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Melius Club

Good religion trascendenza/mistica


Messaggi raccomandati

Inviato

I tre amici

C’erano tre amici
che parlavano della vita.
Uno disse:
«E possibile che gli uomini
vivano insieme senza saperlo?
Lavorino insieme
senza produrre nulla?
Si può volare nello spazio
e dimenticare di esistere
per l’eternita?»
I tre amici si guardarono in faccia
e scoppiarono a ridere.
Non avevano spiegazioni.
Cosi furono più amici di prima.

Poi uno di loro mori.
Confucio
inviò un discepolo ad aiutare gli altri due
ad intonare l’elogio funebre.
II discepolo scopri che uno degli amici
aveva composto una canzone.
Mentre I’altro suonava il liuto,
essi cantavano:
«Ehi, Sung Hu!
Dove sei andato?
Ehi, Sung Hu!
Dove sei andato!
Sei tornato
dove in realta stavi.
E noi restiamo qui,
accidenti! Noi restiamo qui! »
Allora il discepolo di Confucio li aggredì
esclamando: «Posso sapere dove avete trovato
nella rubrica dei canti funebri questo ritornello
cosi frivolo per un defunto? »
I due amici si guardarono e scoppiarono a
ridere: «Poveretto», dissero, «non conosce la
nuova liturgia! »

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L'uomo vero

Che cosa si intende per «uomo vero»?
I veri uomini di un tempo non avevano paura
di sostenere le proprie idee.
Niente grandi gesta. Niente progetti.
Se non riuscivano, nessun rammarico.
Nel successo, nessun autocompiacimento.
Si arrampicavano sugli scogli,
non avevano le vertigini,
si tuffavano in acqua, non si bagnavano,
camminavano nel fuoco e non si bruciavano.
Cosi la loro conoscenza arrivava diritta
fino al Tao.
Gli uomini veri di un tempo
dormivano senza sognare,
si destavano senza ansia.
Mangiavano cibi semplici.
Respiravano a fondo.
I veri uomini respirano a pieni polmoni,
altri con la gola,
mezzi strozzati. Nelle dispute
rigurgitano argomenti
come vomito.
La dove le sorgenti della passione
si celano nel profondo
le fonti celesti
sono presto inaridite.
I veri uomini del passato
non avevano né il gusto sfrenato della vita
né il terrore della morte.
Il loro ingresso era privo di gioia,
la loro uscita, laggiù,
senza resistenza.
Non dimenticavano da dove venivano,
né chiedevano dove andavano,
e neppure avanzavano con aria truce
facendosi strada con la forza.
Prendevano la vita come veniva,
con serenità;
prendevano la morte come veniva,
senza problemi;
e se ne andavano, laggiù,
laggiù!
Non passava loro neppure per la mente
di opporsi al Tao.
Non cercavano, con le loro iniziative,
di aiutare il Tao.
Questi sono uomini veri.
Menti libere, pensieri assenti,
fronti distese, volti sereni.
Avevano freddo?
Non più freddo dell’autunno.
Avevano caldo?
Non più caldo della primavera.
Tutto ciò che emanava da loro
procedeva tranquillo,
come le quattro stagioni.

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Azione e non azione

La non-azione dell’uomo saggio
non é inazione.
Non é cercata. Niente la turba.
Il saggio é tranquillo perché non é stimolato,
non perché cerca la quiete.
L’acqua ferma é come il vetro.
Ti ci puoi specchiare
e vedere i peli del mento.
E una livella perfetta;
potrebbe usarla il falegname.
Se l’acqua é cosi limpida, così distesa,
quanto più lo spirito dell’uomo?
Il cuore del saggio é calmo.
E lo specchio del cielo e della terra
il riflesso del tutto.
Vuoto, immobilita, tranquillita, insipidezza,
silenzio, non-azione:
questa é la livella di cielo e terra.
Questo é il Tao perfetto.
I saggi trovano qui il luogo di riposo.
Riposando, sono vuoti.
Dal vuoto deriva l’incondizionato.
Da quello, il condizionato, le singole cose.
Cosi dal vuoto dei saggi nasce la quiete:

dalla quiete, l’azione.
Dall’azione, il risultato.
Dalla loro quiete, viene la non-azione,
che é anche azione
ed é quindi il loro risultato.
Poiché la quiete é gioia.
La gioia é senza problemi
e fruttifica a lungo.
La gioia opera ogni cosa senza darsi pena:
poiché il vuoto, l’immobilità,
la tranquillita, l’insipidezza,
il silenzio e la non-azione
sono la radice di tutte le cose.

Tratto sempre da:



 

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Inviato

L'uomo del Tao

L’uomo in cui il Tao
agisce senza impedimenti
non fa del male a nessuno
con le sue azioni,
tuttavia non sa
di essere «gentile», «delicato».
L’uomo in cui il Tao
agisce senza impedimenti
non si occupa dei propri interessi
e non disprezza
gli altri che lo fanno.
Non lotta per il denaro
e non fa della poverta virtù.
Egli va per la sua strada
senza dipendere dagli altri
e non si fa un vanto
di andare avanti da solo.
Lui non segue la massa
ma non critica chi lo fa.
Non l’attirano
né compensi né onori;
non lo spaventano
né rovina né vergogna.
Non é sempre alla ricerca
del giusto e dell’ingiusto
né pronto a scegliere tra il «si» e il «no».
Dicevano quindi gli antichi:
«L’uomo del Tao
resta sconosciuto;
la virtù perfetta
non produce nulla;
il non-io
é il vero-io.
E l'uomo più grande
é Nessuno
».
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La vita attiva

Se l’esperto
non ha un problema che I’angustia,
non é felice!
Se il filosofo
non vede criticare la sua dottrina,
si strugge!
Se i critici non hanno nessuno
contro cui rivolgere il proprio risentimento,
sono infelici.
Tutti costoro sono prigionieri
di un mondo di oggetti.
Chi vuole avere seguaci,
cerca il potere politico.
Chi vuole la fama,
detiene una carica ufficiale.
L’uomo forte cerca pesi da sollevare.
L’uomo coraggioso cerca un’emergenza
in cui mostrare il proprio ardore.
Lo spadaccino vuole una battaglia
in cui brandire la spada.
Gli uomini che non sono più
nel fiore degli anni
preferiscono ritirarsi dignitosamente
e apparire cosi più profondi.

Gli esperti di questioni legali
cercano casi difficili
a cui estendere l’applicazione della legge.
I liturgisti e i musicisti
amano le feste
in cui possono esibire
i loro talenti da cerimonia.
I buoni, i ligi al dovere,
sono sempre in cerca di occasioni
per fare sfoggio delle proprie virtù.
Dove andrebbe a finire il giardiniere
se sparissero le erbacce?
Che ne sarebbe degli affari
senza un mercato di stolti?
Dove sarebbero le folle
se non ci fossero scuse
per accalcarsi e fare baccano?
Che ne sarebbe della manodopera
se non ci fossero più da costruire
oggetti superflui?
Produci! Ottieni risultati!
Fa’ soldi! Fatti degli amici!
Cambia le cose!
O morirai di disperazione!
Chi si é lasciato afferrare dal meccanismo
del potere
é felice solo nell’attività e nel continuo
mutamento - il ronzio delle macchine!
Tutte le volte che si presenta l’occasione, essi
sono costretti ad agire, non possono farne a

meno. Vengono mossi inesorabilmente, come
la macchina di cui fanno parte.

Prigionieri del mondo degli oggetti, non
hanno scelta, devono per forza sottomettersi
alle esigenze della materia! Sono schiacciati da
forze esterne
: la moda, il mercato, gli avvenimenti,
l’opinione pubblica. In tutta la loro vita
non riusciranno mai a pensare con la propria
testa.
La vita attiva! Che pena!

Tratto sempre dal testo di cui sopra
 

Inviato

Il brahmanesimo, o induismo, non è soltanto la più antica delle religioni dei misteri, o piuttosto la più antica delle discipline metafisiche di cui si possegga una conoscenza completa e precisa tratta da fonti scritte e, per quel che riguarda gli ultimi due millenni, da documenti iconografici; ma è anche forse la sola che sopravvive grazie a una tradizione intatta, attualmente vissuta e compresa da milioni di uomini, semplici contadini o persone istruite, tutti perfettamente in grado di esporre la loro fede sia in una lingua europea sia nel loro proprio idioma.

...La tradizione indù è una delle forme della philosophia perennis e, in quanto tale, comprende verità universali di cui nessun popolo e nessuna epoca possono rivendicare il possesso esclusivo. Per questo motivo un indù desidera senza riserve che le sue Scritture vengano utilizzate da altri a titolo di “prove estrinseche e valide” di verità che anche questi conoscono; inoltre, un indù sosterrà che soltanto a questo livello può essere effettivamente realizzato un accordo tra le diverse forme tradizionali.

...La nostra fonte più antica è il Rig Veda (del 1200 a.C., o di data ancor più remota) e le più recenti sono i moderni trattati vaishnava , shaiva e tantra . Dovremo citare sovente la Bhagavad Gita , che è probabilmente la più importante opera a sé stante che mai sia stata composta in India. Questo libro di diciotto capitoli non è, come si sente talvolta affermare, l’opera di una “setta”; la Bhagavad Gita è studiata in ogni parte dell’India e viene quotidianamente recitata a memoria da milioni di indù di ogni culto; può essere giustamente ritenuta un compendio di tutta la dottrina vedica esposta nei primi Veda, nei Brahmana e nelle Upanishad , ed essendo il fondamento di tutti i loro ulteriori sviluppi, può essere considerata come il fuoco che alimenta l’intera spiritualità indù. È stato detto giustamente, a proposito della Bhagavad Gita , che fra tutti i testi sacri dell’umanità non ve n’è probabilmente un altro che sia nello stesso tempo “cosi grande, così completo e cosi breve”. Da parte nostra, aggiungeremo solo che i personaggi apparentemente storici di Krishna e Arjuna devono essere identificati ad Agni e Indra della mitologia.

...Come la Rivelazione (shruti ) stessa, dobbiamo cominciare con il mito (itihasa ), la verità penultima di cui ogni esperienza è il riflesso temporale. La validità del racconto mitico si situa al di fuori del tempo e dello spazio, essa vale ovunque e sempre. Così, nel cristianesimo, le parole “all’inizio Iddio creò” e “da Lui sono state fatte tutte le cose”, nonostante i millenni che storicamente le separano, contengono entrambe l’affermazione che la creazione avvenne al momento della “nascita eterna” di Cristo. “All’inizio” (agre ), o piuttosto “alla sommità”, significa “nel principio”, così come, nelle fiabe, “c’era una volta” non vuol dire “quella sola volta” ma “una volta per tutte”. Il mito non è una “invenzione poetica” nel senso attuale dell’espressione. Grazie alla sua universalità, può essere narrato da diversi punti di vista con uguale autorità.

Questo eterno inizio coincide con l’Identità Suprema di “quell’Uno” (tad ekam ) [RV., X, 129, 1-3; TS., VI, 4, 8, 3; JB., III, 359; SHB., X, 5, 3, 1, 2, ecc.] , in cui non vi è distinzione tra essere o non-essere, tra luce e tenebre, o separazione tra Cielo e Terra. Il Tutto è contenuto nel Principio, il quale viene designato con i termini equivalenti di Personalità, Antenato, Montagna, Drago, Serpente senza fine. Unito a questo principio come figlio o come fratello minore - come un alter ego e non come un principio distinto - appare l’Uccisore del Drago, colui che è nato per sostituirsi al Padre e accedere al possesso del Reame per distribuirne i tesori ai propri seguaci [RV., X, 124, 4, ecc.]

Tratto da: 

 

 

 

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Inviato

 

Non a torto, quindi, il nome di Schopenhauer viene spesso associato alla filosofia indiana. Il filosofo incontrò l’Oriente negli anni giovanili, restandone completamente affascinato, si dedicò con passione allo studio del pensiero indiano, intrecciando indissolubilmente ad esso il proprio pensiero, e giungendo così a essere probabilmente il primo filosofo europeo a considerare seriamente, senza alcuna traccia di pregiudizio etnocentrico, ma anzi, con un entusiasmo e con un’ammirazione senza pari, la filosofia e la religione indiana, con cui instaurò un confronto costante e serrato, destinato a durare più di quarant’anni.

Fin dal primo incontro, risalente al periodo tra il 1813 e il 1814, tra Schopenhauer e il pensiero indiano fu amore a prima vista: è noto come il filosofo ritenesse le Upanisad «l’emanazione della più alta saggezza umana»,la cui lettura, scrive nei Parerga, «è stata la consolazione della mia vita e lo rimarrà fino alla mia morte». Inoltre Schopenhauer, nella prefazione alla prima edizione del Mondo come volontà e rappresentazione (1818), indica come chiavi di lettura del proprio pensiero non solo Platone e Kant, ma anche e soprattutto e le Upanisad.Egli, infine, non smise mai di proclamare e di sottolineare durante l’intero corso della propria vita la «concordanza paradossale» e «prodigiosa» tra la sua filosofia e il pensiero indiano (Brahmanesimo e Buddhismo), un’affinità della quale Schopenhauer non poteva che rallegrarsi, in quanto fermamente convinto che essa conferisse alla propria dottrina un’aura di antica saggezza e di verità.

https://larottaperitaca.wordpress.com/2011/01/14/schopenhauer-e-la-filosofia-orientale-2/

 

Inviato

Pezzo molto orientale/buddhista, del buon Battiato

 

Inviato

Se in un certo modo si può dire che il Buddha fu un riformatore, egli lo fu solo nel senso etimologico della parola: il Buddha è disceso dal Cielo non per portare un nuovo ordine, ma per restaurare l’ordine antico. Se il suo insegnamento è “perfetto e infallibile”...è perché ha penetrato completamente la Legge Eterna (akalika dharma ) e ha verificato egli stesso ogni cosa in Cielo e in Terra...“Le profonde verità (ye dhamma gambhira) insegnate dal Buddha sono inaccessibili al ragionamento (atakkavaciara); egli le ha verificate con la sua conoscenza superiore” (D., I, 22). Cfr. KU., II, 9: “Non è con la ragione che questa idea può essere afferrata” (naisha tarkena matir apaneya). In Mil., 217 s. è detto che “la via riaperta dal Buddha è un’antica Via che era andata perduta”. Ciò si riferisce al brahmaciariya, al “camminare con Dio” (=èåῷ óõíïðáäåῖí, Fedro, 248 C) di RV., X, 109, di AV., dei Brabhmana, delle Upanishad e dei testi pali, e passim. “Il ruggito del leone” è quello di Brihaspati (RV., X, 67, 9), cioè di Agni] . Non vi sono mai stati veri saggi che siano venuti per distruggere; sono sempre venuti per compiere la Legge. “Io ho visto”, dice il Buddha, “l’Antica Via, l’Antico Sentiero percorso dai perfetti Risvegliati di un tempo: questa è la mia via” [S., II, 106]...D’altra parte, si afferma che i brahmani contemporanei del Buddha - con alcune eccezioni - avessero perduto i favori spirituali che erano l’appannaggio dei loro antenati puri e senza ego [Sn., 284 s. (cfr. RV., X, 71, 9); D., III, 81, 82 e 94 s.; per le eccezioni, S., 11, 13; Sn., 1082] . Tenendo conto di queste osservazioni e del fatto che il Buddha nacque in un’epoca in cui la casta regale era tenuta più in onore di quella sacerdotale, si comprenderà perché le Upanishad e la dottrina buddista apparvero nella stessa epoca: questi due corpi dottrinali, intimamente connessi e concordanti, entrambi di origine “silvestre”, non si oppongono tra loro, bensì a un avversario comune. Il loro scopo era quello di riproporre la verità di un’antica dottrina, non perché si fosse interrotta la trasmissione dell’insegnamento - assicurata da gruppi di eremiti viventi nelle foreste - ma perché i brahmani legati alla vita di corte o immersi nella vita mondana, interessati ormai soltanto alle forme esteriori del rituale e forse troppo attratti dagli emolumenti, erano allora: diventati piuttosto “brahmani di nascita” (brahmabandhu ) che brahmani nel senso che tale termine ha nelle Upanishad o nel buddismo, cioè di “conoscitori di Brahma” (brahmavit ). Indubbiamente, la dottrina profonda del Sé aveva continuato a essere insegnata mediante una trasmissione da maestro spirituale (guruparampara ) a discepoli qualificati: ciò è comprovato; dalle Upanishad [Per es., MU., VI, 29: “Questo profondissimo mistero...”; BU., VI, 3, 12; BG., IV, 3; XVIII, 67...

 

La cultura indù ha nondimeno raggiunto e influenzato profondamente l’Estremo Oriente con il buddismo, il quale, secondo i casi, si è fuso o coesiste con il taoismo, il confucianesimo e lo scintoismo. A esercitare un più marcato influsso furono le forme contemplative del buddismo. Quel che fu chiamato Dhyana (in pali, jhana ) nell’India, divenne Cha’n in Cina e Zen in Giappone [Cfr. le diverse opere di T. Suzuki] . Non possiamo qui occuparci di queste particolari forme di buddismo; ma dobbiamo affermare che, sebbene differiscano molto dalla Via Stretta per la loro particolare prospettiva, esse non rappresentano affatto una degenerazione del buddismo. Il buddismo tibetano e quello estremo-orientale sono tali da suscitare la nostra più viva simpatia per la profondità delle loro dottrine e per la toccante bellezza delle opere letterarie e artistiche in cui sono espressi i loro insegnamenti. V’è ormai soltanto da aggiungere che il buddismo scomparve dall’India propriamente detta verso la fine del secolo XII.

Shankara, il più eminente interprete dottrinale del Vedanta , è stato sovente presentato come un “indù travestito da buddista”. Dobbiamo anche notare che il termine Vedanta (la “fine del Veda ”, nel senso in cui il Nuovo Testamento può essere chiamato la conclusione e il compimento dell’Antico Testamento) si incontra già nelle Upanishad . Molti punti delle dottrine del Vedanta e del buddismo, sin dalle origini, possono spiegarsi vicendevolmente. Per questa ragione è

stata possibile una fusione tra induismo e buddismo nel medioevo indù, e per questa stessa ragione il buddismo, nell’India, ha cessato di esistere come una dottrina distinta. Se il buddismo, e non l’induismo, ha potuto varcare i confini dell’India e sopravvivere, ciò è dovuto principalmente al seguente motivo: mentre l’induismo trova la sua attuazione nella vita attiva e in quella contemplativa, il buddismo si fonda essenzialmente sulla vita contemplativa e può essere quindi più facilmente insegnato, trattandosi peraltro di una via che non tiene conto dei vincoli formali di un determinato ordine sociale.

Tratto dal testo di cui sopra

 

Inviato

...non dobbiamo dimenticare che quel che ci è chiesto di sostituire alla nostra coscienza di cose piacevoli o spiacevoli - o meglio, al nostro assoggettarci a sentimenti di piacere o di pena - non è una in-coscienza, bensì una super-coscienza, la quale non è meno reale e beatifica per il fatto di non poter essere analizzata in termini di coscienza mentale. Dobbiamo pure chiarire che questa super-coscienza - che la teologia cristiana chiama “il modo divino di conoscere senza il tramite di oggetti esteriori al conoscente” - non può in nessun modo essere assimilata al sub-conscio della psicologia moderna...

Per far comprendere chi, in questo concatenamento di cause, è chiamato al Risveglio, vien messo bene in evidenza che nulla  succede per caso, ma solo per una puntuale conseguenza: “Ferme restando certe condizioni, si avrà un certo risultato; venendo esse a mancare, non lo si avrà più” [M., II, 32; S., II, 28 e passim] . L’averlo verificato, è aver trovato la Via. Infatti, in “tutte le cose aventi una causa” sono comprese “la vecchiaia, la malattia e la morte”. E quando conosciamo la causa, possiamo cercare il rimedio. È questa un’applicazione della legge dell’“origine causale” di cui il Buddha si rese padrone nella notte del Grande Risveglio. Tutti i mali ereditati dalla carne sono inseparabili dal fluire dell’esistenza e sono essenziali al suo svolgimento: nessun individuo li può evitare. L’individualità è connessa alla coscienza e la coscienza non è un’essenza, ma passione; non è attività, ma un susseguirsi di reazioni in cui noi - che non abbiamo il potere di essere ciò che vogliamo e quando lo vogliamo - siamo fatalmente implicati. L’individualità è stimolata e perpetuata dal desiderio, e la causa di tutto questo è l’“ignoranza” (avidya ). Noi “ignoriamo”, infatti, che gli oggetti dei nostri desideri non possono mai essere posseduti nel vero senso della parola; ignoriamo, inoltre, che quando abbiamo afferrato ciò che desideriamo, “desideriamo” conservarlo e siamo così ancora “in preda al desiderio”. Questa ignoranza è ignorare le cose quali esse sono in realtà (yathabhutam ), è attribuire una sostanzialità a quel che è puramente fenomenico, è pretendere di vedere il Sé nel non-Sé [S., III, 162, 164, ecc. L’”ignoranza” è il non saper distinguere il corpo-e-coscienza dal Sé] .

Il buddismo, ponendo l’ignoranza alla radice di ogni male, è in perfetto accordo con tutte le dottrine tradizionali [A., IV, 195; Dh., 243: avidya param malam; cfr. M., I, 263. A proposito delle inevitabili conseguenze dell’indulgere al piacere dei sensi, cfr. Platone, Protagora, 365 D: “È proprio la potenza delle apparenze (ôὸ ϕáéíüìåíïí = in pali, rupa) a sviarci”; 357 E: “L’essere dominati dai piaceri costituisce il sommo grado dell’ignoranza”; 358 C: “Questo abbandonarsi a se stessi è l”‘ignoranza”, mentre la padronanza di sé è certamente la “saggezza”“ (óïϕßá = in pali, kusalata). Cfr. Leggi, 389. Cfr. anche Ermete, Lib., X, 8, 9: “Il vizio dell’anima è l’ignoranza, la conoscenza ne è la virtù”; Lib., XIII, 7 B, dove l’”ignoranza” è il primo dei dodici tormenti della materia (come, per il buddismo, nella “Catena delle Cause”; cfr. Hartmann, in JAOS., 60, 1940, 356-360); anche Lib., I, 18: “La causa della morte è il desiderio”; Cicerone, Acad., II, 29: “Nessun uomo poteva essere un saggio (sapiens) se ignorava l’inizio della conoscenza, cioè la fine del desiderio, e se, in seguito, non sapeva da che punto partire e a che cosa doveva mirare”] .

...Per esprimerci in termini brahmanici, si è “ignoranti” quando si ignora Chi siamo; e se vogliamo usare termini buddisti, ciò che non siamo. Si tratta semplicemente di due modi di dire la stessa cosa: ciò che veramente siamo può definirsi soltanto per mezzo di quello che non siamo.

Solo attraverso la morte della nostra individualità arriveremo a comprendere che non c’è assolutamente nulla con cui possiamo identificare il nostro Sé, e potremo così diventare quel che siamo. Di qui l’accento che il buddismo pone su quella “negazione di se stessi” implicita nell’evangelico deneget semetipsum . “Considera la beatitudine degli Arhat. In essi non v’è più desiderio alcuno. Avendo estirpato il pensiero io sono , essi sono diventati i senza nascita, gli immutabili, i puri, le vere Persone, i trasformati in Dio (brahma-bhuta ), i grandi eroi, i figli del Risveglio; imperturbabili in ogni circostanza, liberati da ogni divenire (punar bhava ), essi si ergono sulla loro individualità domata; hanno vinto quaggiù la loro battaglia; ruggiscono con “il ruggito del Leone”; incomparabili sono questi Risvegliati (buddhah )” [S., III, 83, 84] . Non si tratta di una liberazione post mortem , bensì di “Persone”, che colgono il loro trionfo quaggiù e ora. Nel passo citato, l’epiteto buddha è usato al plurale: esso viene applicato a tutti coloro che hanno realizzato il fine ultimo. Questi esseri vengono sovente chiamati nirvata (“estinti”). La parola nirvana (“estinzione”) che ha una parte così importante nella nostra concezione del buddismo, essendo uno dei principali termini indicanti il fine supremo dell’uomo, richiede qualche spiegazione supplementare. Il verbo nirva significa letteralmente “spegnersi”, come di un fuoco che smette di “respirare”...Il nirvana è una specie di morte, senonché, come ogni morte, è una rinascita a qualcosa d’altro.

...Mentre il significato di nirvana è simile a quello del greco ἀðïóâÝííõìé (essere calmo, acquietato, estinto, riferiti al vento, al fuoco e alla passione), una sua connotazione è quella espressa dai termini greci ôåëÝù e ôåëåõôÜù (essere perfetto, morire). Questi significati sono contenuti nella parola inglese finish ; un prodotto “finito” (finished ) non è più in corso di fabbricazione, non sta più diventando quel che deve essere. Analogamente, l’essere “compiuto”, l’uomo perfetto, non è più soggetto al divenire

Tratto sempre dal testo di cui sopra

 

Inviato

Riporto le conclusioni del testo di Ananda Coomaraswamy, più volte citato:

Riteniamo che non sussistano più dubbi sul fatto che il Buddha, la “Grande Persona”, l’Arhat, il “Diventato Brahma”, il “Dio degli dèi” dei testi pali, è proprio lo Spirito (atman ) e l’Uomo Interiore di tutti gli esseri; che egli è “Quell’Uno” che si fa molteplice e nel quale tutti gli esseri “ridiventano uno”; che il Buddha è Brahma, Prajapati, la luce delle luci, il Fuoco o il Sole, il Principio Primo o qualsiasi altro epiteto con cui lo designano gli antichi testi. Né si potrà più dubitare che ogni descrizione della vita e delle imprese del Buddha non sia che una nuova narrazione delle gesta di Brahma in quanto Agni o Indra. Agni e Indra, come abbiamo visto, sono il Sacerdote e il Re in divinis : sono proprio queste le due possibilità che realizzerà il Buddha; e sebbene in un certo senso il suo regno non sia di questo mondo, non vi sono dubbi che, in quanto Ciakravartin, egli è nel contempo sacerdote e re nello stesso senso in cui Cristo è “prete e re”. La logica stessa delle Scritture ci fa dire che Agnendrau, Buddha, Krishna, Mosè e Cristo sono i nomi di una medesima e unica “discesa” di natura eterna; inoltre ci fa riconoscere che tutte le Scritture, senza eccezione, esigono da noi la conoscenza del nostro e nello stesso tempo la conoscenza di ciò che non è il nostro Sé, chiamato un “sé” solo per errore; ci indica anche che la Via per diventare “quel che siamo” richiede che dalla nostra propria coscienza venga estirpata ogni falsa identificazione con “ciò che non siamo” ma che pensiamo di essere quando diciamo: “Io penso. Io faccio”. Essere diventato “puro” (shuddha ) significa essere riuscito a distinguere il nostro Sé da tutti i suoi “accidenti” fisici e psichici. L’identificazione del nostro Sé con questo o quell’accidente è invero la peggiore di tutte le possibili forme dell’illusione, l’unica causa delle “nostre” sofferenze e della “nostra” natura mortale, dalla quale non possono di certo affrancarsi coloro che sono ancora “qualcuno”. Si racconta che un confuciano, il quale supplicava Bodhidharma, il ventottesimo patriarca buddista, di “pacificare la sua anima”, ricevette la seguente risposta: “Mostramela, e io la pacificherò”. Il confuciano disse: “Ma è proprio questo il mio male: non so dove trovarla!”. Bodhidharma gli rispose: “Il tuo desiderio è allora esaudito”. Il confuciano comprese e se ne andò via in pace [Suzuki, in JPTS., 1906-1907, p. 13] .

È tuttavia contrario allo spirito del buddismo, e anche all’insegnamento del Vedanta , ritenerci degli esseri vaganti nel fatale fluire dei mondi (samsara ). “Il nostro Sé immortale” è tutto tranne un’“individualità che sopravvive”. A ritornare alla sua dimora[Sn., 1074-1076: namakaya vimutto, attham paleti, na upeti sankham... attham gatassa na pamanam atthi. Mund. Up., III, 2, 8, 9: namarupad vimuktab... ahrito bhavati; BG., XV, 5: dvandvair vimuktah] , non è il tal dei tali, ma il prodigo Sé che si ricorda di se stesso e che, dopo essere stato molteplice, è nuovamente unico e inscrutabile, Deus absconditus . “Può ascendere al Cielo solo chi ne sia disceso”. Perciò: “Se qualcuno vuole seguirmi, rinneghi se stesso” [Gv., 13, 36; Mc., 8, 34. Chi vuole seguirlo, deve poter dire con san Paolo: “Vivo, tuttavia non io, ma Cristo in me” (Gal., 2, 20). Non può esserci ritorno in Dio che come “da Se stesso a Se stesso”; e questa identità, secondo le parole di Nicola Cusano, implica una ablatio omnis alteritatis et diversitatis, cioè la soppressione di ogni alterità e diversità] . “Il Regno di Dio è solo per chi sia completamente morto” [Meister Eckhart] . La realizzazione del nirvana è il “Volo del Solitario verso il Solitario” [Enneadi, VI, 9, 11]

 

 

 

zigirmato
Inviato

@LUIGI64 Se può interessare, stasera in TV  su La 7 , alle ore 21:15
". Una giornata particolare - Il Grande Romanzo della Bibbia.
Aldo Cazzullo presenta un appassionante viaggio nella giornata cruciale di un personaggio storico. 3a Edizione." 

 

 

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Inviato

 

Dal seme al frutto, ovvero la legge di causa ed effetto

Quando lanciamo un sasso in aria, non dobbiamo stupirci se ci cade sulla testa. Parimenti, allorché ci rendiamo responsabili di un qualche gesto, indipendentemente dalla sua natura, possiamo solo aspettarci che, presto o tardi, produrrà un effetto. Se desideriamo liberarci dalla sofferenza è quindi logico compiere determinate azioni ed evitarne altre. La legge di casualità delle nostre azioni è il fondamento stesso dell’insegnamento del Buddha, che disse:

Evitare la benché minima azione negativa,

realizzare perfettamente il bene

e padroneggiare la mente:

è questo l’insegnamento del Buddha.

Tutti i fenomeni sono il risultato del concorso di un’infinità di cause e condizioni in perpetuo cambiamento. Come l’arcobaleno che emerge quando il sole brilla attraverso uno strato di pioggia e scompare quando viene a mancare uno dei fattori che contribuiscono alla sua formazione, i fenomeni non si manifestano che in virtù dell’interdipendenza e sono quindi privi di esistenza intrinseca e permanente. Se i fenomeni si condizionano mutualmente nell’ambito di un vasto processo dinamico e creativo, non c’è peraltro nulla che sorga in modo arbitrario, e la legge di causalità opera ineluttabile.

...Se analizzate sotto tale punto di vista, le sofferenze di cui non siamo apparentemente responsabili – il male che ci fanno gli altri, le malattie o i disastri naturali – non sono dovute né a una volontà divina né a una fatalità ineluttabile, e neppure al mero caso. È come se un giorno avessimo lanciato per aria delle frecce, per poi dimenticarcene, ed ecco che ricadono su di noi. Tale visione delle cose può sembrare sconcertante per un occidentale, soprattutto se applicata a un essere innocente che soffre, a un uomo profondamente buono la cui vita non è che una perpetua tragedia. Occorre comprendere che, secondo il buddhismo, ogni essere è il risultato di un insieme complesso di cause e condizioni, di buoni e cattivi semi sparsi nel passato, ed è proprio tale combinazione di fattori multipli che si manifesta, gradualmente e nel momento dovuto, nel corso della nostra vita. Prenderne coscienza ci consente di adottare un atteggiamento più responsabile. Ci permette per esempio di evitare di dar la colpa agli altri per ciò che di sgradevole ci sta accadendo.

Non opporsi a ciò che ci tocca in virtù della natura delle cose non significa peraltro essere fatalisti. Abbiamo sempre la possibilità di trarre il meglio da una situazione sfavorevole, quale che sia. Sta a noi decidere ciò che dobbiamo fare o non fare per costruire la nostra felicità futura e non generare più le cause della sofferenza. Comprendendo che le azioni negative conducono a tutti i mali che ci affliggono – tanto noi stessi quanto gli altri – e che quelle benefiche generano felicità, sta a noi agire con discernimento. Come si suol dire: “Finché si lascia la mano sul fuoco, è inutile sperare di sfuggire alla bruciatura”. Per concludere, non raccogliamo né “ricompense” né “punizioni”: ciò che ci accade obbedisce semplicemente alla legge di causalità.

Tratto da:

 

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Matthieu Ricard , figlio del noto filosofo francese Jean-François Revel

Ha conseguito il dottorato in biologia, ma ha abbandonato presto una promettente carriera accademica per dedicarsi alla ricerca interiore secondo gli insegnamenti buddhisti. Nel 1978 ha preso i voti monastici e da allora vive tra la Francia e il Nepal, nel monastero di Shechen. Noto per le sue capacità meditative, gli interessi verso le neuroscienze e il suo impegno nella trasmissione del Dharma, è spesso a fianco del Dalai Lama come interprete nei suoi viaggi internazionali.

Inviato

 

È importante ricordare, però, ciò che scriveva il filosofo francese Gilles Deleuze a proposito del compito della ricerca filosofica: “Philosophos non significa saggio, ma amico della saggezza”. Gli scopi della ricerca di una vita filosofica non possono e non devono essere confusi “con quelli dell’Oriente sacerdotale, nemmeno quando essa li assume al proprio servizio”. Il ricercatore è amico della saggezza e dunque non necessariamente saggio. Una distinzione sottile e non scontata che ci apre a una prospettiva più ampia, meno ascetica, più inclusiva verso le contraddizioni e le fragilità dell’uomo. Di più ancora e diverso è il compito del pensatore:

Quando qualcuno chiede a cosa serve la filosofia, la risposta deve essere aggressiva, poiché la domanda è ironica e pungente. La filosofia non serve né allo Stato né alla Chiesa, che hanno altre preoccupazioni. Non serve a nessun potere stabilito. La filosofia serve a turbare. Una filosofia che non turba nessuno e non fa arrabbiare nessuno non è una filosofia. Essa serve a nuocere alla stupidità, fa della stupidità qualcosa di vergognoso. Non ha altro uso che questo: denunciare la bassezza del pensiero in tutte le sue forme.

E allora, siamo di fronte a una diversa forma di saggezza, a un accesso più problematico alla consapevolezza, a un approccio interrogativo e inclusivo che non dà per scontata nessuna posizione, nessuna verità, rivelata o meno. È, questo, un avvicinamento all’idea di felicità e a una forma di saggezza quasi empirica, anzi, necessariamente fondata sull’esperienza concreta del vivere, nel corpo, che diventa, allora, un lavoro costante di relazione con il disorientamento provocato dal costante interrogare la vita. Un interrogare che è destabilizzante perché non apre ad alcuna facile via di uscita, ma lascia come unica speranza la capacità dell’uomo di conoscere sé stesso e di porsi con dignità e orgoglio di fronte alla vita.

...Oggi viviamo il presente in una dimensione in gran parte inconsapevole e nevrotica. Per uscire da questa nevrosi dissociata e dall’attenzione forzata su un presente che risulta solo effimero occorre recuperare una narrazione della pazienza, della lentezza, della riflessione e della contemplazione di lungo raggio capaci di risvegliare una consapevolezza diversa sul valore delle relazioni e della comunità

...Non stupisce se in questo contesto le relazioni, la valorizzazione dell’umano diventano secondari ed emerge un senso di isolamento, di solitudine, di frustrazione. Rincorrere i tempi del consumo delle esperienze ci toglie l’energia per dedicarci a noi stessi, per recuperare un diverso rapporto col mondo. Questo senso di disagio profondo emerge, urla, ci richiama alla nostra natura più profonda, alla necessità di un diverso rapporto con l’esistenza e una diversa modalità dell’esistere. Il richiamo che hanno le discipline meditative in questi decenni, con il diffondersi delle discipline meditative e dello yoga, o il ritorno a una certa spiritualità più intimista e meno liturgica hanno a che fare con questo bisogno interiore.

Tratto da:

 

 

 

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Stefano Davide Betttera (presidente dell’Unione Buddhista Europea, è filosofo, scrittore e giornalista. Alterna il suo lavoro di autore con l’attività divulgativa)

Inviato

 

La sfida. E il filosofo vinse sullo scienziato la scommessa sulla coscienza

25 anni fa il neuroscienziato Koch aveva scommesso con il filosofo Chalmers che entro il 2023 si sarebbe scoperto come i neuroni producono la coscienza. Ha pagato con una cassa di porto

Che i filosofi abbiano la meglio sugli scienziati non è esperienza comune nel panorama intellettuale di oggi. Quando poi vincono una scommessa venticinquennale in uno dei campi di ricerca più importanti e significativi per la nostra vita, allora siamo di certo davanti a una grande notizia. Nel 1998, il neuroscienziato Christof Koch aveva messo in palio una ricompensa alcolica con il filosofo David Chalmers, nella certezza che sarebbe stato scoperto entro il 2023 il modo in cui i neuroni del cervello producono la coscienza. Il 23 giugno scorso, in occasione della riunione annuale dell'Associazione per lo Studio Scientifico della Coscienza alla New York University, entrambi i contendenti hanno convenuto pubblicamente che la ricerca nel campo è ben lungi dall’essere giunta a un risultato definitivo e hanno dichiarato Chalmers vincitore. Nessuno nella comunità scientifica ha avuto da obiettare.

 

https://www.avvenire.it/agora/pagine/koch-e-chalmers-il-filosofo-vinse-sullo-scienziato-la-scommessa-sulla-coscienza

 

Inviato

Ogni percorso spirituale che aiuti a rispondere non può che essere un percorso di libertà radicale e, allo stesso tempo, di capacità di vivere nel paradosso della costante tensione tra il bisogno di definirci, di fondare un’identità, e la spinta a trascendere ogni finitezza per aprirci e, di fatto, coincidere con la dimensione dell’assoluto. In questo il potere dell’immaginazione volitiva dell’anima è senza confini, esattamente come quello della trascendenza. Ma a noi è posto un confine, è imposta, dal nostro stesso corpo, una convivenza con la fragilità di una condizione terrena che ricusiamo, alla quale ci adeguiamo obtorto collo, desiderosi come siamo di abbeverarci di eternità. Il ricordo di questa libertà brucia come un’onta, come la condanna della cacciata dal paradiso, felice metafora, per lo più incompresa, di questo dimenarsi tra desiderio e condanna. Il Buddha che esorta a raggiungere il nirvana, dimensione dell’estinzione della fiamma, a questo fa riferimento. Ma non si tratta di un ritorno. O, meglio, non è ripercorrere i passi verso una purezza primigenia e primitiva. Bensì un ricordare ciò che ci è dato essere quando non indugiamo nell’istinto del voler essere. Se il paradiso va cercato dentro di noi, come Gesù insegnava, occorre tornarvi. Ritornare a casa, ritrovare la strada che ci riporta allo sguardo dell’altro, a quella relazione dove la trascendenza si rivela insieme alla nostra umanità. Faccia a faccia. Nell’unicità dell’incontro con un altro essere, con un’identità irripetibile e non riducibile a un’idea, a un concetto, ritroviamo la libertà radicale dell’incontro con un frammento di quell’assoluto cui bramiamo tornare.

...Eppure, per paradosso, è proprio nella sfida dell’incontro, in quella relazione con il volto dell’altro, in quella dimensione in cui la parola precede il linguaggio, in cui c’è pura connessione che trascende l’io e il tu definiti come individui che si raccontano, che è possibile la presenza della trascendenza. È lì che la vediamo compiersi. La esperiamo lì in primo luogo in questo scambio e ci viene richiesto di andare oltre, di trascendere, di annullarci in quanto individui, perché questo piano di relazione diventi universale. In questo trascendere, solo lì, possiamo coniugare etica e amore, inteso come partecipazione disinteressata al destino universale. Finché questo atto di trascendenza non è compiuto si resta sul piano dell’etica, sul piano della giustizia, del teorico, dove però non avviene altro incontro che quello esclusivo tra due soli individui.

Tratto dal libro di cui sopra

Inviato

Un picco nell’attività cerebrale verso la fine della vita potrebbe essere la prova che l’anima (o la coscienza) sta abbandonando il corpo. Ci ha pensato il professor Stuart Hameroff, celebre anestesista e docente dell’Università dell’Arizona, a rispolverare il delicato momento di trapasso tra vita e morte. Sul New York Post, Hameroff ha citato uno studio recente dove è stato monitorato il cervello di un paziente clinicamente morto con i sensori di un elettroencefalogramma. Questi sensori hanno poi catturato una strana scarica di energia dopo la morte. “Tutto era scomparso, poi quando non c’era più pressione sanguigna né frequenza cardiaca è stata registrata questa scarica”. L’anestesista ha affermato che l’ondata di attività chiamata sincronia gamma, un tipo di schema di onde cerebrali collegato al pensiero cosciente, alla consapevolezza e alla percezione, è stata rilevata dall’EEG e a volte dura “da 30 a 90 secondi” prima di scomparire quando il paziente è già clinicamente morto

https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/02/20/il-mistero-dellultima-scarica-di-energia-del-cervello-dopo-la-morte-e-la-prova-che-lanima-sta-abbandonando-il-corpo-la-clamorosa-scoperta-nel-nuovo-studio/7885785/

Inviato

 

Una scienza della mente

 

MATTHIEU

Credo che, tanto per cominciare, sia necessaria una constatazione: a differenza delle civiltà occidentali, il buddhismo non si è concentrato sulla conoscenza del mondo fisico e delle scienze naturali, benché esistano trattati di medicina tradizionale e di cosmologia. Per contro, ha dedicato oltre venticinque secoli a una profonda investigazione della mente; ha così accumulato, in modo empirico, una somma considerevole di risultati esperienziali. Innumerevoli persone hanno consacrato la loro intera vita alla scienza contemplativa, mentre la psicologia occidentale ha avuto inizio poco più di un secolo fa, con William James. Non posso fare a meno di citare l’osservazione fatta da Stephen Kosslyn, allora direttore della facoltà di Psicologia dell’Università di Harvard, in occasione dell’incontro organizzato dall’istituto Mind and Life presso il MIT , nel 2003, sul tema dell’“Investigazione della mente”: «Vorrei cominciare con una dichiarazione d’umiltà di fronte al quantitativo considerevole di dati che i contemplativi apportano alla psicologia moderna».

...Fondandosi su un approccio empirico, e avendo una mente ben allenata, questi contemplativi hanno trovato metodi efficaci per giungere a una trasformazione graduale delle emozioni, degli stati d’animo e dei tratti caratteriali, così da erodere le tendenze ataviche più radicate, e che rappresentano un ostacolo a un modo di essere ottimale. Realizzare un tale obiettivo trasforma la qualità di ogni istante della nostra vita, rinforzando caratteristiche umane fondamentali, come la bontà, la libertà, la pace e la forza interiore.

WOLF 

Puoi essere un po’ più preciso rispetto a questa affermazione perlomeno audace? Perché ciò che la natura ci ha messo a disposizione sarebbe fondamentalmente negativo, tanto da esigere pratiche mentali particolari volte a eliminare questo nostro retaggio? E perché mai tale approccio contemplativo dovrebbe essere superiore all’istruzione convenzionale, alle diverse forme di psicoterapia, ivi compresa la psicanalisi?

MATTHIEU

...Come ben sappiamo, la nostra mente può essere il nostro migliore amico come il nostro peggior nemico. La mente che ci è stata messa a disposizione dalla natura ha davvero il potenziale di sviluppare una bontà immensa, ma può anche essere all’origine di sofferenze inutili e considerevoli, sia per noi sia per gli altri. Se abbiamo il coraggio di guardarci allo specchio in tutta onestà, non possiamo che constatare di essere una miscela di qualità e di difetti. Davvero non possiamo fare di meglio? È questo il nostro modo di essere ottimale? Chiederselo è importante.

Alcune persone considerano le loro debolezze e le loro emozioni afflittive come una parte distinta e preziosa della loro “personalità”, tutti fattori che contribuirebbero alla pienezza della loro esistenza. Ma non si tratta forse di un modo fin troppo semplice per rinunciare a qualsiasi miglioramento della loro qualità della vita?

La nostra mente è assillata da vari problemi. Trascorriamo una notevole quantità di tempo lasciandoci sopraffare dai nostri pensieri dolorosi, dalla rabbia e dalla collera. Spesso vorremmo essere capaci di gestire meglio le nostre emozioni, così da liberarci da quegli stati mentali che perturbano e oscurano la mente. Ma in sostanza, immersi come siamo in una confusione che non sappiamo padroneggiare, ci risulta molto più semplice concludere che tale caos sia “normale”, e che sia proprio questa la “natura umana”. Certo, tutto ciò che è relativo alla natura è “naturale”, ivi compresa la malattia, ma non per questo è necessariamente auspicabile. Non ci pare per nulla strano consacrare anni e anni all’apprendimento della lettura e della scrittura, e più tardi di un mestiere. Passiamo intere ore a fare ginnastica, al fine di mantenere il nostro corpo in buona forma fisica. Per dedicarsi a tali attività è indispensabile provare un minimo di interesse o di entusiasmo. Tale interesse scaturisce dall’essere convinti che quegli sforzi comporteranno dei benefici nel lungo termine. Il lavoro sulla mente procede secondo la stessa logica. Come possiamo pensare che la nostra mente cambi senza che facciamo il benché minimo sforzo, limitandoci cioè ad auspicare un tale cambiamento? Dedichiamo un considerevole quantitativo di tempo a migliorare le condizioni esteriori della nostra vita, ma in fine dei conti è sempre la mente che crea la nostra esperienza del mondo e la traduce in benessere o in sofferenza. Se trasformiamo la nostra modalità di percezione delle cose, modifichiamo anche la qualità della nostra vita. Possiamo giungere a una tale trasformazione attraverso l’addestramento mentale, ciò che chiamiamo “meditazione”. Sottovalutiamo ampiamente la nostra capacità di cambiamento. I nostri tratti caratteriali sono gli stessi da così tanto tempo che non facciamo più nulla per cambiarli. A ben guardare, la condizione che noi definiamo come “normale” è solo un punto di partenza, e non l’obiettivo su cui dovremmo concentrarci. In realtà giungere gradualmente a un modo di essere ottimale è possibile. L’istruzione convenzionale moderna non si concentra sulla trasformazione della mente, né sull’acquisizione di qualità umane fondamentali come la bontà e l’attenzione. Come vedremo più avanti, la scienza contemplativa buddhista ha numerosi punti in comune con le terapie cognitive e, più in particolare, con quelle che fanno ricorso all’attenzione per rimediare allo squilibrio mentale. Per quanto concerne la psicoanalisi, mi sembra incoraggi la “ruminazione”, inducendoci a esplorare senza posa e nei minimi dettagli gli arcani delle nubi di confusione mentale e di egocentrismo che oscurano l’aspetto più fondamentale della mente: la luminosità della coscienza risvegliata.

Tratto da:

 

 

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Matthieu Ricard (Aix-les-Bains, Francia, 1946), laureato in genetica nel 1972, è stato ordinato monaco buddhista nel 1978 e dal 1989 è l’interprete francese del Dalai Lama. Impegnato nello studio e nella preservazione della cultura tibetana, vive in Nepal.

Wolf Singer (Monaco di Baviera, 1943), neurofisiologo di fama mondiale, dirige a Francoforte il Dipartimento di Neurofisiologia al Max Planck Institute for Brain Research. Noto per le sue ricerche sui processi cognitivi superiori e sui processi decisionali, è molto impegnato anche come divulgatore.

Inviato

MATTHIEU

 

...Il punto essenziale è il seguente: possiamo osservare i nostri propri pensieri, ivi comprese le nostre emozioni più intense, a partire dalla prospettiva che ci viene offerta dalla pura vigilanza, o presenza risvegliata. I pensieri sono la manifestazione della pura presenza risvegliata, così come le onde che si sollevano dall’oceano per poi dissolversi in esso. L’oceano e le onde fondamentalmente non sono due cose distinte.

Di solito, siamo talmente catturati dal contenuto dei nostri pensieri da identificarci totalmente con essi, e quindi, così facendo, non siamo consapevoli della natura fondamentale della coscienza, la pura coscienza risvegliata. Tale condizione di “incoscienza” ci precipita nell’illusione e nella sofferenza.

 

L’intero sentiero buddhista espone i diversi metodi tramite cui possiamo eliminare tale equivoco illusorio. Prendiamo l’esempio di una potente esperienza di collera malevola. Siamo un’unica cosa con quella rabbia. Colma tutto il nostro panorama mentale e proietta la sua interpretazione erronea della realtà sulle persone e sugli eventi. Come se ciò non bastasse, perpetuiamo il circolo vizioso di tale emozione perturbatrice ravvivando l’emozione della rabbia ogni qualvolta vediamo o ci ricordiamo della persona che l’ha suscitata. Benché la collera non sia in nessun modo uno stato mentale piacevole, non possiamo impedirci di farla scattare continuamente, gettando ogni volta altra benzina sul fuoco. È così che acquisiamo dipendenza dalla causa stessa della sofferenza. Ma se ci dissociamo dalla collera analizzandola pacatamente, sulla base di una pura e diretta attenzione mentale, non possiamo che constatare che non si tratta d’altro che di un insieme di pensieri, e non di qualcosa di minaccioso. La rabbia non è armata, non brucia allo stesso modo di un fuoco, né ha il potere di schiacciarci come un masso: non è che un prodotto della mente.

WOLF 

Ma ciò non implica forse che anche le emozioni positive siano egualmente nocive, poiché inducono anch’esse a percezioni erronee e quindi ci provocano sofferenza?

 

MATTHIEU

Non necessariamente. Tutto dipende dal fatto che un certo evento mentale comporti o no una distorsione della realtà. Per esempio, se la nostra mente riconosce che tutti gli esseri aspirano alla libertà dalla sofferenza, se trabocca di amore altruistico ed è animata dal potente desiderio di liberarli dal loro malessere, fintantoché la mente ha in sé tale componente di saggezza, si trova in preciso accordo con la realtà. Qui parliamo di una mente che ammette appieno l’interdipendenza di tutti gli esseri, riconosce la loro aspirazione comune – che è quella di evitare la sofferenza e di sperimentare la felicità – e discerne le cause profonde del malessere degli altri. Inoltre, se l’amore altruistico non è contaminato dalle nostre diverse forme di attaccamento e di avidità, non può essere un fattore afflittivo. Lungi dal velare la saggezza, ne sarà un’espressione naturale. Ma concludiamo invece la nostra analisi della collera. Invece di “essere” in collera e di identificarci completamente con essa, dobbiamo semplicemente osservarla e mantenere nei suoi confronti la nostra più nuda attenzione. Cosa succede se ci dedichiamo a questo genere di esercizio? Quando cessiamo di alimentare un fuoco, questo non tarda a spegnersi; parimenti, sotto lo sguardo di un’attenzione consapevole, la collera non può durare per conto suo. Perde semplicemente d’intensità, fino a svanire.

Tratto dal testo di cui sopra

 

 

 


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