Jack Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 11 minuti fa, vizegraf ha scritto: Vedi Jack, quello che disturba (almeno a me) eh ho capí vize... ma ti pare una roba da cui farti disturbare? io dicevo solo questo... che poi tutti sanno, tutti sanno... se tutti sapessero non ci sarebbero né scuole né maestri... c'è chi sa una cosa, chi un'altra, che niente e chi molto, no? Il latino plus lo ha "studiato" si e no il 10% della popolazione tra vecchie medie e licei (manco tutti) più qualcuno che si informa... l'inglesorum plas lo pratica tutta il panorama impiegatizio dirigenziatucolo... è "ufficiese" come "essere "in call" etc che ti vuoi incazzare per l'ufficiese? ma se ti disturba ne hai facoltà eh
eduardo Inviato 13 Giugno 2022 Autore Inviato 13 Giugno 2022 11 minuti fa, vizegraf ha scritto: sono gli italiani che riprendono ed usano la storpiatura Infatti; non e' evoluzione linguistica, e' ignoranza. E l'ignoranza e' accettabilissima, tutti - chi piu', chi meno - ne siamo pervasi. Ma sbandierarla non e' cosa intelligente (o furba, visto che parliamo di italiani).
Schelefetris Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 9 minuti fa, Jack ha scritto: ma se ti disturba ne hai facoltà eh a me, sia questo esibizionismo di ignoranza (credono di essere colti e di fare bella figura ma in realtà certificano la loro ignorantità 😄 ), sia leggere messaggi in stile sms anni 90 con K al posto dei "ch" per intenderci, fa l'effetto delle unghia che graffiano la lavagna 😄
mozarteum Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 3 ore fa, Paperinik2021 ha scritto: mi dice che è "in call", Pero’ ora non esageriamo, la lingua viva come diceva Dante e come ha ribadito il suo discepolo Jack si alimenta di ibridazioni, vulgate nazionali e internazionaliche s’intrecciano ecc. Poi nella comunicazione minuta conta la sostanza piu’ della forma e ne facciamo esperienza quando siamo all’estero e ci barcameniamo come toto’ e peppino a milano. Il K si usa perche’ scrivere che mentre si guida e’ pericoloso😁 non c’entra col thread, ma secondo me il vero rammarico e’ l’impoverimento del linguaggio Come si sta la’? Si sta da Dio. Vi siete diverti ieri sera? Na favola. Il linguaggio povero comunica poco quando la comunicazione dovrebbe essere invece puntuale evocativa ricca. La noia secondo me nasce anche da questa apatia comunicativa. Nel piattume comunicativo vince nel breve periodo chi ha la tartaruga e le zinne a posto. poi comincia la debacle 2
tomminno Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 4 ore fa, cactus_atomo ha scritto: considerando poi che l'inglese non ha regol ferre di pronuncia Finally, which rhymes with enough, Though, through, plough, or dough, or cough? Hiccough has the sound of cup. My advice is to give up! Cit.
melos62 Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 La lingua è strumento di comunicazione, ed è in continua evoluzione, siamo d'accordo tutti. Un lessico impoverito può seguire oppure precorrere l'impoverimento del pensiero. Se ti mancano le parole per esprimere un concetto, dopo poco , in una lingua, il concetto non lo possiedi più. Successe agli Estoni nati durante il periodo sovietico, non comprendevano il significato di "libertà politica" non avendola mai sperimentata. Toccava alle loro nonne spiegare (aneddoto tratto da esperienze personali). Perciò la tavolozza dei colori ricca di sfumature consente un pensiero meno banale, il pensiero non banale arricchisce di lemmi e strumenti la lingua. Ultimo: se semplice mi avventuro citando una parola straniera devo pronunciarl correttamente, se cito il latino lo pronuncio non all'americana, ma all'italiana. Infatti non sono uno che mescola e crea neologismi, sono uno che fa una figura di 🍎. Augh.
wow Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 2 ore fa, melos62 ha scritto: Augh. In lingua Sioux come si pronuncia?
Jack Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 5 ore fa, mozarteum ha scritto: la lingua viva come diceva Dante e come ha ribadito il suo discepolo Jack 🤣
eduardo Inviato 13 Giugno 2022 Autore Inviato 13 Giugno 2022 3 ore fa, wow ha scritto: 5 ore fa, melos62 ha scritto: Augh. In lingua Sioux come si pronuncia? in sioux inglesizzato "Ooohh"
ascoltoebasta Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 Credo che i vari termini italianizzati o ignorantizzati tipo plas ,call, al top,non ricordo dove ma ho sentito una signora dire "io sono una management", servano prevalentemente a comprendersi velocemente,questa è la loro funzione e a me non urta,al limite sorrido di alcuni strafalcioni,come dice @mozarteum preoccupa la povertà di termini e l'uso di questi pochi anche in ambiti che meriterebbero più articolati interventi,sarà che io ho sempre avuto la passione per i sinonimi e i contrari,e quindi vedo ciò che sta accadendo al lessico moderno come un lento andare alla deriva. Ma d'altrocanto siamo in un periodo in cui se si assiste ad un incidente, per prima cosa lo si filma con lo smartphone e poi si chiamano i soccorsi ,ma se si risponde "crepi il lupo",corrucciati ti correggono suggerendoti di dire "viva il lupo", suvvia umanizziamoci.
Questo è un messaggio popolare. eduardo Inviato 13 Giugno 2022 Autore Questo è un messaggio popolare. Inviato 13 Giugno 2022 3 minuti fa, ascoltoebasta ha scritto: io sono una management" sara' una che maneggia 3
mozarteum Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 Per capire un po’ di cosa e’ capace la Lingua italiana, bisognerebbe avere a casa il Battaglia 25 volumi (forse di piu’) in cui sono riportati tutti i lemmi esistenti della lingua italiana (uh mado’ direte) per come sono stati impiegati dall’esordio fino all’uso corrente. per ogni parola c’e’ la citazione letteraria in cui ha preso un significato e poi le altre in cui il significato e’ leggermente, ma a volte profondamente, variato come in una mutazione biologica. un viaggio meraviglioso attraverso la nostra lingua nel tempo. Ma la ricchezza d’ un vocabolario non e’ una raccolta museale di suppellettili. Sta ad indicare lo sforzo di generazioni di creare parole e sistemi di parole le piu’ adatte ad esprimere la miriade di sentimenti, concetti, sfumature di concetti di cui la mente umana e’ capace. la ricchezza d’un vocabolario e’ dunque strettamente correlata all’esperienza e alla cultura di un popolo. Provate ad esprimere un concetto raffinato in una lingua tribale…. ecco perche’ non bisognerebbe lisciare il pelo dei giovani ignorantelli in forza di un giovanilismo patetico da parte degli adulti in cerca di consenso. Bisogna trasmettere l’amore per la cultura che sveglia ogni tipo di intelligenza anche quella tecnica. 2
eduardo Inviato 13 Giugno 2022 Autore Inviato 13 Giugno 2022 @mozarteum vero, la lingua italiana e' di una ricchezza senza pari. Ma mortificarla sembra essere diventata una moda; stupida come e piu' di tante altre, ma tant'e'. 1
Martin Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 E assieme all'italiano, curare almeno una lingua straniera "capitale" alla perfezione, meglio due.
mom Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 Leggendo questo thread mi sono ricordata un racconto di Alphonse Daudet: La dernière classe . ( il racconto è tratto dalla raccolta Les contes du lundi.). Non so se qualcuno lo conosce ma, in questo momento, lo trovo particolarmente attuale. La storia si svolge durante la guerra franco prussiana a fine ‘800. Un ragazzino alsaziano è in ritardo e corre a scuola anche se la folla, radunata davanti al piccolo municipio, lo invita a non affrettarsi troppo. Entrato finalmente in classe apprende da M. Hamel, il maestro, che quel giorno sarebbe stato l’ultimo con la lezione in lingua francese. Da Berlino era venuto l’ordine che comunicava l’obbligo, dall’indomani, di utilizzare solo più la lingua tedesca. Daudet usa questa maniera per far comprendere lo sgomento dei ragazzi di fronte alla guerra. È un racconto molto breve ma particolarmente toccante che raggiunge l’obiettivo di far riflettere sui danni provocati dalla guerra. So che sono o.t., mi scuso ma lo trascrivo lo stesso, per trasmettere un pensiero alla guerra fratricida di oggi: chi non comprende il francese, se è comunque interessato, può usare il traduttore di Google. « LA DERNIÈRE CLASSE (récit d’un petit alsacien) Ce matin-là, j’étais très en retard pour aller à l’école, et j’avais grand-peur d’être grondé, d’autant que M. Hamel nous avait dit qu’il nous interrogerait sur les participes, et je n’en savais pas le premier mot. Un moment l’idée me vint de manquer la classe et de prendre ma course à travers champs. Le temps était si chaud, si clair ! On entendait les merles siffler à la lisière du bois, et dans le pré Rippert, derrière la scierie, les Prussiens qui faisaient l’exercice. Tout cela me tentait bien plus que la règle des participes ; mais j’eus la force de résister, et je courus bien vite vers l’école. En passant devant la mairie, je vis qu’il y avait du monde arrêté près du petit grillage aux affiches. Depuis deux ans, c’est de là que nous sont venues toutes les mauvaises nouvelles, les batailles perdues, les réquisitions, les ordres de la commandature ; et je pensai sans m’arrêter : « Qu’est-ce qu’il y a encore ? » Alors, comme je traversais la place en courant, le forgeron Wachter, qui était là avec son apprenti en train de lire l’affiche, me cria : « Ne te dépêche pas tant, petit ; tu y arriveras toujours assez tôt à ton école ! » Je crus qu’il se moquait de moi, et j’entrai tout essoufflé dans la petite cour de M. Hamel. D’ordinaire, au commencement de la classe, il se faisait un grand tapage qu’on entendait jusque dans la rue : les pupitres ouverts, fermés, les leçons qu’on répétait très haut, tous ensemble, en se bouchant les oreilles pour mieux apprendre, et la grosse règle du maître qui tapait sur les tables : « Un peu de silence ! » Je comptais sur tout ce train pour gagner mon banc sans être vu ; mais, justement, ce jour-là, tout était tranquille, comme un matin de dimanche. Par la fenêtre ouverte, je voyais mes camarades déjà rangés à leurs places, et M. Hamel, qui passait et repassait avec la terrible règle en fer sous le bras. Il fallut ouvrir la porte et entrer au milieu de ce grand calme. Vous pensez, si j’étais rouge et si j’avais peur ! Eh bien, non ! M Hamel me regarda sans colère et me dit très doucement : « Va vite à ta place, mon petit Franz ; nous allions commencer sans toi. » J’enjambai le banc et je m’assis tout de suite à mon pupitre. Alors seulement, un peu remis de ma frayeur, je remarquai que notre maître avait sa belle redingote verte, son jabot plissé fin et la calotte de soie noire brodée qu’il ne mettait que les jours d’inspection ou de distribution de prix. Du reste, toute la classe avait quelque chose d’extraordinaire et de solennel. Mais ce qui me surprit le plus, ce fut de voir au fond de la salle, sur les bancs qui restaient vides d’habitude, des gens du village assis et silencieux comme nous : le vieux Hauser avec son tricorne, l’ancien maire, l’ancien facteur, et puis d’autres personnes encore. Tout ce monde-là paraissait triste ; et Hauser avait apporté un vieil abécédaire mangé aux bords, qu’il tenait grand ouvert sur ses genoux, avec ses grosses lunettes posées en travers des pages. Pendant que je m’étonnais de tout cela, M. Hamel était monté dans sa chaire, et de la même voix douce et grave dont il m’avait reçu, il nous dit : « Mes enfants, c’est la dernière fois que je vous fais la classe. L’ordre est venu de Berlin de ne plus enseigner que l’allemand dans les écoles de l’Alsace et de la Lorraine… Le nouveau maître arrive demain. Aujourd’hui, c’est votre dernière leçon de français. Je vous prie d’être bien attentifs. » Ces quelques paroles me bouleversèrent. Ah ! les misérables, voilà ce qu’ils avaient affiché à la mairie. Ma dernière leçon de français !… Et moi qui savais à peine écrire ! Je n’apprendrais donc jamais ! Il faudrait donc en rester là ! Comme je m’en voulais maintenant du temps perdu, des classes manquées à courir les nids ou à faire des glissades sur la Saar ! Mes livres que tout à l’heure encore je trouvais si ennuyeux, si lourds à porter, ma grammaire, mon histoire sainte, me semblaient à présent de vieux amis qui me feraient beaucoup de peine à quitter. C’est comme M. Hamel. L’idée qu’il allait partir, que je ne le verrais plus, me faisait oublier les punitions, les coups de règle. Pauvre homme ! C’est en l’honneur de cette dernière classe qu’il avait mis ses beaux habits du dimanche, et, maintenant, je comprenais pourquoi ces vieux du village étaient venus s’asseoir au bout de la salle. Cela semblait dire qu’ils regrettaient de ne pas y être venus plus souvent, à cette école. C’était aussi comme une façon de remercier notre maître de ses quarante ans de bons services, et de rendre leurs devoirs à la patrie qui s’en allait… J’en étais là de mes réflexions, quand j’entendis appeler mon nom. C’était mon tour de réciter. Que n’aurais-je pas donné pour pouvoir dire tout au long cette fameuse règle des participes, bien haut, bien clair, sans une faute ! mais je m’embrouillai aux premiers mots, et je restai debout à me balancer dans mon banc, le cœur gros, sans oser lever la tête. J’entendais M. Hamel qui me parlait : « Je ne te gronderai pas, mon petit Franz, tu dois être assez puni… Voilà ce que c’est. Tous les jours on se dit : Bah ! j’ai bien le temps. J’apprendrai demain. Et puis tu vois ce qui arrive… Ah ! ç’a été le grand malheur de notre Alsace de toujours remettre son instruction à demain. Maintenant ces gens-là sont en droit de nous dire : Comment ! Vous prétendiez être Français, et vous ne savez ni parler ni écrire votre langue !… Dans tout ça, mon pauvre Franz, ce n’est pas encore toi le plus coupable. Nous avons tous notre bonne part de reproches à nous faire. « Vos parents n’ont pas assez tenu à vous voir instruits. Ils aimaient mieux vous envoyer travailler à la terre ou aux filatures pour avoir quelques sous de plus. Moi-même, n’ai-je rien à me reprocher ? Est-ce que je ne vous ai pas souvent fait arroser mon jardin au lieu de travailler ? Et quand je voulais aller pêcher des truites, est-ce que je me gênais pour vous donner congé ?… » Alors, d’une chose à l’autre, M. Hamel se mit à nous parler de la langue française, disant que c’était la plus belle langue du monde, la plus claire, la plus solide : qu’il fallait la garder entre nous et ne jamais l’oublier, parce que, quand un peuple tombe esclave, tant qu’il tient bien sa langue, c’est comme s’il tenait la clef de sa prison[1]… Puis il prit une grammaire et nous lut notre leçon. J’étais étonné de voir comme je comprenais. Tout ce qu’il disait me semblait facile, facile. Je crois aussi que je n’avais jamais si bien écouté, et que lui, non plus, n’avait jamais mis autant de patience à ses explications. On aurait dit qu’avant de s’en aller le pauvre homme voulait nous donner tout son savoir, nous le faire entrer dans la tête d’un seul coup. La leçon finie, on passa à l’écriture. Pour ce jour-là, M. Hamel nous avait préparé des exemples tout neufs, sur lesquels était écrit en belle ronde : France, Alsace, France, Alsace. Cela faisait comme des petits drapeaux qui flottaient tout autour de la classe, pendus à la tringle de nos pupitres. Il fallait voir comme chacun s’appliquait, et quel silence ! On n’entendait rien que le grincement des plumes sur le papier. Un moment des hannetons entrèrent ; mais personne n’y fit attention, pas même les tout petits qui s’appliquaient à tracer leurs bâtons, avec un cœur, une conscience, comme si cela encore était du français… Sur la toiture de l’école, des pigeons roucoulaient tout bas, et je me disais en les écoutant : « Est-ce qu’on ne va pas les obliger à chanter en allemand, eux aussi ? » De temps en temps, quand je levais les yeux de dessus ma page, je voyais M. Hamel immobile dans sa chaire et fixant les objets autour de lui, comme s’il avait voulu emporter dans son regard toute sa petite maison d’école… Pensez ! depuis quarante ans, il était là, à la même place, avec sa cour en face de lui et sa classe toute pareille. Seulement les bancs, les pupitres s’étaient polis, frottés par l’usage ; les noyers de la cour avaient grandi, et le houblon qu’il avait planté lui-même enguirlandait maintenant les fenêtres jusqu’au toit. Quel crève-cœur ça devait être pour ce pauvre homme de quitter toutes ces choses, et d’entendre sa sœur qui allait, venait, dans la chambre au-dessus, en train de fermer leurs malles ! car ils devaient partir le lendemain, s’en aller du pays pour toujours. Tout de même, il eut le courage de nous faire la classe jusqu’au bout. Après l’écriture, nous eûmes la leçon d’histoire ; ensuite les petits chantèrent tous ensemble le ba be bi bo bu. Là-bas, au fond de la salle, le vieux Hauser avait mis ses lunettes, et, tenant son abécédaire à deux mains, il épelait les lettres avec eux. On voyait qu’il s’appliquait, lui aussi ; sa voix tremblait d’émotion, et c’était si drôle de l’entendre, que nous avions tous envie de rire et de pleurer. Ah ! je m’en souviendrai de cette dernière classe… Tout à coup l’horloge de l’église sonna midi, puis l’Angelus. Au même moment, les trompettes des Prussiens qui revenaient de l’exercice éclatèrent sous nos fenêtres… M. Hamel se leva tout pâle, dans sa chaire. Jamais il ne m’avait paru si grand. « Mes amis, dit-il, mes amis, je… je… » Mais quelque chose l’étouffait. Il ne pouvait pas achever sa phrase. Alors il se tourna vers le tableau, prit un morceau de craie et, en appuyant de toutes ses forces, il écrivit aussi gros qu’il put : « VIVE LA FRANCE ! » Puis il resta là, la tête appuyée au mur, et, sans parler, avec sa main, il nous faisait signe : « C’est fini… allez-vous-en. » 🤗 ( oggi è appunto lunedì…)
Membro_0022 Inviato 13 Giugno 2022 Inviato 13 Giugno 2022 7 ore fa, melos62 ha scritto: Se ti mancano le parole per esprimere un concetto, dopo poco , in una lingua, il concetto non lo possiedi più. Orwell (in 1984) aveva capito parecchie cose. Uno degli obiettivi primari del governo era la creazione della "neolingua" con la quale sarebbe stato impossibile compiere uno psicoreato, mancando i termini per esprimere concetti "non allineati".
Messaggi raccomandati