GioSim Inviato 5 Maggio Inviato 5 Maggio Questa è la versione e sembrerebbe full analogue, Giorgio https://www.discogs.com/it/release/2512040-Art-Pepper-The-Way-It-Was
OTREBLA Inviato 5 Maggio Autore Inviato 5 Maggio Lo avevo visto anche io, ma su Discogs non è detto da nessuna parte che sia AAA. Sappiamo bene che Ultra Analogue System non significa nulla. Probabilmente c'è un passaggino di digitale. Alberto. 1
bear_1 Inviato 9 Maggio Inviato 9 Maggio @OTREBLA .....complimenti per le scenografie fotografiche nelle presentazioni dei dischi. Ci vedrei bene anche qualche giradischi vintage in forma statica per completare il quadro
OTREBLA Inviato 9 Maggio Autore Inviato 9 Maggio Eh vuoi troppo...non ho mica tutto 'sto spazio, anche per i giradischi vintage...anni fa avevo una fonovaligia, bellissima, inglese, che poi ho venduto perché faceva più che altro da soprammobile. Di vintage però in casa mia c'è parecchia roba, a partire dal sottoscritto. Alberto.
bear_1 Inviato 9 Maggio Inviato 9 Maggio @OTREBLA …. Bene comunque grazie per l’informazione mi è arrivato Groovy oggi lo ascolto 👍
OTREBLA Inviato 9 Maggio Autore Inviato 9 Maggio Prego, le serie OJC di Craft, e Craft-Contemporary sono le migliori sulla piazza, come rapporto qualità prezzo, tra Acoustic Sounds, Tone Poet e Blue Note Classic. Speriamo vadano avanti a ristampare a manetta... Alberto.
OTREBLA Inviato 22 Giugno Autore Inviato 22 Giugno Che voi sappiate è previsto il tè durante l’economia di guerra? O te lo requisiscono? Che dite, lo faccio sparire? Perché avevo una mezza intenzione di andarmelo a bere in giardino, ma considerando la tendenza a ficcanasare dei miei vicini...figurati se quelli non spifferano tutto...che rimanga tra noi comunque eh...i biscotti del discount li passa il comando generale? Questo me lo requisiscono di sicuro: . . The Curtis Counce Group Vol. 2 – You Get More Bounce With Curtis Counce – Contemporary Records (1957) – AAA Craft Records (2022) Recensione alla veloce che non abbiamo tempo da perdere (o meglio io ne avrei ma voi no, perché siete gente operosa e lavoratrice): questo disco ha venduto più per la musica o per la copertina? La copertina è un po’…come dire…ecco, avete capito. Curtis Counce, contrabbassista, in effetti…è ancora vivo. E questo per un jazzista dell’epoca d’oro è un traguardo davvero ragguardevole. Nel Gennaio 2025 ha compiuto 99 anni. Auguri Mr. Counce! Non si può dire che sia un contrabbassista jazz particolarmente noto, tuttavia vanta molte collaborazioni ai più alti livelli. “Avrai ancora più slancio con Curtis Counce!”…sarebbe il titolo del disco. Gioca sulla rima “Bounce” (slancio) e Counce. Forse lo slancio serviva per conquistare la dama in copertina? Non lo sapremo mai. Si da il caso che You Get More Bounce With Curtis Counce sia uno dei primi dischi Jazz che abbia comperato in vita mia. Pertanto lo conosco molto bene e mi è sempre piaciuto. Ciò non di meno mi sono ritrovato sovente a pensare che Curtis Counce non fosse un genio del contrabbasso, bravino ma nulla di più. Curtis Counce da Kansas City fece il suo apprendistato nell’orchestra di Stan Kenton, e si sente, per poi passare al gruppo di Lester Young. Studiò composizione ed arrangiamento, cui si dedicò con particolare passione. E’ uno di quei direttori d’orchestra e compositori, che suonavano anche uno strumento, sebbene quest’ultima attività non rappresentasse (evidentemente) il fulcro della loro attività artistica. Quando ascolti un jazzista della categoria di Curtis Counce, ti accorgi subito che il suo fine è quello di dirigere il gruppo, di guidarlo sia dal punto di vista della scrittura che degli arrangiamenti. You Get Bounce nel suo complesso acchiappa, vuoi per la morbida tromba di Jack Sheldon, così pastosa da sembrare un flicorno, vuoi per il bravo Carl Perkins al pianoforte, vuoi per il sassofono molto raffinato di Harold Land, che spesso assurge al ruolo di protagonista, con buona pace del contrabbassista titolare, la cui presenza è abbastanza defilata. Ora io eviterei volentieri di attaccare con la solita manfrina del disco audiophile registrato da paura, perché francamente…abbasta! Però me tocca, essendo di fronte a due registrazioni datate 1956 e 1957, vale a dire preistoriche. E questo povero disgraziato che vi scrive alla veloce, come fa a non tessere le lodi di una registrazione, anzi due, antichissime, che suonano da dare le allucinazioni? Sax e tromba ragazzi…sono lì davanti a voi. Non so se mi spiego… Non sorprende che all’inizio del ventunesimo secolo la Analogue Productions ne abbia licenziata una versione (introvabile) doppio 45 giri. Si è quasi obbligati a ristampare cose come You Get Bounce su doppio vinile 45 giri. Roy DuNann anche questa volta ha impresso il suo aureo sigillo, e Bernie Grundman ha completato l’opera. L’intesa tra i musicisti è orchestrale, vi è cioè una compattezza che è tipica dei collettivi. Il disco è piacevolissimo e snocciola quaranta minuti di ottimo Cool Jazz tra standard e brani originali dello stesso Counce. Uno di quei dischi che non deludono gli intenditori ed al contempo sono in grado di conquistare il cuore dei profani. Aggiungeteci che è stato registrato come nemmeno oggi capita tanto spesso, anzi mai, ed avrete sufficienti ragioni per acquistarlo. Quasi quasi ne compero un’altra copia da tenere lì. Così sarebbero tre, la vecchia copia semidistrutta OJC-Classic del 1984 (trovata in un mercatino molti lustri fa), e le due copie Craft. Sì, avete ragione, il Craft suona…diverso dall’OJC del 1984 stampa USA. L’OJC 1984 è più spettacolare e americano, più badaboooom (con tutto che è piuttosto rovinato). Il colpo di piatto all’inizio ti arriva alla gola come un fendente di katana. Se lo trovate (magari messo meglio del mio) comperatelo ad occhi chiusi. Di converso…massì mettiamoci un’espressione un po’ colta…di converso il Craft è più naturale, compassato e...svizzero. Mi sa che terrò entrambe le edizioni (anche perché a chi lo vendo l’OJC devastato del ’84?). Pagato 33 Euro sull’Amazon franciosa, inclusa la spedizione. Sia benedetta l’Amazon franciosa, che ancora è abbordabile (non si sa per quanto). Voto artistico : 9 ½ Voto tecnico: 10 + Voto alla copertina: ammazza quant’è bbona la signorina...c’ha tutto un suo carisma…intrinseco… Non so se avete notato che io possiedo la rarissima versione con copertina tridimensionale, realizzata da Craft apposta per me, in edizione limitata ad UN esemplare. Alberto. 1
Questo è un messaggio popolare. OTREBLA Inviato 3 Agosto Autore Questo è un messaggio popolare. Inviato 3 Agosto Tutti al mareee, tutti al mareee, a mostrar le chiappe chiareee...per la verità io ad Agosto lavoro..che tristezza… Passiamo senz’altro al te domenicale, versione estiva, accompagnato dal disco da recensire...cosa abbiamo qua? Thelonious Monk? Be’, voto 10 senza nemmeno ascoltarlo. Non serve ascoltarlo, è superfluo. O no? Clark Terry (with Thelonious Monk) – In Orbit - Riverside (1958) – AAA Craft Records (2024) . . Recensione alla veloce per chi preferisce i discorsi chiari e concisi, in particolar modo ad Agosto: il mio adorato Monk col freno a mano tirato…fa i miracoli? No, non li fa (e lo scrivo con enorme dispiacere). Una delle tante sciocchezze che vennero dette a proposito di Thelonious Monk è che non sapesse accompagnare, causa la sua ipertrofica personalità pianistica. In Orbit è la dimostrazione che se Monk doveva limitarsi ad accompagnare lo sapeva fare in maniera inappuntabile, con discrezione, coerenza ed immensa classe. Il quartetto di In Orbit include la star del contrabbasso Sam Jones, che a tempo debito piomba come un Cheyenne sui colleghi e spara primizie di assoli al fulmicotone, mentre le improvvisazioni molto Bop di Clark Terry (al flicorno), dolci e suadenti, conservano un ruolo predominante. Quando però la palla passa a Monk, il poco tempo a sua disposizione gli basta per demolire completamente l’impalcatura piuttosto ortodossa poc’anzi impressa da Terry e conferire al pezzo tutt’altri connotati. In quei brevi momenti le lancette dell’orologio fanno un balzo in avanti ed il pianista fagocita il gruppo, lo rimodella e lo piazza di bel nuovo sulla scena, col suo marchio a fuoco impresso in fronte. Gli serve giusto un niente per disintegrare ogni precedente proposito e cambiare completamente le carte in tavola. Esiste uno stacco enorme tra le composizioni piuttosto canoniche di Clark Terry e l’unico brano di Monk in scaletta, Let’s Cool One, che per quasi cinque minuti ci spedisce direttamente ai confini della galassia. Ciò non di meno si tratta di eccezioni poiché in In Orbit è la personalità di Clark Terry ad emergere, non quella di Monk, che per lo più si limita ad accompagnare. In Orbit è molto curato negli arrangiamenti, con diverse occasioni in cui il ruolo della batteria di Philly Joe Jones diviene centrale. Un trio di grandi nomi del Jazz, più il genio sovrumano, per cui il risultato non può che essere di primissimo livello. Non sarà un capolavoro, non lo è sicuramente, ma è un gran bel disco. Voto artistico 9 1/2 Voto tecnico… Voto tecnico eh...volete che dia un voto tecnico...mi lanciate questa sfida…? Mah…vi dirò…cominciamo col dire che è Mono…batteria là in fondo, basso un po’ confusetto, flicorno leggermente velato, immagine compatta al centro, bella avanti (tranne la batteria) come nei vecchi 78 giri; insomma l’ingegnere del suono Jack Higgins ha fatto un lavoro senz’altro buono, ma non siamo ai livelli di certi Mono anni ‘50 che santiddio! suonano da pazzi e meglio degli stereo registrati quindici anni più tardi. Direi che il voto tecnico è nove...facciamo 9 +. Vinile RTI con qualche rumorino sparso. Questi RTI eh…non è più la RTI di una volta! Si stava meglio quando si stava meglio, e voialtri tutti compravate solo i CD-DVDAudio-SACD ed i dischi neri audiophile erano una faccenda di noi pochi del giro della massoneria segreta del Grande Oriente Del Padellone. Poi siete arrivati voi…ma chi vi ha chiamati dico io? Qualcuno ha infranto il voto di omertà, io però so chi è stato…e lo curo… Pagato una mezza fiche su IBS (33 Euro), con lo sconto “Grande Oriente Del Padellone” concesso soltanto a me che sono il Luminoso Maestro Padelloniere, dotato di potere di vita e di morte sugli adepti. Ogni venti lune è difatti prevista la cerimonia delle diciannove lune (‘sta cosa io non l’ho mai capita, ma vai a discutere lo Statuto!), ed il conseguente sacrificio umano (altrimenti la cerimonia non è valida e poi i soci questionano); si mette al rogo un digitalista, che lo voglia o no (di solito frigna e fa un mucchio di storie). La pira è costituita da cataste di CD, che costano meno dei pallet presi al mercato ortofrutticolo (com’è giusto che sia) e poi si fa tutti gran festa, con danze, baccanali e libagioni; nonché avvenenti professioniste, tutt’altro che vestite. Cosa volete che vi dica, noi del Grande Oriente Del Padellone siamo analogici anche nello spasso. Alberto. 3
Questo è un messaggio popolare. OTREBLA Inviato 31 Agosto Autore Questo è un messaggio popolare. Inviato 31 Agosto Ultimo giorno di Agosto e temperatura qui nel South-Svizzera molto gradevole dopo i consueti temporali di fine Agosto, per cui il tè domenicale non disturba e va giù che è una delizia. Qualcuno ha detto che il Jazz è la Musica Classica del ventesimo secolo, il disco a seguire conferma questa teoria. Thelonious Monk - Thelonious Himself – Riverside (1957) – AAA Craft Records (2024) Gli appassionati di Jazz hanno questo di vantaggio, mangiano sempre bene. Come sempre con i dischi di Monk cercherò di farla molto breve, giacché percepisco una certa inadeguatezza da parte mia. Ognuno ha i suoi limiti. Recensione alla veloce che vale anche come recensione alla lunga: comperatelo e cercate di capirci qualcosa. Non sarà tempo perso. Lato tecnico: pianoforte di tutto rispetto, forse un po’ secco, ma completo di armonici. Registrazione monofonica, tuttavia, essendovi soltanto il pianoforte, non si nota. Nell’ultimo brano si aggiungono il sax di John Coltrane, ottimamente ripreso, e le rare punteggiature del contrabbasso di Wilbur Ware. Vinile RTI con qualche crick di troppo sul Lato A, (in Functional). Una cosa è certa, Thelonious Himself è tostissimo. Voto tecnico: 9 ½ La recensione è finita. Adesso posso divagare (a mio bell'agio). . . Thelonious Himself include una delle più riuscite interpretazioni del celebre brano ‘Round Midnight. Il grande genio lo riscrive come se non lo avesse mai visto in vita sua e ne fa un poema sonoro. Suonandolo durante le prove e restando bloccato intorno ad alcuni passaggi, Monk esclamò: “Non ci riesco…dovrò studiarlo meglio”. Notare che lo aveva suonato non so quante volte prima di allora. In Thelonious Himself il pianista è al di là della musica contemporanea. Al di là del Free-Jazz, nei confronti del quale Monk si dimostrava piuttosto indifferente, convinto, giustamente, di essersi spinto oltre molti anni prima che il Free facesse la sua comparsa. Tutti i pezzi vengono presentati in forma di ballad. Tre brani originali e cinque standard. Lo sviluppo è particolarmente contorto, le pause si susseguono, le note tenute interrompono il flusso, crollano le cadenze in maniera improvvisa, la sospensione è un’ellissi continua, come se il pianista avesse dimenticato le note da suonare. A quasi ottant’anni di distanza Thelonious Himself è probabilmente più futuristico di quanto non lo fosse nel 1957. Si percepisce chiaramente l’influenza di Claude Debussy, da cui Monk traeva ispirazione, si sente lo Swing, ma il risultato è chiaramente qualcosa di alieno. Difficile? Molto difficile. Direi trascendentale, o meglio, ascendentale. E’ il più difficile dei dischi di Monk in solo. Decisamente più amichevoli Solo Monk (Columbia 1965) e Thelonious Alone In San Francisco (Riverside 1959), che consiglio caldamente per la sua estrema bellezza universale. Thelonious Monk amava suonare in solo e pretendeva di inserire un brano per pianoforte solo in qualunque sua registrazione. Dopo aver ascoltato la take di Functional, secondo pezzo del lato A, Monk esclamò: “L’ho suonato come James P. Johnson”. E giù tutti a ridere! James P. Johnson e Monk non si assomigliavano per niente. Poveretti i contemporanei che non avevano capito un tubo. Monk intendeva dire che aveva approcciato il pezzo con le stesse dissonanze tipiche dello Stride più virtuosistico, ma Monk non dava spiegazioni di questo tipo, si aspettava che i musicisti ed i professionisti della musica le cogliessero da soli. A Monk piaceva il modo in cui John Coltrane suonava Monk’s Mood pertanto gli chiese di registrare il pezzo, che chiude il Lato B ed è l’unico brano non in solo. In Monk’s Mood in effetti Coltrane è estremamente d’avanguardia e pare proprio possedere il pezzo, che è completamente nelle sue mani. Il sassofonista andava a trovare Monk nella Sessantatreesima Ovest, per prendere un po’ di lezioni di Jazz, e se Monk dormiva lo svegliava. Il pianista pretendeva di suonare senza lo spartito; soltanto quando capiva che l’allievo non era in grado di proseguire tirava fuori da un suo nascondiglio le carte perfettamente annotate e gliele mostrava per qualche istante. Secondo Monk suonare senza lo spartito avrebbe sviluppato la comprensione più intima della struttura del brano. Fu Orrin Keepnews, presidente della Riverside Records, a chiedere a Monk un disco per pianoforte solo. Keepnews pensava che ne sarebbe scaturito un capolavoro. Avrà avuto ragione? Voto artistico: seeee figuriamoci... Pagato 30 Euro su Amazon.fr perché su Amazon.it costava DIECI VOLTE TANTO! Alberto. 3
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