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Good religion trascendenza/mistica


Messaggi raccomandati

Inviato

Sarei propenso a dire che è fanatico chi pensa che qualcosa possa essere tanto importante da superare qualsiasi altra 

(Bertrand Russell)

Inviato

MATTHIEU

 È evidente che la mente è in grado di conoscersi e di allenarsi. È ciò che facciamo continuamente, senza per questo chiamarlo meditazione. Memorizziamo volontariamente determinate informazioni, come fanno gli studenti, aumentiamo le nostre capacità mentali giocando a scacchi, o risolvendo problemi diversi, il che implica fare appello all’addestramento mentale. La meditazione è soltanto un modo più sistematico di dedicarsi a compiti del genere con l’ausilio della saggezza, vale a dire una comprensione dei meccanismi della felicità e della sofferenza. Ciò richiede perseveranza. Non si impara a giocare a tennis tenendo in mano una racchetta qualche minuto al mese. Lo scopo dello sforzo meditativo è sviluppare un arricchimento interiore , anziché una capacità fisica.

...Peraltro, per la maggior parte del tempo il nostro interagire con il mondo esterno si basa su una modalità definita “semipassiva”: siamo esposti a una situazione a cui reagiamo, il che ci permette di accrescere la nostra esperienza. In questo caso si tratta di un arricchimento esteriore .

...In circostanze del genere l’arricchimento esteriore è quasi nullo, ma l’arricchimento interiore è massimo

...ebbene penso che l’effetto di un tale processo sia la riprogrammazione del cervello.

WOLF

Per certi versi, si potrebbe dire che si fa uso del proprio cervello quale oggetto di un processo cognitivo complesso rivolto verso se stessi, piuttosto che verso il mondo esterno. Si applicano le capacità cognitive del cervello con la stessa concentrazione e intenzione con cui ci si dedicherebbe agli eventi del mondo esterno, organizzando i segnali sensoriali in rappresentazioni coerenti o percetti. Viene assegnato un determinato valore a certi stati mentali e ci si sforza di accrescere la loro ricorrenza, cosa che probabilmente procede di pari passo con un cambiamento nelle reti sinaptiche responsabili dei processi cognitivi, così come avviene con i processi di apprendimento che sono il risultato di interazioni con il mondo esterno

MATTHIEU

...Fino a oggi, i risultati degli studi effettuati su meditanti esperti sembrano indicare che abbiano acquisito la facoltà di generare stati mentali chiari, intensi e ben determinati, e tale facoltà è senza dubbio associata a specifici pattern cerebrali. L’addestramento mentale permette di generare tali stati mentali a volontà, e di modularne l’intensità, anche quando si deve fare i conti con le circostanze più difficili, come possono essere, per esempio, potenti stimoli emotivi, positivi o negativi. Si acquisisce così la capacità di mantenere un equilibrio generale a livello emotivo, tale da favorire la forza e la pace interiori.

WOLF

... è verosimile che l’addestramento mentale permetta di acuire la capacità interiore grazie a cui si distinguono con grande precisione i diversi stati emotivi. Una mente non allenata sarà capace soltanto di distinguere in linea generale tra stati mentali “buoni” e “cattivi”. Con la pratica, tale capacità si affina fino a identificare un numero crescente di sfumature. A mio parere, se le cose stanno così, nelle culture che fanno dell’addestramento mentale la fonte primaria di conoscenza ci dev’essere un vocabolario molto più ricco con cui designare i diversi stati mentali, rispetto a quelle che invece privilegiano l’analisi dei fenomeni del mondo esterno.

MATTHIEU 

Uno studio condotto su un gruppo di meditanti ha dimostrato che possono mantenere l’attenzione a un livello ottimale per periodi di tempo relativamente lunghi. Quando si dedicano ai cosiddetti compiti che esigono una “vigilanza continua”, non sono mai tesi né distratti, neanche dopo quarantacinque minuti di prova. Quando mi sono sottoposto alla stessa esperienza, mi sono accorto che i primi minuti richiedevano un vero sforzo, ma una volta entrato nello stato di “flusso attenzionale”, tutto è diventato molto più semplice.

...Gli stati mentali afflittivi hanno origine dall’egoismo, che accresce il fossato tra se stessi e gli altri, ma anche tra se stessi e il mondo. Tali stati si caratterizzano per una percezione sproporzionata dell’importanza del sé, un esagerato amore per se stessi, una mancanza di sollecitudine autentica verso gli altri, speranze e paure irragionevoli e un aggrapparsi compulsivo a oggetti e persone giudicati desiderabili. Queste forme di tossine mentali si accompagnano a una grave distorsione della realtà. In condizioni del genere, solidifichiamo mentalmente la realtà esterna, attribuendole caratteristiche intrinseche. Ci comportiamo nello stesso modo con gli esseri umani e le situazioni, attribuendo loro qualità positive, negative, piacevoli o spiacevoli, senza accorgerci che tali epiteti non sono in linea di massima che proiezioni della nostra mente.

Per contro, un gesto di benevolenza incondizionata, un gesto di pura generosità – come rendere felice un bambino, aiutare una persona nel bisogno o persino salvare una vita – compiuto senza attendersi nulla in cambio, un gesto di cui nessuno sa che siamo gli autori, genera un sentimento di soddisfazione, di profonda realizzazione.

...In ambito buddhista tradizionale, l’apprendimento basato sull’esempio costituisce la fonte principale di educazione dei più giovani, che possono constatare da sé come il comportamento dei loro genitori e dei loro educatori si basi su principi di non violenza verso gli umani, gli animali e l’ambiente. Ovviamente non bisogna sottovalutare la forza del contagio emotivo, ma bisogna anche tener conto di ciò che definirei “contagio comportamentale”. Le qualità interiori di una persona influenzano considerevolmente coloro che vivono con loro. Ciò che più conta è insegnare ai bambini a saper identificare le loro emozioni e quelle degli altri, e mostrare loro i metodi elementari che permettono di far fronte agli eccessi emotivi.

WOLF 

...A tale proposito faccio riferimento ai lavori pionieristici di Richard Davidson e di Antoine Lutz, che hanno registrato gli elettroencefalogrammi di grandi praticanti buddhisti, compreso il tuo, mentre eravate impegnati nella meditazione.  Quando ho esaminato i risultati, nel corso del nostro incontro a Parigi organizzato in memoria del carissimo amico Francisco Varela, sono rimasto sorpreso nello scoprire che nel cervello dei meditanti più esperti si nota una crescita stupefacente dell’ampiezza dell’attività oscillatoria sulla banda di frequenza dei 40 Hz, ovvero la celebre banda delle frequenze gamma. Dopo che sono state scoperte tali oscillazioni a livello della corteccia visiva, venticinque anni or sono, si è ben presto giunti a ipotizzare che svolgessero un ruolo importante nei processi cognitivi. L’oscillazione neuronale alla frequenza gamma permette in particolare l’integrazione dinamica dell’attività di una popolazione di neuroni, che si sincronizzano all’emergere di una funzione cognitiva.

Tra le diverse funzioni di questa modulazione temporale dell’attività neuronale, sembra particolarmente importante la sua implicazione nei meccanismi dell’attenzione. È stato dimostrato che l’attenzione concentrata su un punto è associata a un aumento delle oscillazioni gamma e della sincronia neuronale. Si è scoperto che quando un soggetto sta per dirigere la propria attenzione su un preciso oggetto visivo, prima ancora che elabori i segnali provenienti dall’oggetto, nelle aree visive della corteccia cerebrale si produce già un accrescersi dell’attività oscillatoria in specifiche bande di frequenza. Lo stesso accade quando un soggetto prevede l’elaborazione di un segnale auditivo.

 

Analogamente, se il soggetto prevede di dover elaborare un segnale uditivo per trasformarlo in un gesto motorio, il cervello comincia a sincronizzare l’attività oscillatoria nelle aree che verranno implicate nel futuro processo, vale a dire, per quanto riguarda l’esempio che ci concerne, nella corteccia auditiva e nelle aree premotrici e motrici. L’innescarsi di oscillazioni sincrone facilita un rapido contatto tra queste diverse aree e contribuisce a preparare la coordinazione indispensabile tra le strutture sensoriali e quelle motrici.

Sempre dal testo citato più sopra

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Non a caso, sembrerebbe che...

La stimolazione gamma a 40 Hz promuove la salute del cervello

...Aumentare la potenza dei ritmi gamma del cervello potrebbe aiutare a combattere l’Alzheimer e potenzialmente altre malattie neurologiche. Sono le ipotesi, piuttosto robuste, di studi decennali su topi condotti da laboratori di ricerca di tutto il mondo, con possibile applicazione anche nell’uomo. L’ultima conferma dell’efficacia del trattamento sembra arrivare da una revisione sistematica del Picower Institute for Learning and Memory parte del Massachusetts Institute of Technology (MIT), pubblicata su PLOS Biology, che fa il punto si risultati della stimolazione gamma non invasiva, indotta da varie forme come la stimolazione sensoriale, la stimolazione transcranica a corrente alternata o la stimolazione magnetica transcranica, da cui emerge che sia fondamentale attuare una stimolazione a 40 Hz. Una serie di studi, a partire da un primo lavoro sul Nature nel 2016, sembrano dimostrare che la stimolazione a 40 Hz tramite luce, suono, o l’associazione dei due, così come la vibrazione tattile, sia in grado di ridurre i tratti distintivi della patologia dell’Alzheimer, come le proteine amiloidi e tau, ma anche prevenire la morte dei neuroni, diminuire la perdita di sinapsi e supportare la memoria e la cognizione in vari modelli murini di Alzheimer

https://30science.com/2025/03/news/salute-la-stimolazione-gamma-a-40-hz-promuove-la-salute-del-cervello/

https://www.focus.it/scienza/salute/stimolare-con-particolare-ritmo-cerebrale-potrebbe-aiutare-contro-alzheimer

Inviato

 

La mente buddhista, che sarebbe più adeguato definire come ciò che i Greci intendevano con il termine “pneuma”, è dunque parte di quel soffio vitale che attraversa ogni esistenza e il tutto. La mente-cuore-spirito che Gotama immagina non contempla tanto sé stessa. Non è impegnata in un’indagine sul perché, sul cosa o sul come. La mente risvegliata, che è espressione della natura trascendente, chiamata anche natura di Buddha, è quella che inizia a contemplare il flusso dell’esistenza di cui essa stessa è parte, proprio quando il processo di analisi e di identificazione con i pensieri smette di essere attivo. Quando cade questo velo che ci impedisce di fatto di guardare davvero, emerge un altro tipo di visione profonda, uno sguardo sull’abisso della non conoscenza, del mistero, del sublime.

Ecco perché non si può che parlare di un’indagine contemplativa che è solo di carattere spirituale, perché è solo attraverso questa via che si può “vedere”, ascoltare, percepire la presenza di una connessione con l’assoluto, di una presenza trascendente che né il pensiero, né tantomeno il linguaggio sono adeguati a esprimere. La ragione del silenzio del Buddha di fronte alle grandi domande esistenziali sta proprio nella consapevolezza di questa impossibilità e nella necessità di fare un passo indietro, proprio perché la mente, come noi la intendiamo, è un ottimo strumento adeguato a fornirci i cartelli indicatori per il viaggio nel mondo convenzionale. Ma è totalmente impreparata ad affrontare la sfida di arrendersi di fronte a ciò che non comprende e a dire semplicemente “sì” all’imponderabilità dell’esperienza umana. La mente buddhista è dunque, senza dubbio, una mente che opera in una dimensione spirituale, religiosa.

...Un esempio di antidoto nei confronti di questo tipo di strada senza uscita arriva dal rifiuto radicale di ogni sorta di asserzione assoluta che troviamo nel percorso buddhista. Uno dei luoghi comuni più diffusi, ad esempio, è che il Buddha neghi la presenza o l’esistenza di Dio, dell’assoluto o di qualsivoglia forma di trascendenza. In realtà, il silenzio di fronte a questo tipo di interrogativi non è ascrivibile né alla negazione, né tantomeno a un atteggiamento agnostico. Si tratta, piuttosto, di un silenzio “strategico” che non è davvero privo di contenuti. Si tratta di un silenzio consapevole, voluto, anche severo. Che afferma un’idea precisa: non viene rifiutata la dimensione assoluta in quanto tale, ma non si accetta di prendere parte al dibattito proprio perché qualunque discorso sull’assoluto è inadeguato. Non si tratta di sostenere che questa dimensione non sia pensabile o sperimentabile. Ma di rifiutare qualsiasi tentativo da parte del linguaggio di stabilire una verità definitiva in un senso o nell’altro.

Che, come il silenzio, non significa assenza di espressività e di esperienza. Ma la fine di ogni cristallizzazione, di ogni tentativo di definirla. Tentare di definire la vacuità, il nirvana o l’assoluto significa cadere ancora nello stesso tranello del pensiero che ci conduce a un punto morto. E di certo lontano dall’assoluto. Quello di cui Gotama non sente il bisogno, per liberare l’uomo dalla sua solitudine, dalla sua sofferenza e aprirlo alla dimensione dell’interconnessione, è una ragione, una verità, un fondamento teorico che giustifichi questa esperienza di liberazione. Che egli, invece, rivendica fortemente non solo come possibile, ma anche come sperimentale e immediata, alla portata di ogni uomo saggio. Il nirvana è immediato, ma non riusciamo a vederlo perché distratti dal nostro proprio discorso su di esso, su Dio, sull’assoluto. Di certo, in questo modo, decade non solo il bisogno di un principio divino relegato al mondo perfetto delle idee, ma anche la presenza di un dio persona cui ci si rivolge perché ci ascolti.

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Riflessioni molto interessanti (almeno per me),  tratte dal libro già citato:

Il volto dell'altro di Stefano Davide Bettera

 

 

Inviato

La mistica ebraica ha un modo affascinante per parlare di angeli e demoni: dice che questi sono una creazione dell’intento, della qualità, dell’energia delle nostre azioni. In sostanza quando assecondiamo i nostri istinti più bassi, diamo vita a presenze demoniache, che sono generate da quella energia. Al contrario quando eleviamo il nostro spirito a dimensioni celesti, generiamo angeli. Ancora una volta incontriamo un immaginario che attesta il profondo valore che la consapevolezza e la responsabilità rivestono non solo per le immediate conseguenze della condotta personale ma per l’effetto ben più ampio, trascendente, che l’agire umano crea sull’universo.

Quando il Buddha parlava del karma credo avesse in mente lo stesso principio: la qualità delle nostre intenzioni determina non solo una conseguenza tangibile che si manifesta nell’immediato ma anche una catena di conseguenze che vanno ben oltre il nostro controllo e che, come uno tsunami, acquistano forza lungo il percorso. Un po’ come quando gettiamo un sasso in uno stagno e i cerchi si propagano all’infinito, ben oltre il punto di impatto con l’acqua. È evidente che queste possono essere interpretate anche solo come metafore e non perderebbero la loro forza evocativa. Ma il cuore di questi insegnamenti è profondamente pedagogico e ci ricorda di prestare attenzione alla dimensione etica.

Allo stesso modo i diversi e maestosi racconti della creazione tramandati fin dall’alba dei tempi da varie culture credo che abbiano lo scopo non tanto di informarci su come il cosmo è stato creato, ma di fornirci basi etiche fondamentali per la creazione del “nostro” mondo. L’idea, ad esempio, che incontriamo spesso secondo cui cielo e terra sono plasmati contemporaneamente è significativa. I “cieli” sono sinonimo dell’aspetto spirituale, ma anche di astrazione, speculazione intellettuale e progettualità. Sottolineare che queste dimensioni sono create unitamente alla dimensione terrena vuole mostrare l’interdipendenza costante di questi due aspetti, onde evitare che si possa pensare a un dualismo in cui solo la dimensione spirituale avrebbe un’origine divina e quindi uno status maggiormente elevato.

Tratto sempre dal testo di cui sopra

Inviato

La malattia del nostro mondo moderno nasce dal virus del controllo, dalla sete insaziabile di possesso che impedisce di godere della vita con gioia sincera. Abbiamo concesso alla ragione, con le sue categorie, le sue idee sempre più raffinate, il dominio sul reale. Questo processo di esaltazione dell’intelletto ci ha portato a segregare la realtà nella dimensione astratta del concetto che genera catene di altri concetti, con l’unico risultato di aver sganciato l’uomo dal suo rapporto con il vivere. Alla base di questa nevrosi sta l’ossessione del comprendere, del sezionare, del definire, del controllare che ha inferto la ferita che separa il mondo dalla nostra presenza in esso. Se, come si dice, possiamo tornare non per ripetere le stesse esperienze ma per ricucire lo strappo nell’anima del mondo, è tempo di tornare a casa. In primo luogo, allo sguardo dell’innocenza capace di nuovi occhi, di nuove parole, di un nuovo silenzio.

...Questa ferita, infatti, ci fa percepire la realtà come altro da noi e ci induce a erigere muri sempre più alti per difendere la sicurezza dei punti di vista, delle analisi, delle ragioni. Ragioni, controllo, divisione e ferita. Che si è fatta, nella storia, lontananza, dolore, conflitto...In nome di categorie sempre più dettagliate che sostituiscono le esperienze, i corpi, esiliati, maltrattati, dimenticati. Per paradosso ogni esperienza autentica non è mai completamente riducibile a ciò che le idee pretendono di descrivere e cristallizzare in un momento eterno per vincere il tempo...La malattia dell’uomo è di aver così testardamente voluto dominare, esorcizzare il sacro che ha finito per allontanarlo dall’esistenza e rinchiuderlo nelle cattedrali, trasformandolo in un tenue fantasma appena percepibile. Fantasma che oggi reclama ascolto come un disagio nell’anima, come un richiamo che però non sappiamo più decifrare.

... A tutti, infatti, serve una guida che, passo dopo passo, eroda la convinzione così radicata che non siamo degni, che siamo separati dalla dimensione sacra della vita. Ora occorre aprire la porta che ci svela la gioia profonda di ciò che siamo davvero. Questo è ciò che provo a offrire a tutti voi in queste pagine. Non una verità rivelata, ma una possibile esperienza, del tutto umana, un percorso interiore che mette in luce i nodi che possiamo sciogliere e che possiamo condividere, passo dopo passo, per tornare a sorridere e a vivere pienamente quella pace che è a portata di mano.

Conclusioni del testo più volte citato

Inviato

Ogni esclusivismo è una distorsione. Gesù lo ripete in continuazione. «Il Padre è più grande di me» (Giovanni 14,28); «Perché mi chiami buono? Uno solo è buono» (Matteo 19,17); «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Giovanni 14,9), ha visto il mio Padre, e non me. È per questo che non ci si può fermare su di lui: non ci si può fermare, per così dire, che al niente. Bisogna percorrere la propria strada – attraversare la Via, che è la Verità, che porta alla Vita (Giovanni 14,6). Fissarsi sul Cristo, significa mancare quello che Cristo dice di se stesso. Che cos’è dunque? È la rivelazione del mistero, la rivelazione del Padre e la rivelazione dell’Uomo. E la sua umanità è là a ricordarci costantemente che in un simile cammino non dobbiamo dimenticare né abolire il corpo, la materia, il tempo, lo spazio. Da questo punto di vista, l’Incarnazione è in questo contesto la rivelazione più profonda che ci sia del mistero della realtà

...Ma nel momento in cui mi fermo su una cosa qualsiasi, non sono più nella verità. Dall’altro canto, però, abbiamo bisogno di simboli concreti. Nella spiritualità hindu, c’è un nome che anche gli hindu di oggi utilizzano in maniera individualista, ma che nella tradizione connota invece un senso ben altrimenti profondo; l’ishtadevata, erroneamente tradotto con «la divinità della mia scelta», non è la divinità che è oggetto di una mia scelta, bensì l’immagine o l’icona che mi si confà in modo particolare, sicché io possa disporre di un simbolo immaginabile, pensabile ed esprimibile e che sia connaturale, e il cui ruolo non è altro che di aprirmi al mistero ineffabile – il vuoto totale.

Nella grande disputa sulla iconoclastia, nella tradizione cristiana, si trattava di molto più che di una lotta politica o anche di prendere partito a favore di alcuni dipinti. Fu una lotta per difendere il senso reale dell’Incarnazione. In effetti, se manca la possibilità di usare un’icona o ancora più semplicemente un nome – «un nome al di sopra di ogni altro nome» (Filippesi 2,6) –, si perde alla fine la dimensione corporale, fisica, temporale e umana della realtà tout court. A quel punto cadremmo in un falso misticismo, nella fuga dal terreno della storia, nella cultura dell’Uno al di fuori del tempo e dello spazio. La negazione dell’Incarnazione.

...Sono tentato di interpretarlo come il neti neti delle Upanishad. Ni eso, ni esotro (Né questo né quello), dice testualmente sei volte di seguito Giovanni della Croce nel disegno di cui abbiamo parlato in precedenza. Questa visione mistica – come ogni pensiero – richiede di essere situata in un contesto preciso. Il nada, nel disegno del Monte Carmelo, è il punto culminante della strada. È la vetta. Prima, non si può parlare di nada. La vita di Giovanni della Croce l’ha dimostrato: il nada non si trova che una volta che si sia pervenuti alla vetta. In effetti, una volta in cima, non c’è più bisogno di salire, non c’è più pellegrinaggio. Por aquí no ay camino, «Qui non c’è più strada» – in senso letterale, non c’è luogo in cui camminare. Questo è il niente. Un simile nada è il superamento, non direi della condizione umana, ma di tutto quello che si può considerare come mezzo per... «Sei dunque arrivato?». «Sì e no». Si arriva alla vetta, ma non al nada, al niente. In effetti, è proprio allora che incomincia – proseguendo la metafora di Giovanni della Croce – il volo. Tu puoi volare, perché la vetta implica che ci sia un cielo al di sopra, un cielo che permette che ci si involi, come l’aquila. Maestro Eckhart e Scoto Eriugena aprono entrambi i loro commentari al Prologo di san Giovanni evocando l’aquila, vista, secondo la tradizione giovannea, come simbolo della Trinità. È questo il nada: il superamento di tutto – in termini propri a Giovanni della Croce, il superamento di tutto il creato. Volé tan alto, tan alto, que le di a la caze alcance, «Volai così in alto, così in alto, che raggiunsi la casa», canta in uno dei suoi poemi.

R. Panikkar

Inviato

Ramakrishna: "la Realtà è Una e sempre la stessa, la differenza sta solo nel nome e nella forma. È come l'acqua, che nelle diverse lingue è chiamata con nomi diversi, tipo 'jal', 'pani' e così via. In un lago ci sono tre o quattro pontili. Gli indù che attingono acqua ad uno di essi la chiamano 'jal'. I mussulmani, che la attingono a un altro, la chiamano 'pani' e gli inglesi, ad un terzo, la chiamano 'water'. Si tratta sempre della stessa cosa chiamata con tre nomi diversi. Allo stesso modo, alcuni chiamano la Realtà col nome di 'Allah', alcuni la chiamano col nome 'Dio', alcuni col nome 'Brahman ', alcuni con 'Kali', ed altri ancora con 'Rama', 'Gesù', 'Durga' e 'Hari'".

Inviato

Dialogo piuttosto interessante,

Tratto sempre daCervello e meditazione. Dialogo tra buddhismo e neuroscienze (Matthieu Ricard e Wolf Singer)

 

WOLF (neurofisiologo di fama mondiale, dirige a Francoforte il Dipartimento di Neurofisiologia al Max Planck Institute for Brain Research)

Proprio così. La meditazione è quindi un processo attenzionale estremamente attivo. Concentrando l’attenzione su stati interiori, si familiarizza con loro, si impara a conoscerli, il che rende più facile ricordarsene quando si decide di riattivarli. Tale fenomeno deve procedere di pari passo con cambiamenti duraturi a livello neuronale. Ogni attività cerebrale che si svolge sotto il controllo dell’attenzione viene memorizzata. Avvengono delle  modifiche a livello di trasmissione sinaptica; le sinapsi si rinforzano o si indeboliscono. E questo sfocia in cambiamenti dello stato dinamico delle assemblee di neuroni (ovvero di vaste reti neuronali). Così, grazie a un addestramento mentale, si giunge a creare nuovi stati mentali e s’impara a riportarli intenzionalmente alla memoria. È straordinario che sia stata scoperta una simile possibilità. Che cosa ha spinto degli esseri viventi a distogliere l’attenzione dal mondo esterno per dedicarla a stati di coscienza interiori, sottoponendoli a una dissezione cognitiva fino a riuscire a controllarli? Per quale motivo le tradizioni orientali si sono concentrate sull’universo interiore, piuttosto che sul mondo esterno?

MATTHIEU  (laureato in genetica molecolare presso l'Istituto Pasteur. Monaco Buddhista -Buddhismo tibetano)

Ebbene, suppongo perché tali stati mentali sono determinanti per la nostra felicità o la nostra sofferenza. Rappresentano un aspetto essenziale nella vita di ognuno di noi. Io invece mi stupisco ancora di più nel constatare come il mondo occidentale abbia accordato così poca attenzione alle condizioni interiori del benessere, e abbia sottovalutato la capacità della mente di trasformare il modo in cui sperimentiamo la vita!

WOLF 

È particolarmente affascinante osservare come un tale addestramento mentale generi cambiamenti duraturi nel cervello, alterazioni che persistono al di là del processo stesso della meditazione. Un recente studio condotto da ricercatori dell’Università di Harvard ha rilevato che nei meditanti di vecchia data si registra un aumento del volume della corteccia cerebrale in certe aree del cervello. Inoltre, Tania Singer ha osservato simili alterazioni strutturali del cervello in gruppi di soggetti principianti che si sono allenati in tre diverse pratiche di meditazione per nove mesi: tre sulla presenza risvegliata, tre sulla presa di prospettiva e tre sulla gentilezza amorevole. Ogni tipo di meditazione ha prodotto alterazioni strutturali in aree specifiche del cervello, che variano da un tipo all’altro. Simili accrescimenti di volume si osservano anche in seguito all’apprendimento di capacità motorie, o dopo una stimolazione sensoriale intensiva, e sono dovuti all’attivazione dei neuropili legata al processo di apprendimento (con il termine neuropilo si designa lo spazio contenente le connessioni tra un neurone e l’altro). Aumentano il numero e le dimensioni delle sinapsi e delle spine dendritiche, come in altre forme di allenamento e di apprendimento.

 

 

Inviato

Rabbi Ba‘er di Radoshitz un giorno supplicò il suo maestro, il «Veggente» di Lublino: «Indicami un cammino universale per servire Dio!» Lo ṣaddiq rispose: «Non si tratta di dire a un essere umano quale cammino debba intraprendere, perché c’è un cammino per servire Dio con lo studio, un altro con la preghiera, un altro col digiuno e un altro col mangiare. Sta a ciascuno sapere bene su quale cammino lo attragga il suo cuore e poi sceglierlo con tutte le forze».

...Qui ci troviamo in presenza di un insegnamento fondato sul fatto che gli esseri umani sono diseguali per natura e che, di conseguenza, non si deve cercare di renderli uguali. Tutti gli esseri umani hanno accesso a Dio, ma ognuno ne ha uno diverso. È proprio nella diversità degli esseri umani, nella diversità delle loro particolarità e delle loro inclinazioni che risiede la grande chance del genere umano. L’universalità di Dio si manifesta nell’infinita varietà di cammini che conducono a Lui, ciascuno dei quali si apre per un unico essere umano. Quando alcuni discepoli di uno ṣaddiq deceduto si recarono dal «Veggente» di Lublino e si meravigliarono che avesse consuetudini diverse da quelle del loro maestro, egli esclamò: «E che Dio sarebbe mai quello che si può servire su un solo cammino?» Poiché infatti ogni essere umano, a partire da dove si trova e dalla propria natura, è in grado di arrivare a Dio, il genere umano in quanto tale può arrivare a Lui avanzando per tutti i cammini. Dio non dice: «Questo cammino conduce a me, mentre quest’altro no», ma dice piuttosto: «Tutto ciò che fai può essere un cammino verso di me, purché tu lo faccia in modo che a me ti conduca». In che cosa consista ciò che quel preciso essere umano e nessun altro può e deve fare, però, può essergli rivelato solo da sé stesso. In questo ambito, come ho già spiegato, è solo fuorviante guardare fino a dove è arrivato un altro e cercare di imitarlo, perché cosí facendo si perde proprio ciò che il singolo, e lui solo, è chiamato a fare. Disse il Ba‘al Shem: «Ognuno deve comportarsi secondo la sua misura. Se questo non accade e uno si impadronisce della misura del suo compagno, lasciandosi cosí sfuggire la propria, non realizzerà né l’una né l’altra». Il cammino attraverso il quale un essere umano raggiunge Dio, quindi, non può essergli rivelato se non dalla conoscenza della propria natura, dalla conoscenza della propria essenziale peculiarità e inclinazione. «In ciascuno c’è qualcosa di prezioso che non è in nessun altro». Questo qualcosa di «prezioso» dentro di sé l’essere umano potrà però scoprirlo solo se coglierà davvero il suo sentimento piú profondo, il suo desiderio principale, ciò che muove il suo essere piú intimo.

Estratto da:

 

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Martin Buber (filosofo e narratore tedesco di origine ebraica. Discendente da una famiglia rabbinica galiziana legata al movimento mistico-popolare del chassidismo.Frequentò poi le università di Vienna, Lipsia, Zurigo e Berlino, dove fu allievo di W. Dilthey e G. Simmel, oltre che lettore attento di L. Feuerbach, S. Kierkegaard e F. Nietzsche.Alla giovinezza di Buber risale il suo interesse per il chassidismo, al quale si accostò per un’attenzione dapprima letteraria, divenuta progressivamente una profonda adesione spirituale. L’influsso di Buber è stato notevole in pensatori cristiani come G. Marcel e P. Tillich -a sua volta è presente un influsso cristiano in Buber-: egli fu del resto uno dei pensatori ebrei, accanto a Rosenzweig, che più legittimarono il cristianesimo come via di redenzione)

Inviato

Non solo cervello, ma anche cuore...

 

 

Cuore e cervello: una connessione più profonda di quanto immaginiamo

https://www.repubblica.it/salute/dossier/frontiere/2025/03/25/news/cuore_cervello_cardiologia_neurologia-424085400/

Curare il cuore, quindi, non significa solo proteggere da infarti e aritmie, ma anche sostenere l’equilibrio emotivo e mentale di una persona. E viceversa. Perché, alla fine, non c’è cervello senza cuore. E nessun cuore batte davvero, senza la mente che lo sente.

 

Inviato

Dio può essere adorato e contemplato in uno qualsiasi dei suoi aspetti. Ma insistere nell’adorare solo un aspetto a esclusione di tutto il resto vuol dire correre un grave rischio spirituale. Così, se ci accostiamo a Dio con l’idea preconcetta che Egli sia esclusivamente il reggitore personale, trascendente, onnipotente del mondo, noi corriamo il rischio di restare invischiati in una religione rituale, di sacrifici propiziatori (talvolta orribili) e di osservanze legalitarie. È inevitabile: se Dio lassù è un potentato inavvicinabile che dà ordini misteriosi, questa specie di religione è del tutto appropriata alla situazione cosmica. Il meglio che si possa dire del legalismo ritualistico è che esso migliora il comportamento. Tuttavia, esso fa ben poco per alterare il carattere e niente per modificare la coscienza.
Le cose vanno molto meglio quando il Dio trascendente, onnipotente e personale è considerato anche un Padre amoroso. Il culto sincero di questo Dio muta il carattere e il comportamento, e fa qualcosa per modificare anche la coscienza. Ma quella completa trasformazione della coscienza, che è «illuminazione», «liberazione», «salvazione», si ha solo quando Dio viene considerato come la Filosofia Perenne Lo afferma: immanente non meno che trascendente, sovrapersonale non meno che personale; e quando le pratiche religiose sono adattate a questa concezione.
Quando Dio è considerato come esclusivamente immanente, il legalismo e le pratiche esteriori vengono abbandonate e ci si concentra sulla Luce Interiore. I pericoli sono allora il quietismo, l’antinomismo, una modificazione parziale della coscienza, inutile o perfino dannosa, perché non è accompagnata dalla trasformazione del carattere che è il prerequisito necessario di una trasformazione totale, completa e spiritualmente fruttifera della coscienza.
Infine, è possibile pensare Dio come un essere esclusivamente sovrapersonale. Per molte persone questa concezione è troppo «filosofica» per fornire un motivo adeguato per operare da un punto di vista pratico sulle proprie credenze. Quindi non è di alcun valore per loro. Sarebbe, ovviamente, un errore supporre che le persone che  adorano un solo aspetto di Dio ad esclusione di tutto il resto debbano inevitabilmente incorrere negli inconvenienti sopra descritti. Se non sono troppo ostinate nelle loro idee preconcette, se accettano con docilità ciò che accade loro nel processo di adorazione, il Dio che è nello stesso tempo immanente e trascendente, personale e più che personale, può allora rivelarsi loro nella sua pienezza. Tuttavia, resta il fatto che ci è più facile conseguire la nostra meta senza lo svantaggio di una serie di credenze erronee e inadeguate sul giusto modo di giungervi e sulla natura di ciò che andiamo cercando.

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Chi è Dio? Non posso trovar migliore risposta di: «Colui che è». Niente è più appropriato a quell’eternità che è Dio. Se voi affermate che Dio è buono, grande, benedetto, o saggio, o Gli date altri analoghi attributi, essi sono sempre inclusi nelle parole: «Egli è».
SAN BERNARDO

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Orbene, non vi è una classe di sostanza o un genere comune cui appartenga il Brahman. Pertanto, non può essere indicato da parole che, come «essere» nel senso ordinario, significano una categoria di cose. Né può esser indicato dalla qualità, perché è senza qualità; né dall’attività perché è senza attività: «in riposo, senza parti né attività» secondo le scritture. Né può esser indicato dalla relazione, perché è «senza un secondo» e non è oggetto d’altro che di se stesso. Pertanto non può esser definito da alcuna parola o idea; come dice la scrittura, è l’Uno «davanti a cui si ritraggono le parole».
ŚAṄKARA

Tratto da:

La filosofia perenne di Aldous Huxley

 

 

Inviato

Rabbi Ḥanok raccontò: «C’era una volta un uomo talmente, ma talmente sciocco che lo chiamavano Golem. Quando al mattino si alzava, gli era sempre cosí difficile ritrovare i vestiti, che la sera, al pensiero, aveva spesso paura di andare a dormire. Una sera, finalmente, si fece coraggio, prese un pezzo di carta e una matita e, mentre si spogliava, annotò dove metteva ogni capo che si toglieva. Il mattino seguente, tutto contento, tirò fuori il biglietto e lesse: “Berretto”: era lí e se lo mise; “Pantaloni”: erano là e se li infilò; e cosí via, finché non ebbe tutto addosso. “Sí, ma io dove sono?”, si domandò a quel punto tutto angosciato, “Dove sono rimasto?” Invano si cercò e ricercò; non riusciva a trovare sé stesso».

Estatto da: Il cammino dell'uomo di M. Buber

Inviato

Un proverbio indù dice: «Possiamo ballare sulle nostre spalle? ». 

No. Ebbene, la mente non può comprendere se stessa. Qui possiamo notare il limite di uno strumento conoscitivo e ammettere con umiltà e accettazione una tale constatazione. Ma la mente, che produce l’io, il tempo, lo spazio e la causalità, non si arrende e nel suo moto ignorante tenta di definire, concettualizzare, afferrare ciò che è senza tempo, senza causa, senza spazio: insomma, non è autorisplendente, autoconoscente. Dietro a essa esiste qualcosa da cui trae un modesto riflesso conoscitivo. Questo qualche cosa lo possiamo paragonare al sole che risplende di luce propria. Compito del processo realizzativo è quello di ritirare la coscienza in questo Sole centrale che non abbisogna di nessuna mente-pensiero per conoscere poiché comprende e si autocomprende. Se questo atman centrale viene paragonato al sole e la mente alla luna, a che cosa serve quel pallido riflesso della luna, quando il sole splende allo zenit?!

...Il pensiero filosofico orientale predominante è questo:
Che cosa sono il conflitto e la sofferenza umana? Qual è l’origine del conflitto e della disarmonia? Come può essere eliminato tale conflitto? Come dovrebbe vivere l’uomo per essere armonico con se stesso, con i suoi simili e la stessa natura? Rispondere a queste domande significa risolvere il problema dell’individuo, significa fare della filosofia di vita; commensurarsi nell’esperienza pratica con tale filosofia significa Realizzarsi. La problematica orientale è di ordine pratico, empirico; il processo realizzativo è altrettanto empirico e pratico; la risultante è metafisica. Il Buddha, con la sua Illuminazione, ha scoperto che la vita samsarica è permeata di conflitto e di dolore. Le Quattro Nobili Verità trattano della sofferenza, dell’origine della sofferenza, della soppressione della sofferenza, della via che porta alla soluzione della sofferenza o del conflitto. L'origine della sofferenza, per il Buddha, è la sete del piacere-godimento, è il desiderio di essere questo o quello, è l'avidità di vivere certe esperienze duali. Il nirvana rappresenta la Pax profunda, la Compiutezza, la Pienezza, il moto sul proprio asse e la Gioia senza desiderio. Ma nel nirvana, è ovvio, non esiste più quell’io egoistico, appropriatore e samsarico, bensì il Sé, la Vita in quanto tale senza alcuna denominazione e qualificazione. Lo stesso Cristo non svelò  l'Amore che è Gioia senza desiderio?

...La Verità non può essere racchiusa in uno schema, in un insegnamento, in un “sistema” filosofico, né può essere regalata come si trattasse di una scatola di dolciumi; si concede a chi sa amarla. Ma l’uomo non ama la Verità, bensì l’erudizione della mente, il proprio io con i suoi indefiniti contenuti, la vita della forma cangiante e fluttuante, la gloria del potere materiale e spirituale, la propria salvezza purché operata e donata da altri. Quando comprendiamo che la Verità non è il nostro passato, fatto di orgoglio, di superbia, di separatività, di egoismo, di brame mondane e spirituali; quando scopriamo che la Verità è qualcosa di Innocente, di Essenziale e di Semplice, dimorante in ogni espressione di vita, allora con grande umiltà sapremo bandire tutto ciò che la nostra mente ha accumulato finora. L’amore svela la realtà e la realtà è permeata di amore; comprendere è amare e l’amore si trova nei puri di cuore, in coloro che si rivolgono all’aspetto Vita e non agli oggetti che incatenano e rendono schiavi e avidi.

Estratto da:

 

 

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Inviato

 

Possenti: «Il nostro tempo ha bisogno della metafisica»

Per Vittorio Possenti «la grandezza della metafisica sta nella sua necessità, di cui ci si accorge soprattutto quando è obliata. I suoi scribi e farisei ne annunciano la fine “destinale”, entro un irreversibile processo verso l’approdo nichilistico.

https://www.avvenire.it/agora/pagine/vittorio-possenti-il-nostro-tempo-ha-bisogno-della-metafisica

(Dopo un periodo passato presso il Rettorato dell'Università cattolica di Milano per coordinare i centri di Ricerca dell’Ateneo, dal 1988 al 2000 è stato professore associato di Storia della Filosofia morale presso l'Università Ca’ Foscari di Venezia -Facoltà di Lettere e Filosofia-, e dal 2000 al 2010 professore ordinario di Filosofia Politica. Ha fondato e presieduto a Ca’ Foscari il “Centro interdipartimentale di ricerca sui Diritti Umani” -Cirdu, 2003-)

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Inviato

Così ne parla il Buddha:

Bhikkhu, esiste il non nato, il non divenuto, l’incondizionato, il non composto. Se non ci fosse il non nato, il non divenuto, l’incondizionato, il non composto, non ci sarebbe una via di fuga dal nato, da ciò che diviene, da ciò che è condizionato e da ciò che è composto. Perché c’è il non nato, il non divenuto, l’incondizionato, il non composto, c’è (una possibilità) di emancipazione per il nato, il divenuto, il condizionato e il composto”*. È dunque riscontrabile nel buddhismo delle origini l’affermazione dell’esistenza dell’incondizionato, qualcosa che è postulato dall’esperienza umana dell’impermanenza, sebbene non lo si definisca nei termini di un essere, e ancor meno venga chiamato Dio. Questa Realtà priva di condizionamenti è certamente avvertita come qualcosa che sfugge alla comprensione dell’esperienza umana.

*(Udana, 8,3 (73), citato da Walpola Rahula, L’insegnamento del Buddha, trad. it. di Maria Angela Falà, Roma, Edizioni Paramita, 1994, p. 44. [L’Udana, come altri testi del canone buddhista, è reperibile in italiano ne La rivelazione del Buddha, a cura e con un saggio introduttivo di Raniero Gnoli, traduzioni e commento di Carlo Cicuzza, Raniero Gnoli e Francesco
Sferra, 2 voll., Milano, Mondadori, 2001, N.d.T.])

Tratto da:

 

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Yves Raguin, teologo gesuita formatosi come orientalista a Parigi e Harvard, dopo diverse esperienze in Estremo Oriente dà vita nel 1964, assieme a Jean Lefeuvre, all’Istituto Ricci di Taipei, che rappresenterà per più di trent’anni il centro da cui svilupperà la sua ricerca spirituale e culturale. Tra i più autorevoli e competenti fautori del dialogo interreligioso, è stato autore di numerosi saggi e opuscoli sulla vita spirituale e la contemplazione, ma al suo nome è legato soprattutto il monumentale dizionario Grand Ricci della lingua cinese

Inviato

Leggo un pensiero di Max Planck, premio Nobel per la fisica, tratto dal suo libro Autobiografia scientifica:
«Nel primo paragrafo di questo schema autobiografico, sottolineai che per me la ricerca di qualcosa di assoluto è lo scopo più nobile e più degno della scienza. Il lettore potrebbe ritenere contraddittorio questo mio confessato interesse per la teoria della relatività. Ma sarebbe fondamentalmente erroneo considerare le cose in questo modo:
poiché tutto ciò che è relativo presuppone qualcosa di assoluto e ha un significato solo quando è confrontato con
qualche cosa di assoluto.
La solita frase “tutto è relativo” è ambigua e priva di senso. Anche la teoria della relatività
è basata su qualcosa di assoluto, cioè la determinazione metrica del continuo spazio-temporale; ed è un compito
particolarmente importante la ricerca dell’assoluto, che solo può dare senso a qualcosa di relativo. Tutte le nostre
misure sono relative. La materia che forma i nostri strumenti varia a seconda della sua origine geografica; la loro
costruzione dipende dall’abilità del progettista e del costruttore; il loro impiego è contingente al particolare scopo perseguito dallo sperimentatore. Il nostro compito è di trovare in tutti questi fattori e dati l'assoluto, l’universalmente valido, l’invariante che vi è nascosto».

Questo concetto, nella sua essenza, è metafisico e questa sera cercheremo di penetrarlo insieme. Quando parliamo di
Reale, senza neanche accorgercene, lo identifichiamo a “qualche cosa” di assoluto, di eternamente valido, di indipendente da ogni determinazione, a qualcosa che non deve dipendere da altro se non da se stesso. Se un dato è assoluto deve avere una vita autonoma, a sé, un’esistenza intrinseca, al di fuori di qualunque altro dato. Se altri dati esistono o non esistono, per quello che abbiamo preso in considerazione non ha nessuna importanza poiché appunto esso esiste quale realtà indipendente, inalterabile, diremo, Assoluta. Se invece questo nostro dato.non ha una vita autonoma, intrinseca, a sé, inalterabile, vuol dire che la sua esistenza è subordinata a qualche altro dato e quest’ultimo contribuisce a dargli vita e nome. In questo caso esso non è Realtà assoluta perché si dimostra come un semplice fenomeno relativo, contingente, transitorio.

Tratto sempre dal testo di Raphael più sopra citato

Inviato

C'è solo una Realtà assoluta: Brahman nirguna (Infinito inqualificato o senza attributi). L’uomo sensoriale può solo concepire la Realtà in termini di umanità, di qualità, di attributo. L'uomo si crea Dio a sua immagine: buono, cattivo, amorevole, potente, benefattore, giustiziere, vendicatore, lacrimevole, gioioso, ecc.: ma questi sono attributi inerenti alla natura umana sensoriale. La Realtà è fuori di ogni determinismo qualitativo, è fuori di ogni prospettiva mentale, per quanto elevata e accettabile possa essere. : La Realtà sfugge al pensiero che oggettivizza attributi, tendenze e scopi.

...La Realtà non può non essere una sola, e su questo, penso, siamo tutti d'accordo, ma ognuno se la configura in tanti modi. Brahman-costante è immaginato da molteplici punti di vista, come Saguna, Siva, Kether, Jehovah, Allah, Krsna, Rudra, Agni; come il tempo e lo spazio; come l’Incosciente; come il Bene, il Bello, il Giusto; come l’Infinito; come il niente o la vacuità. Ogni figlio dell’uomo aderisce alla sua proiezione preferita ed è capace di lottare e uccidere per difendere la sua proiezione deificata. Gli individualismi, le sette, le dittature, di ogni ordine e grado, nascono e si perpetuano per un atto proiettivo fortemente qualificato. Il Brahman nirguna è dietro tutte queste oggettivazioni, è la Costante intorno a cui roteano le possibili proiezioni spaziotemporali, è il sostrato unico e permanente...

Tratto sempre dal testo di Raphael di cui sopra

Inviato

 

Mi recai alla prima lezione e scoprii che usava due pianoforti. Non mi salutò neppure, sedette al piano, suonò cinque note e disse: “Rifallo”. Dovevo suonare il passaggio allo stesso modo. Suonai. “No”, disse. Suonò una seconda volta, e io suonai una seconda volta. “No”, disse. Andammo avanti così per un’ora, e ogni volta diceva soltanto: “No”.

Nei tre mesi seguenti arrivai a suonare tre battute, diciamo trenta secondi di musica. Io credevo di non essere male, avevo suonato come solista in piccole orchestre sinfoniche. Eppure andammo avanti così per tre mesi, e per tutto il tempo piangevo. Aveva tutte le caratteristiche di un vero maestro: la spinta e la tremenda determinazione a far sì che l’allievo capisse. Ecco perché era ottimo. Un giorno, trascorsi i tre mesi, disse: “Buono”. Cos’era accaduto? Che avevo imparato ad ascoltare. Come diceva: se lo sai ascoltare, lo sai suonare. Cos’era accaduto in quei tre mesi? Le mie orecchie erano uguali a prima, non avevano subito nessuna trasformazione. Il pezzo non presentava nessuna particolare difficoltà tecnica. Ma avevo imparato  ad ascoltare per la prima volta… ed erano tanti anni che suonavo il piano! Avevo imparato a fare attenzione. Ecco perché era un buon maestro: perché insegnava l’attenzione. Studiando con lui si imparava davvero ad ascoltare, a sentire. Se lo sai ascoltare, lo sai suonare. Dalle sue mani sono usciti pianisti completi. Nella pratica dello Zen occorre la stessa attenzione. Viene chiamata samadhi, unione totale con l’oggetto. Nella storia che vi ho raccontato era più facile, perché era rivolta a un oggetto che mi piaceva. È la stessa unione del grande artista, dell’atleta, del giocatore di football o di pallacanestro; di tutti quanti hanno dovuto imparare a fare attenzione. È un tipo di samadhi. Solo un tipo, ma molto utile. Nello Zen ci viene richiesta una cosa più difficile: l’attenzione a questo preciso momento, alla totalità di ciò che accade ora. Il motivo per cui non vogliamo fare attenzione è che non sempre ciò che accade è piacevole. Non ci va. Abbiamo una mente in grado di pensare. Le cose spiacevoli sono impresse nella memoria. Facciamo sogni sul futuro, sulle cose piacevoli che avremo e che faremo. Tutto ciò che accade nel presente lo passiamo a questo filtro: “Non mi piace. Non voglio sentirlo; Preferisco dimenticarlo e sognare quanto accadrà di bello”. È un lavoro continuo: la mente gira, gira, gira nel costante tentativo di creare una vita piacevole, di farci sentire al sicuro e felici. Facendo così non vediamo il qui-e-ora, questo preciso momento. Non lo vediamo perché siamo impegnati a filtrare. Ma ciò che accade è molto diverso da ciò che pensiamo. Chiedete a dieci persone di riassumervi questo libro, e avrete dieci distinte versioni. Si rimuovono i passi che non ci piacciono e si isolano quelli che ci gratificano. Delle parole dell’insegnante di Zen, sentiamo solo quello che vogliamo sentire. Essere aperti significa  ascoltare tutto, non solo qualcosa. L’insegnante non è lì solo per essere carino con voi. Il cardine dello zazen è questo: ritornare costantemente dal lavorio mentale al qui-e-ora. La pratica è questa. Ciò che dobbiamo sviluppare è la capacità di stare intensamente nel qui e-ora

...La pratica dello Zen mira a farci vivere con più agio. Vivere con agio significa imparare a non passare la vita a sognare, ma stare con ciò che è qui-e-ora, qualunque cosa sia. Buono, cattivo, bello, brutto, mal di testa, malattia o felicità non fa differenza. Una caratteristica dello studente zen maturo è quella di essere ben radicato. Incontrando una persona del genere, lo avvertite. Tali persone sono in contatto con la vita reale così come si dispiega, senza perdersi in una versione di fantasia. Per questo le tempeste della vita le colpiscono senza troppi danni. Accettando le cose così come sono, nulla ci sconvolgerà troppo. Oppure, il turbamento finirà molto più in fretta. Vediamo cosa succede nella seduta. Tutto ciò che dobbiamo fare è stare con ciò che accade in questo preciso momento. Non dovete credermi, dovete verificarlo da voi.

Tratto da:

 

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Charlotte Joko Beck (1917-2011) è stata un’insegnante americana di buddhismo zen e un’autrice di grande successo. Ha iniziato a praticare sotto la guida del maestro Taizan Maezumi all’età di quarantanni. Ha dato vita e diretto lo Zen Center di San Diego, il Prescott Zen Center e la rete di centri Ordinary Mind Zen School. Molto amata per il suo stile diretto e anticonvenzionale, è considerata un punto di riferimento nella relazione tra buddhismo e psicologia.


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