attenzione alla sua inutilità e vanità. Figurarsi quando non si ha la minima intenzione di farlo sparire o magari neppure il minimo sospetto che esista! Inoltre l’intelletto da solo, la testa da sola, se è vero che può darvi un grande sapere, anche tecnico, utilizzabile concretamente, non può in nessun modo darvi l’esperienza dell’ego. Sull’ego potete leggere libri di psicologia, di metafisica, di yoga, ma è l’ego che li legge, è l’ego che li interpreta...

Allora potete porvi la domanda: Chi ama? Chi non ama? Chi è contento? Chi è scontento? Chi è rassicurato? Chi è inquieto? E questo nelle più piccole circostanze, in qualunque momento della vita. E vedetelo, vedetelo: chi, chi? Questo è l’ego.

E’ inevitabile questo egocentrismo? Con una vigilanza attenta potreste sfuggirgli, ma senza vigilanza non avrete nessuna possibilità. Vi dimenticate, dimenticate e dimenticate. Potete parlare tutto il giorno di saggezza, ma senza vigilanza non potrete mettere in pratica niente.

Dunque dovete trovare degli esempi non in condizioni straordinarie, ma nelle situazioni banali della vita quotidiana, quelle che sono normalmente a vostra disposizione. Qui e ora siete in una situazione concreta, qui e ora siete nel particolare e non nel generale. Osservate qui e ora le vostre reazioni. E’ essenziale, ma non vi sembrerà ancora abbastanza grandioso. Voi cercate qualcosa di più bello, di più meraviglioso, di più misterioso: E sarà proprio la vigilanza che vi condurrà allo straordinario...

E’ solo vedendo con acume il meccanismo stesso dell’ego e dell’emozione, sorpreso nell’istante, proprio qui e proprio ora, che il vostro essere intero, la vostra vita intera saranno cambiati. Non c’è altra possibilità che l’istante...

L’ego l’avete sotto gli occhi. E’ quel modo soggettivo, personale, di prendere un fenomeno, nella fattispecie una certa sensazione, di interpretarlo attraverso il passato e proiettarlo verso il futuro, cosa che provoca un’emozione. Siate vigili, spegnete il fuoco al suo nascere. Un fuoco ha attecchito, il fuoco del mentale e dell’ego che decidono le ‘qualità’. Di qui il fuoco si estende e aumenta continuamente. Il mentale si nutre di se stesso. Nascono pensieri neri di ogni genere, fantasie negative che non fanno altro che suscitare nuove emozioni, e nuovi disturbi fisiologici. Il mentale è un invasore sfrenato. Si permette tutto, niente lo ferma, nessuna vergogna, nessun pudore. Il mentale è capace di qualunque spettacolo pur di catturare l’emozione...

L’emozione vi toglie il diritto alla certezza, l’emozione oscilla da ‘per’ a ‘contro’, pensa una cosa stamattina e il contrario stasera, domattina un’altra cosa e domani sera tornerà alla prima soluzione. Mentre la non-emozione vi promette la certezza per quanto riguarda l’azione: è questo che devo fare. Ed è un’azione che vi mantiene nella pace; nulla è più un problema, nulla. Tutto ciò che si presenta è semplicemente un avvenimento. Le successioni di causa ed effetto sono all’opera, e in presenza di certe condizioni si produce un certo avvenimento. Ma un avvenimento non può più essere un problema, mai più. E voi ‘sentite’ che cosa dovete fare. Lo fate, ed è nell’azione stessa che trovate la pace. Questo modo di essere e di agire, che giunti a questo punto non vi distoglie più dalla pienezza profonda e dalla pace, è un vostro diritto di nascita.

E’ così che potete vivere liberati dal dubbio, pur riconoscendo senza sforzo i vostri limiti: “Ecco cosa mi viene chiesto, a me così come sono, con i miei limiti. Se fossi molto più intelligente, se fossi molto più abile o se fossi molto più brillante, forse sarebbero possibili altre azioni. Ma io sono questo, e questo posso fare”. L’importante non è essere intelligente, non è essere brillante, non è neppure essere efficace: L’importante è essere stabile nella pace del cuore, e non essere più strappato a questa pace. L’azione è un problema solo perché il mentale pensa; e il mentale pensa perché c’è emozione, e così via…

La Bibbia dice che l’uomo è creato a immagine di Dio. Si dice anche che Dio è pieno d’amore e onnipotente. Scopriamo che la nostra natura originaria è anch’essa piena d’amore e onnipotente, anche se gli amori ordinari non sono che fascinazioni, cioè l’altra faccia dell’odio e della paura, e che finora hanno mascherato la nostra realtà essenziale. E’ quello che gli indù definiscono ‘ignoranza’ o ‘illusione’, i buddhisti ‘sonno’. E’ ciò che noi chiamiamo ‘peccato originale’ o ‘caduta’....Ritrovare Dio in voi (cosa che cerca il mistico) o ritrovare il vostro nel senso ultimo del termine, è scoprire in voi questa coscienza dell’essere, che è detta anche Spirito, sulla quale niente ha presa. ‘Spiritualità’ è un altro termine per indipendenza e non-dipendenza. Niente, nessun fenomeno, nessun avvenimento, nessuna situazione ha potere su questa Coscienza suprema. E questa verità può essere provata, sentita come un’esperienza e una realizzazione, e non considerata un atto di adesione a un dogma. Ecco la differenza....

    Quando un saggio afferma di essere stabile in questa coscienza, accade che gli altri ne rimangono convinti, che non ci sia alcun dubbio sulla veridicità della sua affermazione. Fino a che ho avuto dei dubbi, sono stato zitto, Quando non ho più avuto dubbi, e questa assenza di dubbio si è confermata giorno dopo giorno, anno dopo anno, allora e solo allora ho testimoniato. Non ne avevo ancora una prova personale, ma ne avevo prova attraverso i saggi che incontravo, in quanto di fronte a essi avevo la certezza che fossero stabiliti in quella Coscienza su cui nessuna situazione esterna ha potere. Una simile libertà è il fine, il vero fine, la risposta assoluta...

Ecco la salvezza, ecco il compimento del vostro destino di uomini sulla Terra, ecco la riuscita della vostra vita. Tutto il resto sfiora appena l’essenziale, anche se diventerete celebri come Napoleone o Michelangelo. Voi vi identificate con le percezioni e le sensazioni. E il concetto fondamentale si riassume in una parola: io. Con tutto ciò che è sottinteso. Io sono Arnaud Desjardins, e se sono Arnaud Desjardins non sono Alain Boiron né Paul Dumas. L’egocentrismo è fatto di concetti derivanti dalle nostre percezioni sensoriali e dall’apparente separazione dei corpi fisici in rapporto gli uni con gli altri. Gli psicologi hanno insistito sul processo di distinzione del corpo fisico del neonato da quello della madre, che si stabilisce nei primi mesi di vita. In seguito, ci identifichiamo con il nostro nome e con la nostra forma, grossolana o sottile, con la percezione che abbiamo di noi come persona intelligente, o poco dotata, sportiva, istruita, ignorante, laureata, povera, ricca, celebre, sconosciuta, eccetera. La maggior parte delle esistenze umane si compendiano in queste identificazioni, e l’essenziale viene dimenticato...

Si dà il caso che la realizzazione di questa Coscienza non-attingibile è talmente incommensurabile in confronto al mondo degli opposti, della creazione e della distruzione, che per esprimere quanto qui ho detto con parole semplici e quasi povere si è spesso usato un linguaggio grandioso. Di fronte all’esperienza abituale di cui la quasi totalità degli uomini è prigioniera, la scoperta di questa coscienza indistruttibile è sublime, divina, indicibile. Da qui deriva il senso del sacro in rapporto al profano, da qui nascono la bellezza, la grandezza, la nobiltà delle immagini, dei simboli che intendono esprimere ciò che io ho detto con le povere parole che ho a disposizione. La cattedrale gotica più sublime non è altro che il commento architettonico di ciò che tento di trasmettervi...

Non c’è altra religione che la ricerca dell’eterno. Una religione o è mistica o è degenerata. In questo caso diventa legalismo, morale, magia, oppio dei popoli, trasformandosi in un’arma nelle mani del clero o di una casta che si appoggia al clero. O una religione chiama tutti gli esseri religiosi ad avvicinarsi all’esperienza mistica, oppure quella religione ha perduto il suo senso. Traetene le conclusioni che volete...Riguardo all’origine del cristianesimo, senza dubbio ogni essere umano è chiamato alla realizzazione: “Dio si è fatto uomo perché l’uomo possa farsi Dio”. “Molti sono i chiamati ma pochi gli eletti”: è un fatto. Ma la probabilità di trovare Dio in se stessi esiste per ogni essere umano. Ma la probabilità che ciò avvenga dipende dalle condizioni e dalle circostanze...

Nel 1959, nel corso della prima intervista concessa dal Dalai Lama, con l’autorizzazione del governo indiano che lo aveva da poco accolto col rischio di scontentare la Cina allora alleata dell’India, un giornalista americano chiese al monaco sovrano in esilio: “Che cosa pensa di Mao Tse-Tung?”. Era come se nel 1942 avesse chiesto a un ebreo che cosa pensava di Adolf Hitler. Il Dalai Lama rispose semplicemente: “He also will reach Buddhahood one day”, “Anche lui un giorno raggiungerà lo stato di Buddha”. E’ la sola risposta che il Dalai Lama abbia dato sull’argomento, ed è esemplare per comprendere il contesto culturale, diciamo pure il contesto mentale, in cui vive un orientale rimasto fedele alla sua tradizione...

Esiste la possibilità di ricordarsi in ogni istante dell’insegnamento, e di ciò che il Vedanta definisce ‘coscienza-testimone’, ‘posizione del testimone’. Coscienza pura, perché tutti questi termini designano la stessa possibilità che vi viene sempre offerta, sempre. E questo ‘sempre’ deve essere inteso in senso assoluto: non c’è nessuna situazione che vi impedisca di tentare questo passo fondamentale. La Realtà metafisica è a portata di mano quanto un qualunque oggetto vicino a voi ora. E’ qui adesso per ognuno di voi, qui e ora. E’ la possibilità di porvi su un livello di coscienza al di là del piano fisico e del piano sottile...

La spiritualità è la non-dipendenza in rapporto a tutti i fenomeni, la non -identificazione con gli stati di coscienza passeggeri. Quando avrete compreso che questa non-identificazione può essere tentata quali che siano le circostanze e quale che sia il vostro stato d’animo, la via si apre di fronte a voi. Non c’è nessuna condizione, per quanto tragica possa essere, che vi impedisca di ricordarvi dell’essenziale. “In questo momento mi trovo in un indicibile stato di angoscia perché mia figlia doveva rientrare alle nove di sera, e non è ancora rientrata alle tre del mattino”. Sono d’accordo con voi che nel relativo si tratta di una situazione angosciante, anch’io ho due figli. Ciò che voglio ribadire (ed è qui che o capite o rifiutate di capire) è che, per quanto questa situazione sia angosciante, all’interno di questa angoscia potete trovare la ‘posizione del testimone’. Ma quando l’angoscia è troppo forte, ecco che rifiutate: “No! Non voglio nessuna libertà interiore, voglio soffrire! Mia figlia di sedici anni che doveva essere a casa alle nove non è ancora rientrata alle tre del mattino e non ha telefonato! Come volete che faccia in questa situazione a mettermi a cercare la ‘posizione del testimone’? Ecco cosa vi dice il mentale e come vi imprigiona.

Tratto da:

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  • Melius 1
Inviato

In accordo (guarda caso), con quello che afferma Desjardins:

 

Lo Zen insiste sulla necessità di affrontare la cosa in sé e non una vuota astrazione. Per questo motivo non dà particolare importanza alla lettura o alla recita dei sūtra , né si lascia coinvolgere in discussioni su temi astratti. È questa una delle ragioni per cui gli uomini d’azione, nel senso più generale del termine, si sentono attratti dallo Zen. In virtù della loro mentalità pratica, i cinesi, e in una certa misura anche i giapponesi, hanno accolto con grande favore lo Zen.

Lo Zen è una disciplina che mira all’illuminazione. Illuminazione significa emancipazione. Ed emancipazione vuol dire libertà. Oggi si parla molto di libertà: libertà politica, economica e di altro tipo, ma nessuna di queste è vera libertà. Relegate alla sfera della relatività, le libertà di cui parliamo con tanta disinvoltura sono ben lungi dall’essere tali. La vera libertà è conseguenza dell’illuminazione. Una volta compreso ciò, in qualunque situazione ci si trovi, si è sempre liberi nella propria vita interiore, che seguirà inevitabilmente una sua linea di condotta. Lo Zen è la religione del jiyū (tzuŭyu ), «dipendere da se stessi», e del jizai (tzuŭ-tsai ), «essere se stessi».

L’illuminazione occupa una posizione centrale nella dottrina di ogni scuola buddhista (Hīnayāna e Mahāyāna, «potere interiore» e «potere esterno», il Sacro Sentiero e la Terra Pura) perché gli insegnamenti del Buddha hanno tutti origine dalla sua illuminazione, avvenuta circa duemilacinquecento anni fa nel Nord dell’India. Ogni buddhista dovrebbe dunque ricevere l’illuminazione nel mondo attuale o in una delle sue esistenze future. Senza illuminazione, già realizzata o da realizzare in qualunque modo, momento o luogo, non ci sarebbe buddhismo. Lo Zen, a questo proposito, non fa eccezione. È anzi proprio lo Zen a dare particolare rilievo all’illuminazione o satori (wu in cinese).

Tratto da:

 

 

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Daisetsu Teitaro Suzuki è stato un autore giapponese di libri e saggi sul buddismo Zen (Chan) e Shin che sono stati determinanti nel diffondere l’interesse sia per lo Zen che per lo Shin (e la filosofia dell’Estremo Oriente in generale) in Occidente. Suzuki fu anche un prolifico traduttore di letteratura cinese, giapponese e sanscrita. Egli trascorse diversi periodi insegnando o tenendo conferenze nelle università occidentali e dedicò molti anni all’insegnamento presso l’Università di Ōtani, una scuola buddista giapponese.

Fu nominato per il Premio Nobel per la Pace nel 1963.

 

LUIGI64
Inviato

 

Incora sul risveglio, vigilanza e attenzione continue:

...

Dōgo aveva un discepolo chiamato Sōshin (Ch’ung-hsin). Quando venne accettato come novizio, Sōshin si aspettava naturalmente dal maestro delle lezioni di Zen, come avviene per uno studente a scuola. Dōgo, invece, non impartì lezioni specifiche sull’argomento e questo sorprese e deluse Sōshin. Un giorno il novizio disse al maestro: «È ormai da tempo che sono qui, eppure non mi è stata detta una sola parola sull’essenza dell’insegnamento zen». «Dal tuo arrivo» gli rispose Dōgo «non ho fatto altro che darti lezioni sulla disciplina zen». «E che genere di lezioni sarebbero mai state?».

«Quando mi porti una tazza di tè al mattino, la prendo; quando mi servi un pasto, lo accetto; quando ti inchini davanti a me, rispondo con un cenno del capo. Cos’altro ti aspetti di imparare sulla disciplina mentale dello Zen?».

Sōshin chinò il capo per un po’, meditando sulle parole sconcertanti del maestro. «Se vuoi vedere, guarda subito» disse il maestro. «Se inizi a pensare, il cuore della questione ti è già sfuggito».

Questa invece è la storia del maestro di spada:

Una volta un discepolo si recò da un maestro per apprendere l’arte della spada. Il maestro, che si trovava in ritiro nella sua capanna in montagna, accettò la richiesta. Chiese dunque all’allievo di aiutarlo: lo mandò a raccogliere sterpi per il fuoco e a prendere acqua da una sorgente vicina; gli fece tagliare la legna, accendere il fuoco, cuocere il riso, spazzare le stanze, pulire il giardino e badare alla casa. Non gli impartì mai lezioni regolari sulla tecnica dell’arte della spada. Dopo qualche tempo il giovane si spazientì, poiché non si aspettava di dover servire l’anziano signore, ma di apprendere quella nobile arte. Un giorno affrontò il maestro e gli chiese di dargli lezioni di spada. Il maestro acconsentì.

Per effetto di tale richiesta il giovane non poté più fare alcun lavoro senza sentirsi in pericolo. Quando iniziava a cuocere il riso al mattino presto, il maestro spuntava all’improvviso e lo colpiva alle spalle con un bastone. Mentre era intento a spazzare, veniva colpito allo stesso modo, senza riuscire a individuare da dove provenisse il colpo. Non aveva più pace, doveva stare sempre in allerta. Passarono anni prima che riuscisse a schivare con successo ogni colpo, intuendone la provenienza. Il maestro, tuttavia, non era ancora del tutto soddisfatto.

 

Un giorno il maestro si mise a cuocere delle verdure su un fuoco all’aperto. L’allievo pensò di approfittare di quell’occasione: afferrato il suo grosso bastone, lo diede in testa al maestro, che proprio in quell’istante si stava chinando sul tegame per mescolare la pietanza. Ma il bastone dell’allievo venne bloccato dal maestro con il coperchio del tegame. Allora la mente dell’allievo si aprì ai segreti dell’arte, che fino a quel momento gli erano stati preclusi e ai quali era stato del tutto estraneo. E per la prima volta apprezzò l’ineguagliabile bontà del suo maestro.

I segreti della perfetta arte della spada consistono nel creare una certa struttura o schema mentale che ci porti a essere sempre pronti a reagire istantaneamente, in maniera im-mediata , senza mediazioni, a quel che proviene dall’esterno. La competenza tecnica è di grande importanza, ma, in fondo, la si acquisisce e la si fa propria in modo artificioso, consapevole, calcolato. Se la mente che si avvale dell’abilità tecnica non riesce ad armonizzarsi con uno stato di suprema fluidità o mutevolezza, tutto ciò che viene acquisito o immagazzinato manca della spontaneità di una crescita naturale. È questo lo stato che prevale quando la mente viene risvegliata nel satori . Il maestro di spada voleva che il discepolo raggiungesse quella consapevolezza che non può essere insegnata da alcun sistema specificamente progettato a questo scopo: deve semplicemente crescere dentro di sé. Quello del maestro non si poteva definire un vero e proprio sistema. Nella sua apparente bizzarria era ravvisabile un metodo «naturale», grazie al quale il maestro riuscì a risvegliare nella mente del giovane discepolo qualcosa che fece scattare il meccanismo necessario per padroneggiare l’arte della spada.

Il maestro zen Dōgo non aveva bisogno di colpire continuamente il suo discepolo con un bastone. Il suo scopo era più definito, si limitava al campo della sua arte: voleva insegnare attingendo alla fonte dell’essere dal quale consegue tutto ciò che costituisce la nostra esperienza quotidiana. Perciò, quando Sōshin iniziò a riflettere sull’osservazione di Dōgo, questi gli disse: «Nessuna riflessione. Quando vuoi vedere, guarda in maniera im-mediata. Se indugi [vale a dire, non appena scatta un’interpretazione o una mediazione intellettuale], tutto va a rotoli». Questo significa che nello studio dello Zen si deve smettere di ragionare per concetti perché, se si rimane a quel livello, non si raggiungerà mai l’area nella quale lo Zen prende vita. Quando l’attività concettuale si arresta, la porta dell’esperienza-illuminazione si spalanca da sola. La precarietà o l’evanescenza che proviamo nel tentare di comprendere la verità o la realtà, o, potrei dire, Dio attraverso concetti o astrazioni intellettuali, è simile a quella che si prova quando si cerca di prendere un pesce gatto con una zucca, come efficacemente illustrato da Josetsu, pittore giapponese del XV secolo. Il suo disegno è assai noto..

Tratto dal testo di cui sopra

 

 

  • Thanks 1
LUIGI64
Inviato

Può il materialismo spiegare la coscienza umana? – 

Autore del contributo, proposto dal Dott. Mauro Stenico in traduzione italiana dall’originale inglese, è il Prof. Michael Egnor, docente di neurochirurgia pediatrica e convinto sostenitore della teoria dell’Intelligent Design. Egnor è attivo presso la State University of New York, a Stony Brook. 

...scientismo ateo che infesta la scienza moderna; in parte ancora, perché la pubblica ammissione di possedere una prospettiva dualistica è percepita – correttamente, commenta Egnor – come un impedimento a una carriera in ambito neuroscientifico. Egnor afferma come poco tempo prima di redigere il contributo un suo amico – un neuroscienziato di ruolo e affermato, e peraltro un cristiano devoto – gli avesse privatamente confidato che se mai avesse pubblicamente messo in questione il materialismo, egli non avrebbe più ottenuto alcun assegno di ricerca. Il materialismo è l’impalcatura della neuroscienza moderna per ragioni ideologiche, non logiche né scientifiche. Nella neuroscienza il materialismo è qualcosa di presupposto, non qualcosa di dimostrato. La ragione principale di tale presupposto, a dispetto della logica e dell’evidenza, è che è difficile [si suppone] testare le teorie materialistiche o dualistiche con rigore non ambiguo. Come possiamo sapere, sperimentalmente, se un pensiero sia qualcosa di materiale o di immateriale? Come puoi testare empiricamente tale quesito ‘metafisico’? Eppure, tutto ciò può essere testato, e lo è stato...

https://www.ciid.science/blog/2024/10/06/puo-il-materialismo-spiegare-la-coscienza-umana-parte-seconda/

LUIGI64
Inviato

Ho trovato, oh che sorpresa (finta) la fonte su alcune profondissime e raffinate deduzioni, come fossero state scolpite con un martello pneumatico, le quali ho letto molte, molte, molte volte...

Per qualcuno, anche esaustive e completamente dirimenti sulla questione religione e trascendenza

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Io, come immagino anche voi, non credo né in Giove né in Poseidone, né in Thor né in Venere, né in Cupido né in Snotra, né in Marte né in Odino o Apollo. Non credo nemmeno negli dèi degli antichi egizi come Osiride, Thoth, Nun, Anubi o suo fratello Horus, del quale si diceva, come di Gesù e di molti altri dèi del mondo, che fosse nato da una vergine. Non credo neppure in Adad, Enlil, Dagon, Marduk e altri dèi delle civiltà babilonesi-mesopotamiche....

Poiché si contraddicono tra loro, le varie religioni non possono essere tutte giuste. Anche ammesso che una di esse lo sia, perché dovrebbe essere proprio quella che per caso si segue nel paese in cui si è nati? Non occorre essere campioni di ironia per porsi una semplice domanda: «Non è incredibile che tutti i bambini pratichino la stessa religione dei genitori e che per caso sia sempre quella giusta?!». Una delle cose che meno sopporto è l’abitudine di attribuire ai neonati la «denominazione» religiosa dei genitori: «bambino cattolico», «bambino protestante», «bambino musulmano». Si affibbiano queste etichette a marmocchi che ancora non parlano e meno che mai possono avere un credo religioso.

...Quando qualcuno dichiara di essere ateo, non significa sia in grado di dimostrare che gli dèi non esistono. A rigor di termini, è impossibile dimostrare che qualcosa non esiste. Non possiamo sapere con certezza che non esiste alcun dio, così come non possiamo sapere con certezza che non esistono fate, folletti, elfi, hobgoblin, gnomi e unicorni rosa. Non possiamo fornire le prove della loro inesistenza, così come non possiamo dimostrare l’inesistenza di Babbo Natale, della Befana o del topino dei denti. Si possono immaginare un miliardo di cose di cui nessuno è in grado di dimostrare l’inesistenza. Il filosofo Bertrand Russell espresse il concetto con un’immagine icastica. Se vi dicessi, osservò, che c’è una teiera di porcellana in orbita intorno al sole, non potreste confutarlo. Ma l’impossibilità di confutare qualcosa non è un buon motivo per credere a quella cosa. In linea di principio dovremmo essere tutti «agnostici della teiera», ma in pratica siamo a-teieristi. Si può essere atei nello stesso senso (tecnicamente agnostico) in cui si è a-teieristi, a-fatisti, a-follettisti, an-unicornisti, insomma a/tutto-quello-che-la-fantasia-può-immaginare...

Esistono tante fedi diverse. Come si fa a essere sicuri che il libro sacro cui fa riferimento la nostra educazione sia quello vero? E se tutti gli altri testi sacri si sbagliano, che cosa ci fa pensare che il nostro non sia altrettanto sbagliato?

Se ha bisogno di risolvere una situazione difficile che metta a dura prova la pazienza, il cattolico potrà rivolgersi a santa Rita da Cascia. Se la fede vacilla, gli converrà chiedere aiuto a san Giovanni della Croce.

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La teiera!! :classic_biggrin:

Certo svalutare un personaggio come S. Giovanni della Croce..:classic_unsure:

Tratto da : Diventare grandi come Dio di R. Dawkins

 

LUIGI64
Inviato

Altra perla dello stesso autore, estratta questa volta da: L'illusione di Dio

 

Non occorre sottolineare quanto sia rilevante tale tendenza nel pio desiderio che sottende la religione.

Il tema che intendo svolgere è una teoria generale della religione come prodotto accidentale, ossia come portato non funzionale di un dispositivo utile. I dettagli sono numerosi, complicati e discutibili. Per chiarezza espositiva, continuerò a usare la mia teoria del «bambino credulone» come modello rappresentativo di tutte le teorie del prodotto indiretto. La teoria che la mente infantile sia, per buoni motivi, vulnerabile ai «virus» mentali potrebbe sembrare incompleta. La mente sarà anche vulnerabile, si dirà qualcuno, ma perché dovrebbe essere infettata da quel virus anziché da un altro? Alcuni virus hanno forse un penchant per le menti vulnerabili? Perché l’«infezione» si manifesta come religione anziché come qualcos’altro? Per la verità, la mia idea è che non importa quale particolare tipo di assurdità infetti la mente infantile; importa che, una volta infettato, il bambino crescerà e infetterà la generazione successiva con le stesse assurdità, quali che siano.

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Non siamo di fronte ad un semplice ateismo, ma ad un anti-teismo

Un forma di fondamentalismo razionalista che ha connotati simili alla peggiore bad religion, così avversata dallo stesso autore

 

LUIGI64
Inviato

Torniamo alla good religion e alla cultura Zen

... Wabi significa «povertà» o, in un’accezione negativa, «non appartenente alla società elegante del proprio tempo». Wabi è essenzialmente questo: essere poveri, e quindi non dipendere da fattori terreni quali la ricchezza, il potere o l’onore, eppure avvertire dentro di sé la presenza di un valore supremo, che va al di là del tempo e della condizione sociale. Nella vita quotidiana, wabi significa accontentarsi di un piccolo rifugio, una stanza di due o tre tatami , come la capanna di tronchi di Thoreau, di un piatto di verdure raccolte nei campi, ascoltando magari il ticchettio di una pioggerella primaverile. Tornerò in seguito sul concetto di wabi , per ora mi limiterò ad aggiungere che il culto del wabi ha pervaso la vita culturale dei giapponesi. Si tratta, a dire il vero, del culto della povertà, forse il più opportuno per un paese povero come il nostro. Malgrado il lusso moderno e il benessere di stampo occidentale da cui siamo stati invasi, proviamo ancora un rimpianto intenso e ineludibile per il culto del wabi . Anche nella vita intellettuale, non si cerca la ricchezza delle idee, né la vivacità o la grandiosità nell’organizzazione del pensiero e nella costruzione di sistemi filosofici: ci si accontenta umilmente della contemplazione mistica della natura. Allo stesso modo, sentirsi in armonia con il mondo è fonte di grande ispirazione per noi, o almeno per alcuni di noi. Sembra esserci in tutti noi, per quanto «civilizzati» e cresciuti in un ambiente artificiale, una nostalgia innata per la semplicità originaria, vicina allo stato naturale dell’esistenza. Perciò andare in campeggio nei boschi d’estate, viaggiare nel deserto o aprirsi un sentiero fra i cespugli sono attività che esercitano una grande attrattiva per chi abita in città. Avvertiamo il desiderio di tornare di tanto in tanto nel grembo della natura e sentirne il battito vicino. L’abito mentale dello Zen, volto a infrangere ogni forma di artificiosità umana per afferrare saldamente ciò che si trova al di là di essa, ha aiutato i giapponesi a non dimenticare il contatto con la terra e a mantenersi sempre in armonia con la natura, così da apprezzarne la spontanea semplicità. Lo Zen non prova alcuna simpatia per la complessità che si può cogliere osservando la vita in superficie. La vita di per sé è piuttosto semplice, ma quando viene esaminata in maniera analitica dall’intelletto mostra straordinarie complicazioni. Nonostante tutta la nostra cultura scientifica, non siamo ancora riusciti a sondare i misteri della vita. Una volta presi nel suo flusso, tuttavia, ci sembra di riuscire a comprenderla, con la sua eterogeneità e i suoi grovigli in apparenza insolubili. Probabilmente la caratteristica principale del temperamento orientale è la sua capacità di afferrare la vita dall’interno e non dall’esterno. Ed è proprio questo che lo Zen ha colto.

Tratto sempre da: Lo Zen e la cultura giapponese di Daisetz T. Suzuki

 

LUIGI64
Inviato

Ancora dal testo già citato:

 

Lo Zen ha un rapporto così stretto con l’arte della spada, più che con ogni altra arte giapponese, perché ne condivide il giudizio sulla questione della morte, considerata in maniera quanto mai urgente e minacciosa. Una mossa falsa e la nostra sorte è segnata, senza possibilità di pianificare azioni o concettualizzare. Ogni gesto deve scaturire direttamente dal proprio meccanismo interiore, che non sottostà al controllo della coscienza. Si deve agire per istinto, senza seguire l’intelletto. Nel momento in cui la lotta per la vita o per la morte raggiunge l’apice, ciò che conta di più è il tempo, che va utilizzato nella maniera più efficace. Ogni istante di distensione (suki ), per quanto fugace, verrebbe sfruttato immediatamente dall’avversario, che non esiterebbe a utilizzarlo a suo vantaggio, finendo così per distruggerci. Non è solo una questione di sconfitta o umiliazione.

Il momento di massima concentrazione è quello in cui si realizza un’identificazione totale fra soggetto e oggetto, fra la persona e il modo in cui agisce. Se tale identificazione non viene raggiunta, significa che il campo della coscienza non è ancora del tutto rischiarato: permane «una sottile traccia di pensiero» (misai no ichinen ) a ostacolare quell’azione che scaturisce direttamente e semplicemente dalla persona o, in termini psicologici, dall’Inconscio. Il risultato non potrà che essere catastrofico, dato che la spada incombente colpirà nel varco che si è aperto nella coscienza.

È per questo motivo che si consiglia sempre all’uomo di spada di liberarsi dal pensiero della morte o da ogni preoccupazione sull’esito dello scontro. Finché rimarrà anche un solo «pensiero», qualunque ne sia la natura, le conseguenze saranno certamente disastrose. Un detto cinese recita: «Quando si agisce con risolutezza, perfino gli dèi vi eviteranno». Una mente risoluta, ecco di cosa necessita maggiormente l’arte della spada. Senza di essa non può esserci concentrazione di sorta, tanto meno identificazione. Concentrarsi, perseguire il proprio scopo, volgersi verso un unico obiettivo (ekāgratā ), essere risoluti: tutte espressioni che hanno un solo significato. Quando un atto viene ad assumere un ruolo supremo, tutto vi deve essere consacrato. Questo istante è conosciuto nello Zen come lo stato della «non-mente» (munen )

...È chiaro dunque come la caratteristica che distingue l’arte della spada da ogni altra disciplina artistica sia la sua intima connessione con il problema ultimo della vita e della morte. In questo l’arte della spada è diventata una stretta alleata dello studio dello Zen e può ambire ai traguardi spirituali più elevati

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La filosofia dello Zen si rifà senza dubbio a quella più generale del buddhismo Mahāyāna, ma per tradurla nella pratica lo Zen ha elaborato un suo metodo specifico, che consiste nello scrutare direttamente il mistero del proprio essere, ovvero, secondo lo Zen, la Realtà stessa. Lo Zen ci consiglia quindi di non seguire gli insegnamenti orali o scritti di Buddha, di non credere in un essere superiore altro da sé, di non praticare alcuna forma di ascetismo, ma di ricercare un’esperienza interiore che si realizzi nei più intimi recessi del nostro essere. Si fa perciò ricorso a una modalità di comprensione intuitiva che si basa sul raggiungimento di quello stato che i giapponesi chiamano satori e i cinesi wu . Senza satori non c’è Zen. Zen e satori sono sinonimi. La centralità dell’esperienza del satori è ormai unanimemente considerata una peculiarità zen.

Il principio del satori è di non basarsi sui concetti per giungere alla verità delle cose, dal momento che i concetti sono utili per definire la verità delle cose ma non per farcela conoscere direttamente. È possibile che la conoscenza concettuale ci renda sotto certi aspetti più saggi, ma solo superficialmente. Questo tipo di conoscenza non è la verità vivente in sé e dunque non possiede alcuna creatività, in quanto mero accumulo di materia morta. In questo, lo Zen è in perfetta sintonia con lo spirito del pensiero orientale.

Si può dire che la mente orientale è più intuitiva mentre quella occidentale è più logica e discorsiva. Una mente intuitiva ha i suoi difetti, è vero, ma la sua forza si manifesta quando affronta ciò che è fondamentale nella vita, vale a dire ciò che riguarda la religione, l’arte e la metafisica. Ed è lo Zen, in particolare, ad averlo comprovato con la pratica del satori . L’idea che la verità ultima della vita e delle cose in generale deve essere intuita e non afferrata concettualmente, e che questa comprensione intuitiva sta alla base non solo della filosofia ma anche di ogni altra attività culturale è il contributo che la scuola buddhista zen ha dato alla formazione di una consapevolezza artistica nel popolo giapponese.

È qui che si salda il rapporto spirituale fra lo Zen e la concezione dell’arte in Giappone. A prescindere dalle definizioni utilizzate, tale rapporto nasce dalla consapevolezza del significato della vita. Si potrebbe anche dire che i misteri della vita permeano la composizione artistica. Quindi l’arte, quando presenta tali misteri in maniera particolarmente profonda e creativa, ci conduce nella parte più intima del nostro essere, divenendo un’opera divina. Le grandi creazioni artistiche, che si tratti di pittura, musica, scultura o poesia, possiedono invariabilmente tale qualità, una prossimità all’operato divino. Al massimo della sua creatività, l’artista si trasforma in un agente del creatore. Questo momento supremo nella vita di un artista, espresso in termini zen, equivale all’esperienza del satori , ossia, per usare il linguaggio della psicologia, prendere coscienza dell’Inconscio (mushin , non-mente). In un certo modo l’arte ha sempre a che fare con l’Inconscio. L’esperienza del satori non va quindi realizzata con i comuni metodi dell’insegnamento o della comprensione. Si ottiene con una tecnica propria che segnala la presenza in noi di un mistero che va oltre l’analisi intellettuale. La vita è effettivamente piena di misteri e ogni volta che ne abbiamo la percezione possiamo dire in un certo senso che sia presente lo Zen. Gli artisti parlano di questa sensazione definendola shin-in (shên-yün ) o ki-in (ch’i-yün ): ritmo spirituale, cogliere ciò che costituisce il satori .

Il satori rifiuta quindi di essere inquadrato in categorie logiche, qualunque esse siano, e lo Zen ci offre un metodo specifico per raggiungerlo. La conoscenza intellettuale possiede una propria tecnica, un metodo progressivo che ci permette di comprenderla gradualmente, anche se non ci consente di entrare in contatto con il mistero dell’essere, con il senso della vita, con la bellezza della realtà circostante. Non si può essere maestri o artisti (di qualsivoglia tipo) senza cogliere tali valori. Ogni arte ha il suo mistero, il suo ritmo spirituale, il suo myō (miao ), direbbero i giapponesi. Come abbiamo visto, è in questo che lo Zen si lega in maniera quanto mai profonda a ogni forma di arte. Il vero artista, come il maestro zen, è colui che sa percepire il myō delle cose.

Nella letteratura giapponese, a volte il myō viene chiamato anche yūgen (yu-hsüan ) o gemmyō (hsüan-miao ). Secondo alcuni critici, tutte le grandi opere d’arte incarnerebbero lo yūgen , grazie al quale ci è possibile cogliere l’eternità delle cose in un mondo in continuo mutamento, vale a dire scrutare nei segreti della Realtà. Dove splende il satori , si avverte il tocco dell’energia creativa; dove si avverte l’energia creativa, l’arte emana myō e yūgen .

Il termine satori possiede un’aura tipicamente buddhista, dal momento che deve penetrare nella verità del suo insegnamento in merito alla realtà delle cose o al mistero e al senso della vita. Quando il satori si esprime attraverso l’arte, genera opere che vibrano di «ritmo spirituale (o divino)» (ki-in ), che svelano il myō (o il misterioso) o che gettano uno sguardo nell’Insondabile, che è yūgen. Lo Zen ha quindi aiutato enormemente i giapponesi a entrare in contatto con il misterioso impulso creativo presente in ogni ambito artistico.

 

 

LUIGI64
Inviato

Lo Zen è stata definita la religione dei Samurai. La pratica dello Zen conduceva il guerriero ad ottenere quello stato di Mushin (non-mente) essenziale all'efficacia nel combattimento. La continua  consapevolezza del proprio essere nel momento presente in una ricerca di armonia ed efficienza sono alla base dell'educazione Zen.
Bodhidharma, principe indiano, venne in Cina per diffondere il Buddhismo e si stabilì nel tempio di Shaolin. Quivi insegnò ai monaci la corretta meditazione Zazen riconducendoli all'originario insegnamento del Buddha e le tecniche da combattimento ed energetiche che ristabilirono il corretto equilibrio mente-corpo. Da allora la meditazione è sempre stata parte integrante, insostituibile, della pratica delle arti marziali cinesi e successivamente giapponesi.Il momento contemplativo diviene il fondamento insostituibile dell'azione, favorendo un'immediatezza nella comprensione attraverso il corpo del significato profondo del Budo e ristabilendo quella intuitività primordiale che l'uomo moderno ha perduto e che le Arti Marziali si prefiggono di recuperare. 

(Taisen Deshimaru Roshi)

Monaco buddhista giapponese, fondatore dell'Associazione Zen Internazionale. discepolo laico di Kōdō Sawaki, abate di Antaiji e uno dei monaci zen più significativi del Giappone del XX secolo. Sawaki nel suo insegnamento insistette particolarmente sull'importanza della pratica di zazen e fu tra coloro che favorirono l'accesso alla pratica da parte dei laici, organizzando, quasi ogni mese e per alcuni decenni, sesshin (periodi di solo zazen) in numerosi monasteri e templi. Partecipò alla seconda guerra mondiale, richiamato alle armi nella marina imperiale giapponese nel 1941 dopo l'attacco di Pearl Harbor.

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"Dall'alba della sua storia, l'essere umano ha manifestato il desiderio di superarsi in forza e saggezza, aspirando, in verità, a raggiungere la più grande forza e la più alta saggezza. Ma attraverso quale mezzo si può diventare forti e saggi contemporaneamente? In Giappone vi si prova attraverso la pratica delle Arti Marziali, o Budo, e attraverso la Via dello Zen. Questo insegnamento tradizionale si è mantenuto, sebbene il Budo giapponese tenda, oggi, a diventare dualista: imparare ad essere forte piuttosto che a diventare  saggio..." L'intuizione e l'azione devono sgorgare nel medesimo istante; non ci può essere pensiero nella pratica del Budo: Non c'è un solo secondo per pensare. Quando si agisce, l'intenzione e l'azione devono essere simultanee...Così la tranquillità nel movimento è il segreto del Kendo, la Via della Spada. Contemporaneamente è il segreto del Budo e dello Zen che hanno lo stesso sapore." Lo spirito deve essere vuoto (Ku). Questo è lo Zen. Gli educatori odierni allenano il corpo, la tecnica, ma non la coscienza. I loro allievi si battono per vincere, giocano alla guerra come i bambini. Non c'è alcuna saggezza in tutto ciò, non aiuta a dirigere la propria vita! Nello spirito dello zen e del Budo, la vita quotidiana diventa il luogo del combattimento. Bisogna essere coscienti in ogni istante: alzandosi, lavorando, mangiando, coricandosi. In questo consiste la vera padronanza di sè. Essere Zanshin significa rimanere vigili e distaccati, attenti a tutto ciò che accade qui e ora. Questa concentrazione, a poco a poco si estende ad ogni azione della nostra vita."

(F.Taiten Guareschi)

Quattro volte campione italiano di Jūdō - e poi come insegnante, fondando nel 1973, sempre a Fidenza, la Scuola Superiore di Arti Marziali Kyu Shin Dō Kai, di cui oggi è presidente onorario. Negli anni ’60 incontra Taisen Deshimaru Rōshi, pioniere dello Zen europeo, che lo inizia alla Tradizione Zen Sōtō. Nel 1984, fonda il Tempio e Monastero Fudenji, centro di spiritualità e cultura, crocevia di dialogo e confronto con la cultura religiosa e scientifica contemporanea. Già presidente dell'UBI - Unione Buddhista Italiana - dal ‘90 al ’93, collabora successivamente, in qualità di vicepresidente, alla definizione dell’Intesa tra l’U.B.I. e lo Stato Italiano, firmata nella primavera del 2000 e approvata nel 2013. Dalla fine del 2004 Taiten Guareschi è Abate del monastero di Fudenji.

 

LUIGI64
Inviato

Qualche simpatica storiella Zen:

 

Una tazza di tè

Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette un professore universitario che andò a interrogarlo a proposito dello Zen.

Nan-in gli servì il tè. Riempì fino all’orlo la tazza del visitatore e continuò a versarne.

Il professore osservò il tè traboccare finché non riuscì più a trattenersi. «È troppo piena, non ne entrerà più!»

«Come questa tazza» disse Nan-in «tu sei pieno delle tue opinioni e delle tue speculazioni. Come posso mostrarti lo Zen a meno che tu non svuoti la tua tazza?»

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La luna non si può rubare

Ryōkan, un maestro zen, viveva con molta semplicità in una piccola capanna ai piedi di un monte. Una sera un ladro visitò la sua capanna, ma scoprì che lì dentro non c’era nulla da rubare.

Ryōkan tornò e lo colse in flagrante. «Magari hai fatto tanta strada per venire a visitarmi» disse al malintenzionato, «e non dovresti per questo tornare a mani vuote. Prego, prendi i miei vestiti come dono.»

Il ladro rimase sconcertato. Prese i vestiti e se la svignò.

Ryōkan si sedette, nudo, a guardare la luna. «Poveretto» rifletté, «avrei voluto potergli offrire questa splendida luna.»

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Il Cinese Felice

Chiunque cammini per le Chinatown d’America osserverà delle statue di un tipo robusto che trasporta un sacco di lino. I mercanti cinesi lo chiamano “il Cinese Felice” o “il Buddha ridente”.

Tale Hotei visse durante la dinastia T’ang. Non aveva alcun desiderio di definirsi un maestro zen, né di riunire vari discepoli attorno a sé. Camminava invece per le strade con un grande sacco, in cui metteva doni: dolci, frutta o ciambelle. Li distribuiva poi ai bambini che si radunavano attorno a lui giocando. Creò un asilo per le strade.

Ogni volta che incontrava un devoto zen, tendeva la propria mano e diceva: «Dammi una monetina». E se qualcuno gli chiedeva di tornare al tempio per insegnare agli altri, di nuovo rispondeva: «Dammi una monetina».

Una volta, mentre era intento nel suo gioco-lavoro, un altro maestro zen capitò da quelle parti e chiese: «Qual è il significato dello Zen?».

Hotei scaraventò subito il suo sacco a terra in silenziosa risposta.

«Quindi» chiese l’altro, «qual è l’attualizzazione dello Zen?»

All’istante il Cinese Felice si rimise il sacco in spalla e continuò per la sua strada.

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Strada fangosa

Una volta Tanzan ed Ekidō stavano viaggiando insieme lungo una strada fangosa. Pioveva ancora forte.

Giunti a una curva, incontrarono una graziosa ragazza in kimono e fusciacca di seta, che non riusciva ad attraversare l’incrocio.

«Vieni, ragazza» disse Tanzan prontamente. Sollevandola tra le braccia, la portò oltre il fango.

Ekidō non parlò più fino a quella sera, quando raggiunsero la foresteria di un tempio. A quel punto non riuscì più a trattenersi. «Noi monaci non ci avviciniamo alle donne» fece notare a Tanzan, «soprattutto non a quelle giovani e carine. È pericoloso. Perché l’hai fatto?»

«Ho lasciato là la ragazza» replicò Tanzan. «Tu la stai ancora portando in braccio?»

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Non lontano dalla buddhità

Uno studente universitario in visita a Gasan, gli chiese: «Hai mai letto la Bibbia cristiana?».

«No, leggimela tu» rispose Gasan.

Lo studente aprì la Bibbia e lesse da san Matteo: «E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro… Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena».

Gasan commentò: «Chiunque abbia pronunciato tali parole, io lo considero un illuminato».

Lo studente continuò a leggere: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto». Gasan osservò: «Parole straordinarie. Chiunque abbia detto questo non è lontano dalla buddhità».

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Un granello di tempo, una grande gemma

Un signore chiese a Takuan, un maestro zen, di suggerirgli come far passare il tempo. Gli sembrava che le sue giornate, trascorse a ricoprire la sua carica e seduto rigidamente a ricevere gli omaggi della gente, fossero molto lunghe.

Takuan scrisse otto ideogrammi cinesi e li diede all’uomo:

Non capita due volte questo giorno

un granello di tempo, una grande gemma.

Questo giorno non tornerà più.

Ogni minuto vale una gemma inestimabile.

Tratto da:

 

 

 

 

 

 

 

 

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  • Melius 1
LUIGI64
Inviato

 

Avendo appena menzionato Tsukahara Bokuden come uno di quei maestri che compresero perfettamente la missione dell’arte della spada, non come arma per uccidere ma come strumento di autodisciplina spirituale, vorrei ora riportare i due aneddoti più famosi della sua vita.

Una volta Bokuden stava attraversando il lago Biwa su una barca a remi insieme ad altri passeggeri, fra i quali sedeva un samurai animoso e arrogante, dalle maniere alquanto rudi. Il samurai si vantava della sua abilità nell’arte della spada, affermando che nessuno poteva tenergli testa. Gli altri passeggeri ascoltavano con grande attenzione i suoi discorsi spudorati, mentre Bokuden sonnecchiava senza badare a quel che succedeva intorno a lui. L’atteggiamento di Bokuden irritò molto il samurai spaccone che si gli si avvicinò e prese a scrollarlo dicendo: «Anche tu hai con te un paio di spade. Perché non apri bocca?». Senza scomporsi Bokuden rispose: «La mia arte è diversa dalla tua: consiste nel non essere sconfitto, non nello sconfiggere gli altri». Queste parole fecero infuriare il samurai.

«Quale sarebbe la tua scuola, allora?».

«La mia scuola è conosciuta come scuola mutekatsu » (che significa sconfiggere il nemico «senza mani», vale a dire senza usare la spada).

«E allora perché porti con te una spada?».

«Per sbarazzarmi dei fini egoistici, non per uccidere gli altri».

L’uomo fu colto allora da un’ira incontenibile ed esclamò in tono concitato: «Pensi davvero di poterti battere con me senza spada?».

«Perché no?» fu la risposta di Bokuden.

Il samurai presuntuoso gridò al barcaiolo di remare immediatamente verso terra, ma Bokuden disse che sarebbe stato meglio recarsi su un’isola più lontana perché sulla terraferma poteva radunarsi gente che avrebbe corso il rischio di rimanere ferita durante il loro combattimento. Il samurai acconsentì. La barca si diresse verso un’isola solitaria che si trovava a una certa distanza. Non appena furono abbastanza vicini a riva, il samurai saltò giù dalla barca ed estrasse la spada, pronto al combattimento. Bokuden, con tutta calma, tirò fuori le proprie spade e le porse al barcaiolo. Sembrava proprio che stesse per seguire il samurai sull’isola, quando d’un tratto tolse il remo di mano al barcaiolo e, spingendolo contro la riva, diede un forte contraccolpo alla barca, che lasciò rapidamente l’isola per dirigersi verso il largo, lontano dalla furia del samurai. Bokuden commentò sorridendo: «Questa è la mia scuola “senza spada”».

Tratto da: Lo Zen e la cultura giapponese (Daisetsu Teitaro Suzuki)

 

LUIGI64
Inviato

 

Ripercorriamo per sommi capi il famoso insegnamento del Buddha sulle due frecce 1. All’inizio del discorso il Beato osserva che il nobile discepolo del Dharma e la persona ignorante provano entrambi sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. Quale sarà, dunque, la differenza tra i due? La risposta è questa, che, allorché l’ignorante sperimenta una sensazione fisica spiacevole egli - a differenza del nobile discepolo - si agiterà e si preoccuperà in vario modo:

È come se un arciere, dopo aver colpito un uomo con una freccia, lo colpisse ancora con una seconda freccia. Sicché quell’uomo patirà il dolore di due ferite. Lo stesso accade all’ignorante, che soffre a causa di due dolori, quello fisico e quello mentale.

Subito dopo il Buddha illustra tre conseguenze importanti della ‘seconda freccia’, ossia dell’avversione nei confronti dello spiacevole. La prima è che, indugiando nell’avversione, si seminano disposizioni latenti (anusaya) di ulteriore avversione; la seconda è un simultaneo accendersi di attaccamento per il piacevole. Ciò è dovuto al fatto che "la persona ignorante non conosce altro modo per liberarsi da una sensazione spiacevole che cercare la distrazione di piaceri sensoriali". E questo porta a seminare disposizioni latenti di ulteriore attaccamento. Infine, l’essere all’oscuro di tutto questo dinamismo genera un accumulo di disposizioni latenti di ignoranza.

Le cose vanno altrimenti per il nobile discepolo, che al dolore del corpo non aggiungerà la sofferenza dell’avversione mentale. E dunque non sarà colpito dalla seconda freccia e quindi non seminerà avversione, attaccamento e ignoranza.

Mi pare utile cominciare a commentare questo fondamentale discorso del Buddha con un insegnamento di Krishnamurti, che usando un linguaggio diverso, tocca il medesimo tema. Qualcuno - in una conversazione - dice a Krishnamurti di essere pieno di odio e lo prega di insegnargli ad amare. Questa è la risposta:

Nessuno ti può insegnare ad amare. Se si potesse insegnare l’amore i problemi del mondo sarebbero molto semplici, no?... Non è facile imbattersi nell’amore. È invece facile odiare e l’odio può accomunare le persone... Ma l’amore è molto più difficile. Non si può imparare ad amare: quello che si può fare è osservare l’odio e metterlo gentilmente da parte. Non metterti a fare la guerra all’odio, non star lì a dire che cosa orribile è odiare gli altri. Piuttosto, invece, vedi l’odio per quello che è e lascialo cadere... La cosa importante è non lasciare che l’odio metta radici nella tua mente. Capisci? La tua mente è come un terreno fertile e qualsiasi problema, solo che gli si dia tempo a sufficienza, vi metterà radici come un’erbaccia e dopo farai fatica a tirarla via. Invece, se tu non lasci al problema il tempo di metter radici, allora non sarà possibile che esso cresca e finirà, piuttosto, con l’appassire. Ma se tu incoraggi l’odio e dai all’odio il tempo di mettere radici, di crescere e di maturare, allora l’odio diventerà un enorme problema. Al contrario, se ogni volta che l’odio sorge tu lo lasci passare, troverai che la mente si fa sensibile senza diventare sentimentale. E perciò conoscerà l’amore ...

 

L’accettazione-compassione e la fiducia sono fondamentali per infondere calore nella spaziosità della pace e per rendere in tal modo feconda la comprensione e il discernimento. Evidentemente l’intelligenza spirituale può avere infiniti gradi di sviluppo. Tuttavia, per essere vera intelligenza spirituale, anche un grado minimo di tale intelligenza dovrà avere, insieme, luce e calore: la luce che fa comprendere la ‘seconda freccia’, il calore spazioso che rende più profonda tale comprensione. Quella luce e quel calore che ci portano a una fiduciosa intuizione che, intessuto dentro il condizionato, brilli l’incondizionato.

Tratto da l'intelligenza spirituale di Corrado Pensa (Socio fondatore e insegnante guida dell’A.Me.Co -Associazione per la Meditazione di Consapevolezza-, ha insegnato Religioni e Filosofie dell’India presso l’università La Sapienza di Roma ed è psicoterapeuta junghiano. È considerato tra i più autorevoli insegnanti di meditazione buddhista.)

 

 

 

LUIGI64
Inviato

Ora andiamo a conoscere meglio un personaggio molto interessante: S. N. Goenka, tra l'altro, molto apprezzato anche da un convinto non credente come Yuval Noah Harari

https://zeninthecity.org/letture-meditazione/harari-meditazione-vipassana-osservare-la-mente/

Satya Narayan Goenka, nato in una famiglia induista di stampo tradizionalista, è un ex industriale ed ex capo della comunità indiana in Birmania Imparando Vipassana da U Ba Khin, Goenka scoprì una disciplina che non solo gli aveva alleviato i sintomi del malessere fisico, ma andava ben oltre, trascendendo ogni barriera culturale e religiosa. Durante gli anni che seguirono, impegnati nella pratica e nello studio sotto la guida del suo maestro, Vipassana gradualmente trasformò la sua vita.

Nonostante la sua presenza magnetica, Goenka non intende essere un guru che trasforma i suoi discepoli in automi. Al contrario, insegna l'autoresponsabilità. La prova concreta di Vipassana, egli dice, è la sua applicazione nella vita. Incoraggia chi medita a non sedersi ai suoi piedi, ma ad andarsene a vivere felicemente nel mondo; e mentre evita ogni espressione di devozione nei suoi confronti, spinge gli studenti a consacrarsi alla tecnica e alla verità che trovano dentro se stessi. In Birmania per tradizione, era prerogativa dei monaci buddisti insegnare la meditazione. Tuttavia, Goenka, come il suo maestro, é un laico a capo di una grande famiglia. Ciò nonostante, la chiarezza del suo insegnamento e l'efficacia della tecnica hanno ottenuto l'approvazione dei più autorevoli monaci in Birmania, India e Sri Lanka, alcuni dei quali hanno frequentato dei corsi sotto la sua guida. Per mantenere la sua purezza, ribadisce Goenka, la meditazione non deve diventare un affare. I corsi e i centri che operano sotto la sua direzione sono assolutamente senza fine di lucro. S.N. Goenka è uno dei pochi maestri spirituali indiani che godono della massima stima sia in India che in Occidente: non ha mai cercato di farsi pubblicità ma si è unicamente affidato al messaggio verbale per diffondere l'interesse nei confronti di Vipassana e ha sempre posto l'accento sull'importanza di praticare concretamente la meditazione piuttosto che limitarsi a descriverla. 

Domande e risposte

domanda : Voi fate riferimento al Buddha. Insegnate quindi il buddismo?

satya narayan goenka : Non mi occupo di "ismi". Insegno Dhamma, e cioè quello che ha insegnato il Buddha. Egli non ha mai insegnato un "ismo" o una dottrina settaria. Ha insegnato qualcosa da cui chiunque, quale che sia la sua provenienza, può trarre beneficio: un'arte di vivere. Rimanere nell'ignoranza è dannoso per tutti: sviluppare la saggezza è un bene per tutti. Così, chiunque può praticare questa tecnica e trarne beneficio. Un cristiano diventerà un buon cristiano, un ebreo diventerà un buon ebreo, un musulmano un buon musulmano, un indù un buon indù, un buddista un buon buddista. Ognuno deve diventare un buon essere umano, altrimenti non potrà mai essere un buon cristiano, un buon ebreo, un buon musulmano, un buon indù, un buon buddista. Come diventare buoni essere umani: è questa la cosa più importante.

Voi parlate del condizionamento. Questo tipo di esercizio non è anch'esso una forma di condizionamento della mente, anche se positivo?

Al contrario, è un processo di decondizionamento. Invece di imporre qualcosa alla mente, automaticamente rimuove le qualità non benefiche, cosicché rimangono solo quelle positive e benefiche. Eliminando la negatività, esso scopre la positività, che è la natura fondamentale di una mente pura. Ma il fatto che per un determinato periodo di tempo si debba sedere in una certa posizione e dirigere l'attenzione in un certo modo, non è una forma di condizionamento.

Se fate questo come un gioco o come un rito meccanico, allora indubbiamente condizionate la mente. Ma sarebbe un uso sbagliato di Vipassana, mentre quando la tecnica viene praticata in modo corretto vi rende capaci di sperimentare direttamente la verità, da soli. E da questa esperienza si sviluppa naturalmente la comprensione, che distrugge tutti i condizionamenti precedenti.

Non è egoistico dimenticare il mondo e limitarsi a starsene seduti a meditare tutto il giorno?

Lo sarebbe se fosse fine a stesso, ma è un mezzo per raggiungere che non è affatto egoistico: una mente sana. Quando il vostro corpo è malato, andate in ospedale per recuperare la salute. Non rimanete là per tutta la vita, ma semplicemente per recuperare la salute, di cui poi farete uso nella vita ordinaria. Allo stesso tempo, frequentate un corso di meditazione per ottenere la salute mentale che utilizzerete nella vita di tutti i giorni per il bene vostro e degli altri.

Rimanere felici ed in pace anche quando ci si confronta con la sofferenza altrui non è forse pura insensibilità?

Essere sensibili alle sofferenze degli altri non significa che si debba diventare tristi. Al contrario, dovete rimanere calmi ed equilibrati così da poter alleviare le sofferenze altrui. Se anche voi diventate tristi, accrescete l'infelicità attorno a voi; non aiutate gli altri e non aiutate voi stessi.

Perché non viviamo in pace?

Perché ci manca la saggezza. Una vita senza saggezza è una vita di illusioni, uno stato di agitazione e di sofferenze. La nostra prima responsabilità è di vivere una vita sana, armoniosa, buona per noi e per tutti gli altri. Per fare ciò dobbiamo imparare ad usare le nostre facoltà di auto-osservazione, di osservazione della verità.

Qual è secondo voi lo scopo della vita?

Uscire dall'infelicità. Gli esseri umani hanno la meravigliosa capacità di scavare a fondo dentro di sé, di osservare la realtà e uscire dalla sofferenza. Non usare questa capacità significa è sprecare la propria vita. Utilizzatela per vivere una vita sana e felice.

Voi parlate di "essere sopraffatti" dalla negatività. Cosa pensate del caso contrario, cioè di "essere sopraffatti" dalla positività, per esempio dall'amore?

Quello che voi definite "positività" è la natura reale della mente. Quando la mente è libera dal condizionamento, è sempre piena d'amore – amore puro – e ci si sente in pace e felici. Se si rimuove la negatività, allora rimane la positività, rimane la purezza. Che tutto il mondo possa essere sommerso da questa positività!

domanda : Quando parlate di "mente", non sono sicuro di cosa volete intendere. Mi è impossibile localizzare la mente.

satya narayan goenka: È ovunque, in ogni atomo. Ovunque sentite qualcosa, là c'è la mente. La mente sente.

Dicendo mente allora non volete indicare il cervello?

***Oh no, no. Qui in occidente si pensa che la mente sia solo nella testa. È un concetto sbagliato.***

La mente è in tutto il corpo?

Sì, tutto il corpo contiene la mente, tutto il corpo!

Lei parla dell'esperienza dell'Io solo in termini negativi. Non ha un lato positivo? Non c'è un'esperienza dell'Io che riempie la persona di gioia, di pace, di estasi ?

Con la meditazione si scopre che tali piaceri sensoriali vanno e vengono. Se questo Io realmente ne gioisse, se fossero "miei" piaceri, allora l'Io dovrebbe avere qualche potere su di essi. Ma essi nascono e svaniscono al di fuori del mio controllo. In questo caso, che cos'è l'Io?

Non sto parlando di piaceri sensoriali, ma di quelli a un livello molto profondo .

A quel livello l'Io non ha alcuna importanza. Quando si raggiunge quel livello, l'ego si dissolve. C'è solo gioia. La questione dell'Io allora non si pone neppure.

D'accordo, invece di Io diciamo allora l'esperienza della persona .

È la sensazione stessa che sente; nessuno la sente. Le cose stanno solo avvenendo, ecco tutto. Ora, a voi sembra che ci debba essere un Io che sente, ma con la pratica finirete col raggiungere il livello in cui l'ego si dissolve. E a quel punto questa domanda non avrà più ragione di essere.

...Nessuno vi causa sofferenza. La sofferenza nasce dentro di voi, allorché generate tensioni nella mente. Sapendo come evitarlo diventa facile rimanere in pace e felici in ogni situazione.

E quando qualcuno ci fa del male?

Non dovete permettere che qualcuno vi faccia del male. Ogni volta che qualcuno fa qualcosa di sbagliato, fa male agli altri e nello stesso tempo a se stesso. Se gli permettete di fare del male, lo incoraggiate a farlo. Dovete usare tutta la vostra forza per fermarlo, ma solo con benevolenza, con compassione e simpatia per quella persona. Se agite con odio o ira, allora aggravate la situazione. Ma voi non potete avere benevolenza per tale persona a meno che la vostra mente non sia calma e in pace. Una volta che avrete appreso con la pratica a sviluppare la pace dentro di voi, il problema potrà essere risolto.

A quale scopo cercare pace dentro di noi quando non c'è pace nel mondo?

Il mondo sarà in pace solo quando la gente del mondo sarà in pace e felice. Il cambiamento deve partire a livello individuale. Se la foresta si inaridisse e voi voleste ridarle vita, dovreste innaffiare ogni albero. ***Se volete un mondo di pace, dovete imparare ad essere in pace con voi stessi. Solo allora potrete portare la pace nel mondo.***

Posso capire come la meditazione sia in grado di aiutare persone infelici, disadattate, ma per chi si sente soddisfatto della sua vita, che è già felice?

Chi rimane soddisfatto dai piaceri superficiali della vita ignora i turbamenti profondi della mente. Si illude di essere una persona felice, ma i suoi piaceri non sono duraturi e le tensioni generate nell'inconscio si accresceranno, per apparire prima o poi al livello mentale conscio. Quando accade ciò, questa cosiddetta persona felice diventa triste. E allora, perché non iniziare a lavorare qui-e-ora per allontanarsi da una simile situazione?

Voi insegnate Mahāyāna o Hīnayāna ?

Nessuno dei due. La parola yana, di fatto, significa "veicolo che vi porterà alla meta finale", ma oggi gli si dà erroneamente una connotazione settaria. Il Buddha non ha mai insegnato qualcosa di settario. Ha insegnato il Dhamma, che è universale. È questa universalità che mi ha attratto verso l'insegnamento del Buddha, ed è da esso che ho tratto giovamento. Quindi è questo Dhamma universale che offro a tutti con tutto il mio amore e la mia compassione. Per me, il Dhamma non è né Mahāyāna né Hīnayāna , né alcuna setta.

Tratto da:

 

 

 

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zigirmato
Inviato

@LUIGI64 A proposito di cinesi e arti marziali, vi consiglio un bel film, Hero  con Jet Lii  . La storia di questo film a me è piaciuto tantissimo, a parte i combattimenti più o meno fantasiosi che possono piacere o non piacere, il succo il senso del film è a mio parere uno dei film migliori che ho visto.

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LUIGI64
Inviato

Altre domande e risposte, sempre dal testo di cui sopra:

Mi accorgo di essere molto propenso a sminuire gli altri. Qual è il modo migliore per affrontare questo problema?

La meditazione. Se l'ego è forte, si cerca di sminuire gli altri, di abbassare la loro importanza e accrescere la propria. Ma la meditazione dissolve naturalmente l'ego. E quando esso si dissolve, non è più possibile fare qualcosa che offenda un altro. Lavorate e il problema si risolverà automaticamente.

A volte mi sento in colpa per ciò che ho fatto.

Sentirvi in colpa non vi aiuterà, vi causerà solo danno. La colpa non ha posto nel sentiero di Dhamma. Se vi accorgete di aver agito in modo errato, accettate semplicemente il fatto senza cercare di giustificarlo o di nasconderlo. Potete anche andare da qualcuno che rispettate e dirgli: "Ho fatto questo errore, ma in futuro starò attento a non ripeterlo". E poi meditate, e scoprirete di poter superare tutte le difficoltà.

Perché tendo a rinforzare questo ego? Perché continuo a voler essere Io?

Questo è ciò che la mente è stata condizionata a fare, a causa dell'ignoranza. Ma Vipassana può liberarvi da questo dannoso condizionamento. Invece di pensare sempre a voi stessi, imparerete a pensare agli altri.

Come succede questo?

Il primo passo è riconoscere quanto si sia egoisti ed egocentrici. A meno che non si comprenda questa verità, non si può emergere dalla pazzia dell'amore di sé. Man mano che proseguirete nella pratica, vi accorgerete che anche il vostro amore per gli altri è nei fatti un amore egoistico. Capirete di amare qualcuno perché vi aspettate qualcosa da lui, vi aspettate che si comporti in un modo che vi piace: nel momento in cui questo qualcuno inizia a comportarsi in modo diverso, il vostro amore sparisce. Così vi domanderete se amate questa persona o voi stessi. La risposta vi diventerà chiara, ma non cercandola a livello intellettuale, bensì con la pratica di Vipassana. E una volta che avrete fatto questa esperienza diretta, potrete iniziare a emergere dal vostro egoismo, imparando a sviluppare un amore reale per gli altri, un amore altruistico, a senso unico: dare senza aspettarsi niente in cambio.

Sono confuso su chi sta osservando e chi o cosa viene osservato.

Nessuna risposta intellettuale può essere soddisfacente. Ciascuno deve indagare per proprio conto. Che cos'è questo Io che sta facendo tutto questo? Chi è questo Io? Bisogna continuare a esplorare, ad analizzare, a vedere se viene fuori un qualche Io; se è così, osservatelo. Vedete se viene fuori un qualche Io; se è così, osservatelo. Se non viene fuori niente, allora bisogna accettare: "Questo Io è un'illusione".

Un maestro come riconosce che un allievo ha sperimentato il nibbāna?

Ci sono vari modi per verificare quando qualcuno sta effettivamente sperimentando il nibbāna . Per questo un maestro deve ricevere un'educazione appropriata.

Come possono i meditatori riconoscerlo da soli?

Dai cambiamenti che intervengono nella loro vita. Chi ha realmente sperimentato il nibbāna diventa una persona nobile, santa, con una mente pura. Non trasgredisce in alcun modo i cinque precetti di base, non nasconde gli errori ma li ammette apertamente e cerca in tutti i modi di non ripeterli. L'attaccamento a riti e cerimonie scompare, perché essi li riconoscono come forme esteriori, vuote, senza un'esperienza reale. Hanno una fiducia inamovibile nel sentiero che li conduce alla liberazione, non continuano a cercare altre strade. E, infine, in essi l'illusione dell'ego sarà frantumata. Se qualcuno afferma di avere sperimentato il nibbāna , ma la sua mente rimane impura come prima, al pari delle sue azioni che restano nocive, allora c'è qualcosa di sbagliato. Il suo stile di vita deve mostrare se lo ha realmente sperimentato. Non è consono a un maestro rilasciare "certificati" agli studenti per annunciare che hanno conseguito il nibbāna . Tutto si trasformerebbe in una gara di accrescimento dell'ego sia per l'insegnante che per gli studenti. Gli studenti cercherebbero solo di ottenere un certificato, e più certificati  un maestro rilascia, più alta è la sua reputazione. L'esperienza del nibbāna diventa secondaria, il certificato acquista un'importanza primaria e tutto diventa un folle gioco. Il puro Dhamma esiste solo per aiutare la gente, e la soddisfazione più grande è quella di constatare che uno studente ha veramente sperimentato il nibbāna e si è liberato. Lo scopo del maestro e dell'insegnamento è di aiutare sul serio la gente, e non quello di pubblicizzare l'ego. Non è un gioco.

Come paragonereste la psicoanalisi a Vipassana?

Con la psicoanalisi si cerca di richiamare alla coscienza gli avvenimenti passati che hanno esercitato una forte influenza nel condizionare la mente. Vipassana, d'altra parte, conduce il meditatore ai livelli più profondi della mente dove, di fatto, inizia il condizionamento. Ogni episodio che la psicoanalisi cerca di far affiorare ha registrato anche una sensazione a livello fisico. Osservando le sensazioni fisiche attraverso il corpo con equanimità, il meditatore permette ad innumerevoli strati di condizionamento di emergere e scomparire. Egli si confronta con le radici del condizionamento e può liberarsene rapidamente e facilmente.

Cos'è la vera compassione?

È il desiderio di servire la gente, di aiutarla a uscire dalla sofferenza. Ma è una cosa che deve essere fatta senza attaccamento. Chi piange sulla sofferenza degli altri, si rende solo infelice. Non è questo il sentiero di Dhamma. Chi prova vera compassione, cercherà di aiutare gli altri con amore, con tutte le sue capacità. Se fallisce, sorride e cerca un altro modo per aiutare; lavora senza preoccuparsi dei risultati del suo servizio. Questa è la vera compassione, che nasce da una mente equilibrata.

Volete dire che Vipassana è il solo modo per raggiungere l'illuminazione?

L'illuminazione si raggiunge esaminando se stessi ed eliminando i condizionamenti. E fare questo è Vipassana, qualsiasi nome gli possiate dare. Alcune persone non hanno mai sentito parlare di Vipassana, e tuttavia in esse il processo ha iniziato ad operare spontaneamente. Giudicando dalle loro parole, sembra che questo sia stato il caso di diversi santi in India. Ma poiché essi non avevano appreso il procedimento con gradualità, non sono stati capaci di spiegarlo agli altri con chiarezza. Qui esiste la possibilità di apprendere passo per passo il metodo che porta all'illuminazione.

Voi definite Vipassana un'arte di vivere universale, ma questo non confonde le persone di altre religioni che la praticano?

Vipassana non si fa passare per una religione in competizione con altre religioni. Ai meditatori non viene chiesto di sottoscrivere ciecamente una dottrina filosofica, ma viene loro chiesto di accettare soltanto ciò che essi sperimentano come vero. La cosa più importante non è la teoria, ma la pratica, e ciò significa condotta morale, concentrazione e comprensione profonda della realtà che purifica la mente. Quale religione può fare obiezione a ciò? E come potrebbe confondere qualcuno? Date importanza alla pratica e verificherete che tali dubbi si risolveranno automaticamente.

 

 

 

 

 

 

LUIGI64
Inviato

 

I rintocchi dell'orologio

Ho avuto la grande fortuna di essere nato in Birmania, la terra di Dhamma, dove questa tecnica meravigliosa è stata tramandata per secoli nella sua forma originaria. Circa un secolo fa mio nonno vi giunse dall'India e vi si stabilì, e così io nacqui in quel paese. Ho avuto la grande fortuna di essere nato in una famiglia di uomini d'affari, dove dai vent'anni in poi ho cominciato a lavorare per far soldi. Ammassare denaro era lo scopo principale della mia vita. Sono stato fortunato poiché, sin dai primi anni, ho avuto successo e ho potuto guadagnare molto denaro. Se non avessi sperimentato personalmente come si vive da ricchi, non avrei mai avuto la prova diretta di quanto sia falso tale tipo di esistenza: in caso contrario, in qualche angolo della mente sarebbe sempre potuto nascere il pensiero che la vera felicità sta nella ricchezza. Quando la gente diventa ricca, acquista un prestigio speciale, una posizione sociale elevata che comporta cariche direttive in molte diverse organizzazioni. Dai vent'anni in poi mi sono buttato alla folle ricerca del prestigio sociale. E, naturalmente, le tensioni che un simile tipo di vita comporta mi fecero ammalare di una malattia psicosomatica, una grave forma di emicrania. Ogni quindici giorni mi veniva un attacco, e non c'era modo di curarmi. Mi sento fortunato di aver sviluppato una malattia di questo tipo. Anche i migliori medici della Birmania non riuscirono a curarmi. Il solo trattamento che avevano da offrirmi era un'iniezione di morfina per alleviare l'attacco. Ogni quindici giorni avevo bisogno di un'iniezione di morfina e poi ne subivo gli effetti collaterali: nausea, vomito, infelicità.

Dopo alcuni anni di sofferenze, i dottori iniziarono a mettermi in guardia: "Ora state prendendo della morfina per alleviare gli attacchi della malattia, ma se continuerete, presto diventerete dipendente dalla morfina e dovrete prenderla tutti i giorni". Fui colpito da questa prospettiva, la vita sarebbe stata orribile. I dottori mi consigliarono: "Dato che vi recate spesso all'estero per affari, per una volta fate un viaggio per la vostra salute. Noi non abbiamo cure per questo disturbo e, a quanto ne sappiamo, nemmeno i medici di altri paesi. Ma forse essi conoscono qualche altro antidolorifico che può alleviare i vostri attacchi e liberarvi dal pericolo della dipendenza dalla morfina". Li ascoltai, e cominciai a viaggiare in Svizzera, Germania, Inghilterra, America e Giappone. Fui curato dai migliori medici di questi paesi. E per mia fortuna tutti hanno fallito. Quando tornai, stavo peggio di quando ero partito. Dopo il mio ritorno da questo viaggio infruttuoso, venne a trovarmi un mio caro amico che mi suggerì: "Perché non provi uno dei corsi di dieci giorni di meditazione Vipassana? Sono condotti da U Ba Khin, un sant'uomo, un funzionario statale, un padre di famiglia come te. A me sembra che la tua malattia abbia origine nella mente, e pare che questa tecnica liberi la mente dalle tensioni. Forse, praticandola, puoi curarti da solo". Avendo fallito da ogni altra parte, decisi per lo meno di conoscere questo maestro di meditazione. Dopo tutto, non avevo niente da perdere. Mi recai al suo centro di meditazione ed ebbi un colloquio con quest'uomo straordinario. Profondamente impressionato dall'atmosfera calma e pacifica del luogo e dalla sua stessa presenza piena di pace gli chiesi se potevo frequentare uno dei suoi corsi.

"Certamente" mi rispose. "Questa tecnica è per uno e per tutti. Siate il benvenuto."

Io continuai: "Per diversi anni ho sofferto di una malattia incurabile, una grave emicrania. Spero che questa tecnica mi possa curare." "No" disse bruscamente" allora non venite da me. Non partecipate al corso."

Non riuscivo a capire come potessi averlo offeso, e allora lui con compassione mi spiegò: "Lo scopo di Dhamma non è di curare le malattie fisiche. Se è questo che cercate, è meglio che andiate in un ospedale. Lo scopo di Dhamma è curare tutte le infelicità della vita. La malattia di cui soffrite non è in realtà se non una piccolissima parte delle vostre sofferenze. Se ne andrà, ma solo come sottoprodotto del processo di purificazione mentale. Se fate del sottoprodotto il vostro scopo principale, allora svalutate Dhamma. Non siete qui per curare il corpo, ma per liberare la mente."

Mi aveva convinto. "Sì" dissi "ora capisco, verrò solo per purificare la mente. Sia che la mia malattia possa essere curata o no, mi piacerebbe sperimentare la pace che vedo qui." E dopo aver promesso, ritornai a casa. Ma rimandai ancora il corso. Ero nato in una famiglia indù devota e conservatrice e sin dall'infanzia avevo imparato a recitare i versetti: "Meglio morire nella propria religione, nel proprio dharma ; mai passare a un'altra religione". Dicevo a me stesso: "Attento, questa è un'altra religione, è Buddismo. Questa gente è atea, non crede in Dio e nell'esistenza dell'anima!". (Come se credere in Dio o nell'anima bastasse a risolvere tutti i nostri problemi!) "Se divento ateo, che mi accadrà? Meglio morire nella mia religione, non mi avvicinerò a loro." Non seppi decidermi per mesi e mesi. Ma poi ebbi la grande fortuna di risolvermi a fare un tentativo con questa tecnica per vedere cosa sarebbe accaduto. Partecipai a un corso di dieci giorni. Ho avuto la grande fortuna di averne tratto grandi benefici. Ora potevo capire il mio dharma , il mio sentiero, e il dharma altrui. Il dharma degli esseri umani è il dharma di ciascuno. Solo un essere umano ha la capacità di osservare se stesso per uscire dalla sofferenza. Nessun'altra creatura di livello inferiore ha tale facoltà. Osservare la realtà dentro di sé è il dharma degli esseri umani. Se non facciamo uso di tale  abilità, allora viviamo una vita da esseri inferiori, sprechiamo la nostra vita, il che è senza dubbio pericoloso. Mi ero sempre considerato una persona molto religiosa. Dopotutto, avevo adempiuto a tutti gli obblighi religiosi, seguito le regole della moralità e fatto molte elemosine. E se non fossi stato un uomo autenticamente religioso, perché allora ero stato messo a capo di tante organizzazioni religiose? Certamente, pensavo, devo essere molto religioso. Ma nonostante tutte le elemosine o i servizi offerti, nonostante avessi agito e parlato sempre con grande correttezza, quando cominciai ad osservare la camera oscura della mia mente la trovai gremita di serpenti, scorpioni e centopiedi, a causa dei quali avevo dovuto sopportare tante sofferenze. Ora, mentre le impurità venivano gradualmente sradicate, cominciavo a godere di una pace reale.

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Tratto sempre dal testo di cui sopra

 

 

 

 

 

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