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Melius Club

Un Legnetto In Una Cascata: Hampton Hawes


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Inviato

 

UN LEGNETTO IN UNA CASCATA: HAMPTON HAWES
Parte Quarta:

Il Grande 8


Alla 289esima Hampton si trova molto bene, usufruisce di un permesso d’uscita permanente, purché sia presente al contrappello serale. Con cinque dollari può pagare qualcuno che risponda in sua vece ed alcune sere non sono presenti più di 35 soldati a rispondere per conto di altri 175...assenti.
Viene messo a capo della banda militare, all’interno della quale tutti i componenti gli sono superiori di grado. La cosa stride in maniera assurda, infatti di lì a poco è promosso a specialista di 1° grado.
Comincia a comportarsi in modo stravagante, per via del fatto che è quasi sempre sotto l’influenza degli stupefacenti. I superiori si passano la voce di non badare troppo alle sue stranezze, ma la moglie Jackie, telefonando a nome del marito al comando generale e lamentandosi di non aver ricevuto parecchi stipendi arretrati, lo inguaia definitivamente. Hampton risulta ancora disertore.
Una volta per tutte si mette ordine alle sue carte di servizio, il che è un bene; al contempo la polizia militare prende finalmente atto del soggetto, il che si rivelerà un male. Si procede con celerità all’accredito degli stipendi arretrati, ma da quel momento Hampton finisce sotto la lente della sezione investigativa.

Che non lo molla più.

Riesce miracolosamente a sfuggire, arrampicandosi sul tetto, ad una perquisizione della squadra antidroga in un bordello di Yokohama. Il suo destino è segnato, ormai è soltanto questione di tempo.

Qualche giorno dopo viene convocato presso il tribunale militare. Si da malato e lo curano con una dose da cavallo del solito Demerol. Compare davanti al giudice di lì a breve; veloce consulto tra avvocato e giudice, il legale gli si avvicina e lo tranquillizza: è tutto apposto, è tutto sistemato.

Espulso dall’esercito, più un anno di prigione.
Prego? E cos’è che sarebbe sistemato? Almeno si può fare ricorso?
Non scherzare ragazzino!
Per qualche ignoto motivo nessuno pensa di chiuderlo in cella, e si trova libero di andare dove gli pare all’interno della caserma. L’organizzazione militare, vai a capirci qualcosa! Per giunta qualcuno commette il grave errore di firmargli un permesso d’uscita. Come sia possibile che ad un tizio espulso dall’esercito e condannato ad un anno di prigione venga firmato un permesso d’uscita nessuno lo sa, tanto meno Hampton, il quale prende la palla al balzo, salta sulla prima motocicletta in uscita per motivi di servizio e parte in direzione Yokohama.
Sparisce per circa un mese. Nel frattempo è classificato come fuggitivo e l’ordine è quello di sparargli a vista.
Una sera la polizia militare fa irruzione all’Harlem Club, mentre Hampton si trova al piano di sopra; prima di mettere in atto il collaudato sistema di scappare per i tetti, ruba la macchina fotografica che si trova incustodita nell’ufficio del proprietario Ray Bass; a quanto pare le macchine fotografiche all’epoca erano oggetti molto smerciabili. In seguito riesce a procurarsi di che vivere vendendosi la fede nuziale.
Trova rifugio in una vecchia imbarcazione abbandonata a riva, fatiscente e tutta scassata.

Un ragazzino lo scopre e cerca di persuaderlo a lasciare quel rudere, per la sua sicurezza. Hampton fatica non poco a spiegargli che non si deve dare pena per lui e che negli Stati Uniti ai neri non è riservata sorte migliore. Tuttavia una mattina decide che ha diritto ad un po’ di svago e che è giunto il momento di farsi una partitina a flipper in un bar del centro; non fa in tempo a lanciare l’ultima pallina che è già in manette. Prima di ricevere i braccialetti ai polsi, Hampton esamina il graduato che lo sta arrestando, un giapponese in forza alla Polizia Militare; inizia a farsi un certo calcolo di pesi e masse.

Il tipo ha fatto ingresso nel Bar da solo: bassettino, mingherlino...il pianista è convinto di poterlo sopraffare agevolmente ma mentre si accinge a saltargli addosso, rammenta che tutti gli uomini giapponesi vengono educati, sin da piccoli, all’arte dello Jujitsu. Decide quindi che è meglio non rischiare di farsi umiliare in pubblico.
La sua prima destinazione è il carcere di Tokyo, da lì è trasferito in California, nel carcere di Lompoc chiamato “Il Grande 8”; qui apprende che il suo vecchio superiore che a Camp Drake lo spediva nelle camerate a rubare le macchine fotografiche, dopo aver radunato centinaia di soldati sul piazzale, ha da poco terminato di scontare una condanna nella medesima struttura, e per tutto il tempo della detenzione non ha fatto altro che parlare di lui, decantandone le lodi.
Il pianista non racconta nulla di quell’anno rinchiuso nel Grande 8, se non il fatto che ad un certo punto giunse il giorno della scarcerazione. La moglie Jackie lo va a prendere con la nuova Chevrolet; è il Febbraio 1955, Hampton ha compiuto 26 anni. Dall’autoradio ascolta per la prima volta la voce modulata di una cantante di cui non ha mai sentito parlare e che si chiama Eartha Kitt (a proposito di Eartha Kitt, vi aspetto sul thread “Lo Stato Del Vinile”).
Dopo un mese di completo riposo, finalmente decide di andare a trovare Wardell Gray al California Club di Santa Barbara. Gray si era sempre comportato da fratello maggiore con i giovani musicisti Jazz, mettendoli in guardia dai pericoli della droga, Hampton pertanto rimane sbigottito nello scoprire che il suo vecchio amico è diventato tossicodipendente. Mentre conversano, siamo alla metà del mese di Marzo 1955, il sassofonista è chiamato al telefono. Al ritorno mostra una strana agitazione: “Mi hanno appena comunicato che Charlie Parker è morto nell’appartamento della baronessa Nica De Koenigswarter”.

Bird si era rifugiato nella droga per la rabbia di non poter tollerare le discriminazioni razziali.

“Dovrebbero fargli un monumento, è stato un pioniere ed il padre di tutti noi”, scriverà Hampton, “Pensiamo di essere immortali, una razza superiore, e invece siamo come tutti gli altri, venti minuti di esistenza, dopodiché…tanti saluti”.

 

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Inviato

 

UN LEGNETTO IN UNA CASCATA: HAMPTON HAWES
Parte Quinta:

Il Monaco E La Santa


Ritroviamo l’ex galeotto, intenzionato a tornare sulle scene, dirigersi verso l’ufficio dell’impresario Dick Bok, alla Discovery Records; mentre è in cammino incontra un suo ammiratore, il batterista Shelly Manne, che lo dirotta alla Contemporary Records, dove gli presenta il presidente Lester Koenig.

Firma così un contratto in esclusiva con Koenig.
Nei giorni seguenti mette assieme un trio con Red Mitchell al contrabbasso e Mel Lewis alla batteria. Il primo ingaggio è al club The Haig ed in seguito si spostano al Tiffany, sull’Ottava Strada, sempre a Hollywood. Una sera, durante la pausa tra un set e l’altro, mentre Hampton è seduto al bar, gli si avvicina un gigante grande due volte lui, allegro e gioviale; costui gli fa mille complimenti: “Mi chiamo Oscar Peterson e vengo dal Canada”.
Peterson lo presenta al manager Billy Shaw, che ha già sotto contratto, oltre al canadese, Dizzy Gillespie, Miles Davis e Stan Getz. Shaw non ha mai sentito parlare di Hampton Hawes ma si fida di Oscar Peterson, che ne è entusiasta; Hampton firma un contratto con Shaw e stringe una solida amicizia con quell’omone venuto dal Canada.

Tramite Billy Shaw il trio ottiene un ingaggio a Cleveland. La consegna di Shaw per Hampton è presto detta: “Suona, sorridi e tieni la bocca chiusa”.
Prima di salire sull’aereo apprende che il corpo senza vita di Wardell Gray è stato abbandonato nel deserto del Nevada. Nessuno saprà mai chi lo abbia scaricato lì, con il collo spezzato. Gray soggiornava a Las Vegas per una serie di concerti con l’orchestra di Benny Carter. Muore a soli trentaquattro anni un promettente sassofonista, uomo colto che leggeva i filosofi francesi ed era politicamente impegnato; con la sua scomparsa Hampton perde una guida morale ed un fratello.
I concerti a Cleveland registrano il tutto esaurito ed il primo album pubblicato per la Contemporary Records (Hampton Hawes Trio Vol.1) riceve critiche lusinghiere (te credo, è un capolavoro…quand’è che lo ristampate come si deve, zucconi!).

A Filadelfia il successo si rinnova. Il trio è invitato a cena dai Brown: Clifford, giovane e talentuoso trombettista sulla bocca di tutti, suo fratello Richie (pianista) e Nancy, moglie di Richie; all’ora convenuta Hampton non si fa vedere, avendo esagerato con la dose giornaliera di eroina, che lo ha messo fuori combattimento.

Il giorno seguente Clifford Brown, Richie Brown e la moglie Nancy partono in macchina per Detroit; è una giornata piovosa, al volante c’è Nancy; a poche miglia da Filadelfia l’automobile esce di strada e i tre perdono la vita nell’incidente che ne segue.

Hampton, che comincia ad assuefarsi al pensiero della morte, riceve la triste notizia quasi con indifferenza.

Prima di lasciare Filadelfia, seduta al bar dell’aeroporto ritrova una vecchia amica, Billie Holliday.
Hanno una breve conversazione piena di nostalgia e sarà l’ultima volta che vedrà la cantante.

Si sposta a New York per esibirsi in un club esclusivo, ove il servizio prevede posateria in argento massiccio.
Il figlio del Sevener divide il palcoscenico con la cantante Rose Murphy, del cui complesso fa parte il bassista Slam Stewart, il quale ha con sé una delle prime tastiere elettroniche, la Solovox della Hammond.
Hampton vorrebbe provarla ma Stewart è categorico: “Non la lascerei toccare nemmeno ad Art Tatum, che è il più grande pianista al mondo”. Una voce dietro di loro esclama: “Art Tatum non è il più grande pianista al mondo; Hampton, prova pure quella scatola se vuoi”.
Hampton si gira e scorge seduto ad un tavolo una specie di re africano, il più nero tra i neri che abbia mai visto, sul naso occhiali da sole in bambù ed in mano un bastone da passeggio sempre in bambù: “Possente e bellissimo, era Thelonious Monk”.
Il quale si trova in compagnia di una dama non più giovane, che nei modi e nell’abbigliamento denuncia il suo alto stato sociale: “Hampton, ti presento la baronessa Nica Rothschild De Koenigswarter”.

A fine serata viene ospitato nell’attico della baronessa e cammina in quello stesso salone dove un anno prima era morto Charlie Parker. La baronessa Pannonica, che disponeva di un tavolo fisso in tutti i jazz club di New York, si prodigava instancabilmente per i musicisti Jazz, soprattutto per quelli di colore, presi di mira da Polizia ed altre istituzioni di controllo. Donava somme di denaro a chi si trovava in difficoltà, provvedeva a che i malati ricevessero le cure necessarie; interveniva tramite i suoi legali perché la famosa Cabaret Card fosse restituita a coloro ai quali, per i più disparati e spesso pretestuosi motivi, era stata ritirata. La Cabaret Card equivaleva ad una sorta di schedatura obbligatoria, cui dovevano sottostare musicisti, cantanti ed altri professionisti dello spettacolo; Frank Sinatra rifiutò per anni ogni invito ad esibirsi nella Grande Mela, proprio a causa della Cabaret Card.
Pannonica forniva inoltre un servizio di recupero per chiunque si trovasse in difficoltà. Bastava chiamare un certo numero di telefono ed un taxi passava a prelevarti. Hampton scriverà che senza Pannonica la storia del Jazz avrebbe avuto un altro corso; Nica era più che una mecenate, era una santa protettrice.

Hampton, Nica e Monk iniziano a frequentarsi e stringono una forte amicizia. Se Wardell Gray fu un fratello, Monk per Hampton fu un padre.
E’ un periodo felice, il pubblico lo adora, i critici musicali ne sono entusiasti, il denaro non manca.
Ma stiamo sempre parlando di Hampton Hawes, potrà mai filargli tutto liscio? Potrà mai evitare di finire in qualche grosso pasticcio?

Alberto.

 

Inviato

 

UN LEGNETTO IN UNA CASCATA: HAMPTON HAWES
Parte Sesta:

Interludio Con Bela Lugosi


Il tour organizzato dall’impresario Billy Show sembra non finire mai: Boston, Pittsburgh, Buffalo, Rochester, Toronto, Detroit, New York, Chicago, ecc.
Nella città di Rochester il gruppo perde il batterista Chuck Thompson, tossicodipendente, che viene ricoverato in ospedale dopo un improvviso malore. I suoi compagni lo abbandonano lì, in un lettino di reparto, con addosso soltanto un accappatoio bianco.
Anche la salute di Hampton va peggiorando di giorno in giorno.

Non prova più nemmeno il piacere del successo di pubblico. Jackie consulta un medico che finalmente gli prescrive il Metadone; ma c’è un problema, le pillole di Metadone non si trovano facilmente e bisogna acquistarle dagli stessi spacciatori di eroina, i quali spingono il cliente verso il prodotto più redditizio, che non è il Metadone.
A New York Hampton getta la spugna: non è più in grado di esibirsi. In realtà non è più in grado di fare niente. E’ curioso che quest’uomo, perennemente intossicato di droga, non tolleri la minima sporcizia, compaia davanti agli altri sempre perfettamente in ordine, pettinato e laccato, fresco di bucato ed elegante; che prima di ogni esibizione si lavi accuratamente le mani e pulisca meticolosamente, fino a farla brillare, la tastiera del pianoforte.
Hampton è costretto a sciogliere il gruppo e torna in treno Los Angeles, con Jackie.
Mentre passa un periodo di riposo nella sua città natale, viene avvicinato da Sam Sax, all’epoca celebre insegnante di pianoforte, che lo ha ascoltato e gli offre di dargli qualche lezione per migliorare la diteggiatura. Hampton dimostra interessamento e si presenta a casa di Sax, pronto per ricevere la sua lezione. Suonano a quattro mani, in seguito Sax lascia il posto alla figlia, anch’ella insegnante di pianoforte. Prima di congedarsi Hampton firma un assegno di 12 dollari, quale compenso per la lezione ricevuta.

Anni dopo la moglie di Sax gli confesserà di non aver mai incassato l’assegno, che invece è stato incorniciato ed appeso nell’ufficio del marito.
Fortuna che è andata così, scrive Hampton, se lo avesse incassato avrebbe scoperto che non era coperto.
Quella di Sax è la prima e ultima lezione di pianoforte che Hampton Hawes prenderà in tutta la vita.
L’anno 1956 lo vede costantemente sotto l’influsso dell’eroina e senza un soldo in tasca.
Pensa di potersi liberare della dipendenza, ma non fa nulla per liberarsene.
Nonostante ciò Jackie gli rimane fedele e cerca come può di salvare il marito dal peggio.

Questa donna sopporta ogni cosa con raro stoicismo, comprendendo che Hampton non ha la forza di cambiare il proprio destino. Ha lasciato l’impiego in banca ed ora insegna in una scuola, guadagnando per entrambi.
Una sera, mentre si esibisce al Tiffany Club assieme a Stan Getz, Hampton Hawes riceve la più importante e secondo me dovuta soddisfazione professionale della sua vita. Dalle ombre del locale, come Bela Lugosi nel film Dracula, appare inaspettatamente il “più grande pianista della storia del Jazz”; perlomeno a giudizio di tutti tranne che di Thelonious Monk (il che, considerando che è Monk, ci sta pure…).
“Sono venuto per ascoltare te” gli dice l’uomo.
Hampton non crede ai suoi occhi.
Art Tatum è lì per ascoltare…lui!

Alla fine del concerto Tatum lo avvicina di nuovo: “Figliolo, sei un grande”.
I miei personali complimenti Mr. Tatum…ehm…postumi; con questo giudizio mi conferma che lei è stato davvero una della più importanti personalità pianistiche della storia del Jazz, cosa che d’altronde già sapevo. (Nota del traduttore, che va pazzo per Art Tatum).

Hampton, volendo essere onesto con sé stesso, considera il suo pianismo in maniera molto tiepida, senza eccessivo entusiasmo e con una buona dose di modestia.
Il complimento di quello che lui reputa il re dei pianisti jazz, lo fa uscire di testa. Come se non bastasse Art Tatum lo invita a casa sua per una delle settimane seguenti. Purtroppo qualche giorno dopo, il 5 Novembre 1956, prima che Hampton possa fargli visita, Art Tatum muore.

Alla fine dell’anno ad Hampton Hawes viene assegnato il premio della critica dalla rivista Down Beat.
La salute continua a peggiorare e fosche nubi si delineano all’orizzonte: Vince è in agguato da dietro la porta.
Per Hampton è arrivato il momento di fare i conti con il suo principale nemico: sé stesso.

 

Inviato

 

UN LEGNETTO IN UNA CASCATA: HAMPTON HAWES
Parte Settima:

Un Messicano Di Nome Vince

 

 

Ormai incapace di esibirsi in pubblico, Hampton decide di ricoverarsi volontariamente in una struttura per il recupero dei tossicodipendenti, collocata a Fort Worth (Texas). Dovrebbe restarci per almeno tre mesi ma dopo una settimana toglie il disturbo. Tornato a Los Angeles accetta la proposta di nuovi concerti, tuttavia giunto a Washington deve nuovamente darsi per vinto. Infine si dirige a New York dove accetta di dividere una stanza d’albergo con il pianista Sonny Clark.

Nella Grande Mela Hampton si limita a bighellonare per Central Park, Birdland ed Harlem.
Una mattina incontra un contrabbassista suo ammiratore, col quale non è consigliabile fare tanto i furbi; si chiama Charles Mingus.
Il grande musicista rimprovera aspramente il grande musicista: “Hai troppo talento per finire nello scarico del lavandino”.
Mingus gli offre di partecipare alla registrazione del suo nuovo disco ed Hampton accetta. Anche perché ha un bisogno disperato di denaro.
Per la prima volta in vita sua conosce la fame: deve scegliere se impiegare i pochi soldi guadagnati nell’acquisto della droga o del cibo.

Fa coppia fissa con il pianista Sonny Clark e per via dei continui raggiri che i due organizzano si guadagnano il soprannome di “Gemelli Della Polvere D’Oro”; non è un nomignolo di cui andare fieri, tant’è che la gente quando li vede cambia strada.
Una notte, mentre si trova abbandonato su una panchina in Central Park, viene recuperato da Nica De Koenigswarter e Thelonious Monk, che fanno la ronda sulla Bentley della baronessa.

Lo portano a casa di Monk, dove viene immerso in una vasca di acqua calda e rifocillato. Dopodiché si ritrova davanti ad una sorta di mini esercito della salvezza: Monk, la baronessa Nica e Sonny Rollins, unitosi alla compagnia: “Tu sei una figura fondamentale della musica Jazz; o ti rimetti insieme o per te sarà morte certa”. Gli dicono la stessa identica cosa che gli ha detto Charles Mingus: “Sei troppo importante per fotterti in questa maniera”.
Sì, hanno ragione, non può più continuare così, giura che cambierà.
Due notti dopo è ancora parcheggiato sulla stessa panchina in Central Park.
Infine, con l’aiuto di Jackie, Oscar Peterson e Nesuhi Ertegun (vice-presidente della Atlantic Records) torna nel reparto tossicodipendenti dell’ospedale di Fort Worth, in Texas.
Prima di partire saluta un’ultima volta l’amico Sonny Clark, che non rivedrà mai più.
Di nuovo il periodo di ricovero non è sufficientemente lungo da consentirgli di disintossicarsi del tutto.

E’ l’Estate del 1958, Hampton suona allo Sherry, un famoso locale newyorkese. Il gruppo include un bassista, di cui non è noto il nome. A costui vende qualche dose di eroina e col ricavato si procura la dose quotidiana.
E’ diventato un piccolo spacciatore; sfortunatamente il nostro eroe ignora che il bassista è anche un informatore della polizia.

Tornato a Los Angeles Hampton stringe amicizia con un messicano, certo Vince, che vuole diventare musicista Jazz e gli chiede consigli. I due si frequentano regolarmente. Vince è la persona più gentile e disponibile del mondo, ma Hampton non sa che l’apparentemente innocuo messicano è in realtà un agente federale sotto copertura.
Tempo un mese e Vince lo va a prelevare in macchina, con altri due agenti, grossi come armadi; gli puntano una calibro 38 alla testa e lo portano alla prigione di Glendale, dove viene registrato sotto falso nome; si tratta di una procedura standard, il cui scopo è quello di persuadere il reo a fare i nomi dei propri fornitori e complici. Lui però tiene la bocca chiusa. Si decide pertanto di trasferirlo alla prigione della contea, a Los Angeles; questa volta nei registri compare con il suo vero nome. L’accusa è di spaccio: rischia vent’anni di carcere.

Dorme sul freddo pavimento in cemento di una cella stipata di gente e si ammala.

Nel frattempo la moglie Jackie riceve il premio All Star Jazz Pool, assegnato al marito.
Ma ormai è tardi.

Lo stato della California contro Hampton Hawes: colpevole.

Il famoso e premiato pianista Hampton Hawes viene condannato a dieci anni di carcere.

Ha compiuto il suo trentesimo anno di età e per lui i giochi sono davvero chiusi.

 

Inviato

 

UN LEGNETTO IN UNA CASCATA: HAMPTON HAWES
Parte Ottava:

                                                                            Il Matto (Al Circo)

Dieci giorni dopo la pronuncia della sentenza, il nostro grande musicista viene condotto di fronte ad un altro giudice che si sta occupando di un caso collegato al suo. Si tratta di testimoniare contro un grosso fornitore di eroina. Il magistrato gli offre l’immunità.
“Lei non può offrirmi alcuna immunità, io sono già stato condannato a dieci anni di carcere. Vuole che tradisca i miei fratelli? Si fotta lei, l’FBI e il Dipartimento Del Tesoro!”.

Altri due anni di carcere da sommare in via simultanea. Fortunatamente per lui. Questa formula giuridica indica che gli anni in più non si aggiungono a quelli già previsti ma, come dire, si possano sovrapporre, senza che ciò comporti l’aumento del periodo già assegnato, purché il condannato rispetti la buona condotta. In caso contrario verranno sommati alla condanna già comminata.
Jackie, presente all’udienza, non riesce a credere che il marito abbia mandato a farsi fottere il giudice; fa per rimproverarlo ed Hampton manda a farsi fottere pure lei.
Il poliziotto che lo riaccompagna in cella osserva: “Sei a dir poco uno stupido, però riconosco che hai un gran fegato”.
Trascorsi sette mesi di prigionia viene trasferito assieme ad un gruppo di altri detenuti all’ospedale/prigione di Fort Worth, una struttura che lui già conosce e dove più che un prigioniero sei un paziente. Poca vigilanza, poco armata. Esattamente come in caserma, anche in carcere le cose avvengono senza che via sia una logica a guidarle. Lo scopo di inviarlo a Fort Worth è quello di disintossicarlo ma dopo aver scontato sette mesi di pena, senza mai farsi, Hampton è già bello che disintossicato.
Quel che Hampton non sa è che i medici hanno iniziato a considerarlo non solo dal punto di vista della dipendenza dall’eroina, ma anche sotto il profilo psichiatrico; ed a trattarlo di conseguenza. Ne ha combinate troppe per essere reputato del tutto sano di mente e del resto il suo fascicolo è diventato una specie di enciclopedia delle pazzie.
In ogni caso i medici decidono di lasciare al paziente un po’ di libertà d’azione, se darà troppo di matto si farà sempre in tempo a rinchiuderlo.
Così Hampton organizza un concerto con altri pazienti-detenuti, approfittando del fatto che all’interno dell’ospedale c’è un vecchio pianoforte Steinway.
Il suo reparto si riempie di gente fino a scoppiare, ci sono praticamente tutti: pazienti, medici, infermieri e finanche alcune guardie. Sempre la solita storia: come mette le mani sul pianoforte il mondo è ai suoi piedi.
Il 4 Giugno 1959 scrive al Procuratore Generale per chiedere informazioni su come abbreviare la pena. Di lì a breve giunge la risposta; il tono è compito e cordiale: “Ragazzo, fai il favore di non rompere le palle”.
Una settimana dopo viene a sapere che la sua amica Billie Holiday è morta in una camera d’ospedale, piantonata dalla polizia.
In effetti, riflette Hampton, Billie Holiday non può morire realmente, una stella come Billie è destinata a brillare per sempre (e difatti è andata proprio così).
Passano le settimane ed i superiori decidono di affidargli una mansione: deve pulire le camerate dalle 10 della sera fino alle quattro del mattino, con pausa di mezzora per il “pranzo”. Il pranzo s’intende…alle due di notte.
E’ più una punizione che un incarico ed è evidente lo scopo del medesimo: metterlo alla prova ed osservare come regge lo stress. Contro ogni aspettativa Hampton svolge con diligenza il compito assegnatogli, senza mai sgarrare.
Vista la buona volontà è spostato ad un lavoro meno scomodo e soprattutto che si svolge di giorno: gestione ed inventario della sala musica e degli strumenti ivi conservati.
Inizia ad essere benvoluto sia dai medici che dalle guardie e dai pazienti, che si confidano con lui. Capita che il tizio gli confessi la propria omosessualità e gli chieda consigli su come comportarsi. Nemmeno fosse uno dei molti psicologi in forza all’ospedale-prigione.
Giunge il Gennaio 1960, la moglie Jackie gli scrive che è venuto a mancare il suo maestro di pianoforte, colui che gli diede quella famosa unica lezione; Sam Sax, prima di spirare, ha espresso il desiderio che gli siano riportate le seguenti parole: “Hampton, sei il più grande. Vado a suonare con gli angeli”.

Jackie si reca a trovarlo in carcere ed Hampton la spinge a cercarsi un altro compagno. Che senso ha sprecare dieci anni in attesa che lui esca di lì?
La donna in effetti si legherà per un certo periodo di tempo ad un altro uomo, ma non vorrà mai divorziare.
L’unico altro familiare che va a fargli visita (una sola volta) è la sorella Edith.

Successivamente scrive al padre una lettera piena di rimproveri verso sé stesso, pregandolo di non considerarsi responsabile in alcun modo del suo triste destino. La famiglia non deve sentirsi in colpa di nulla.
Il Sevener gli risponde che la madre ha avuto un infarto, ma si è ripresa è sta bene.

Torno a ripetere che a me ‘sto prete fa morir dal ridere. Ma come, tuo figlio ti scrive una lettera con la quale ti solleva da ogni responsabilità nei suoi confronti, e tu gli rispondi che la madre ha avuto un infarto ma che ora sta bene? Come se già non stesse pagando per i suoi errori?
Capisco che ti sei ritrovato un figlio un po’ disgraziato, che ha gettato la vergogna sull’intera famiglia, ma insomma, ormai è chiuso in carcere, non può andare da nessuna parte per i prossimi dieci anni; è già abbastanza depresso, e tu lo deprimi ancora di più, suscitandogli ulteriori ed inutili sensi di colpa? Non dovresti essere, quale sacerdote, predisposto al perdono ed alla compassione? Boh…che uomo strano ‘sto prete.
L’umore del prigioniero, com’era prevedibile, si fa sempre più cupo; a parte il vuoto che ha di fronte, è consapevole che non tornerà libero prima del 1969, nella migliore delle ipotesi; la giovinezza bella che andata e tristi prospettive di un mondo completamente diverso da quello che lui ha conosciuto. Ricominciare da capo a quel punto sarà davvero difficile.
Durante il suo secondo Natale a Fort Worth avrà tuttavia modo di rinfrancarsi. L’ospedale-prigione organizza uno spettacolo con gli artisti del circo Ringling , che all’epoca faceva diretta concorrenza al celeberrimo Barnum; dato che il pianista titolare non si è presentato, il nostro eroe è chiamato a sostituirlo. A fine spettacolo il manager del Ringling gli fa mille complimenti e gli offre un lavoro per quando sarà di nuovo libero. Be’, pensa Hampton, forse una volta uscito di qua avrò ancora qualche freccia al mio arco; potrò lavorare al circo!

Alberto.

 

Inviato

 

UN LEGNETTO IN UNA CASCATA: HAMPTON HAWES
Parte Nona:

Cinque Natali


Giunge così il terzo anno al carcere-ospedale di Fort Worth. Natale è passato da qualche giorno ed Hampton ascolta un uomo politico parlare alla televisione. Qualcosa nel suo modo di fare, nel portamento, negli occhi, nella voce, lo persuade che quel tizio è una brava persona e decide che gli scriverà. Si chiama John Fitzgerald Kennedy.

Hampton informa i medici dell’ospedale che intende inoltrare una richiesta di grazia al nuovo presidente degli Stati Uniti.
Cos’è che vuole fare? Sai le risate! Si raccontano la barzelletta l’un l’altro! E li conferma nell’opinione che il paziente Hawes soffre di una grave forma di dissociazione dalla realtà. Con ogni probabilità incurabile.
A causa della totale indifferenza ed all’ostracismo del personale carcerario rispetto alla sua richiesta, ci vuole un anno affinché il detenuto giunga ad individuare l’avvocato che dovrà fare da tramite per la supplica.
Hampton scrive una memoria surreale, distaccata, algida, come se non si trattasse di lui ma dell’affermazione di un astrattissimo principio di giustizia, riguardante il diavolo sa chi. Per sovrappiù aggiunge al testo alcune frasi in latino che ha copiato da un libro preso in biblioteca.
Forse gli psichiatri hanno davvero ragione, forse Hampton vive in un mondo tutto suo, di assoluta fantasia.
In tutti i casi il giudizio di Fort Worth è unanime, categorico e senza speranza: non vi è nemmeno una possibilità su cento milioni che la domanda di grazia venga presa in considerazione. Ma figurarsi! 
Il pomeriggio del giorno di Natale del suo quarto anno di detenzione, in ospedale viene proiettata la pellicola La Battaglia Di Alamo, western di e con John Wayne. Il film è commentato dalle musiche del compositore russo Dimitri Tiomkin; il motivo conduttore è la ballata The Green Leaves Of Summer: Hampton se ne innamora. Decide che se mai uscirà di lì, registrerà una sua versione del pezzo.
Nel 1964 la Contemporary pubblica l’album The Green Leaves Of Summer, il quale include il pezzo omonimo, che l’estensore di queste note avrà ascoltato trecentocinquanta volte…allo meno.
Giunge il Gennaio 1963 e con esso la notizia che il suo amico e complice di truffe Sonny Clark è morto di overdose. Un eccellente pianista Jazz se ne va giovanissimo, senza aver avuto il tempo di poter sviluppare a pieno le proprie potenzialità.
A Giugno dello stesso anno usufruisce del suo primo permesso di uscita, della durata di un pomeriggio, per un concerto alla Texas Christian University. Si vocifera che in sala sia presente una celebrità, vale a dire la moglie di Lyndon Johnson (trentaseiesimo presidente USA), e che per giunta non sia di passaggio ma sia lì di proposito.

E finalmente l’alba del 16 Agosto 1963 sorge radiosa.
Di prima mattina viene chiamato in amministrazione; il dottor Foley lo guarda attonito e gli chiede di sedersi; dopo qualche istante di esitazione gli legge incredulo il documento in pergamena che ha tra le mani. La richiesta di grazia è stata accettata: la pergamena reca la firma di John Fitzgerald Kennedy.
Dopo esattamente cinque natali da quando è entrato in carcere, il prigioniero è libero di andarsene.
L’intero ospedale è in subbuglio, il matto ce l’ha fatta, contro ogni previsione.
Tutti gli si fanno incontro, persino il cappellano; gli stringono la mano, si complimentano, sono sbalorditi. Infermieri, aiuti, guardie, medici, è un tripudio. Hampton è stordito, neppure lui crede a ciò che sta avvenendo. Viene portato a casa del medico in capo alla struttura, dove brinda con il funzionario, la sua consorte (in lacrime) e gli altri familiari.
L’ospedale-prigione di Fort Worth sembra impazzito.

Il detenuto Hawes è riuscito in una impresa pressoché impossibile: prima di allora a Fort Worth nessuno aveva mai visto accettare una domanda di grazia. Mai!
Per giunta Kennedy, durante il suo breve mandato, fu piuttosto avaro con la concessione della grazia. Chissà, forse a Kennedy piaceva il Jazz? O forse si rese conto che Hampton Hawes, se costituiva un pericolo, lo costituiva soltanto per sé stesso?
Da quel momento dal carcere-ospedale di Fort Worth verranno inoltrate centinaia di richieste di grazia. L’esempio del detenuto Hawes farà scuola.
Hampton riceve a spese dello Stato un biglietto aereo e si imbarca su un volo dell’American Airlines.
La hostess sorride e domanda: “Come va la sua giornata oggi, signore?”
“In maniera semplicemente stupenda” risponde il pianista, “Tesoro, portami qualcosa di forte…”.

Alberto.

 

Inviato

 

UN LEGNETTO IN UNA CASCATA: HAMPTON HAWES
Parte Decima:

Il Sopravvissuto

 

Tornato a Los Angeles Hampton riabbraccia la madre che lo accoglie commossa e piena di affetto.

All’It Club incontra Thelonious Monk: “Ciao Thelonious, sono io, Hampton”.
Monk, seduto al bar, pare non riconoscerlo; improvvisamente si alza, inizia a danzargli intorno: “Hai lasciato i tuoi occhiali da sole nel mio appartamento”, e sempre danzando se ne va.
Ti voglio bene Thelonious.
Iniziano le telefonate dagli impresari ed in men che non si dica Hampton torna ad esibirsi.
Miles Davis lo va a trovare al Mr. Konton’s Club: “Non sarai mica diventato fr…in prigione?” gli chiede il trombettista, “No, ma ho imparato a cucinare”, risponde Hampton.
Fioccano le recensioni positive. La rivista Down Beat scrive che la sua lunga assenza non ne ha intaccato minimamente il talento.
Lo stesso giorno legge sul giornale che il giudice che lo ha condannato a dieci anni di carcere è morto d’infarto. Esattamente lo stesso destino toccato al magistrato militare che undici anni prima lo aveva spedito nel deserto del Mojave per essere arrostito sotto il sole rovente.
La rivista Sepia gli dedica un articolo intitolato: "Il ritratto di un gigante del Jazz".

Viene invitato come ospite alla trasmissione televisiva di Steve Allen.
Il suo sorvegliante giudiziario (Hampton è in libertà vigilata), vale a dire colui che deve controllare che non si metta nei pasticci e non ricominci con la droga, scrive all’Ed Sullivan Show, chiedendo che il pianista sia invitato come ospite; non riceverà mai risposta. Si è servito di una busta con i contrassegni del tribunale e gli autori del programma si sono chiusi a riccio.
Nel Febbraio 1964 registra The Green Leaves Of Summer, per la Contemporary, che riceve ottime recensioni (altro capolavoro indescrivibile). A Novembre il suo liberatore Jonh Kennedy viene assassinato a Dallas.
Chiedendo il permesso ogni volta al giudice, ricomincia a viaggiare per gli Stati Uniti.
Si trasferisce con Jackie ed il suocero in una casa più grande, col camino, l’interfono, la piscina, il giardino e due garage.
Ma dentro di sé non è soddisfatto; come musicista potrebbe fare di più; le recensioni, il riscontro di pubblico, la stima dei colleghi, sente che questo è buono ma non è abbastanza. Non è ciò che si attendeva dal suo ritorno sulle scene. In cuor suo sperava in un successo maggiore, che sarebbe stato chiamato ad esibirsi in ogni angolo del paese.
Percepisce che abituarsi al suo nuovo stato, di uomo libero, richiede più tempo del previsto, maggiori sforzi da parte sua. Si sente ingabbiato (paradossalmente) in una vita borghese che lo soffoca.
Vi è poi la questione del gusto musicale che sta cambiando. John Coltrane e Miles Davis dominano la scena jazzistica; è tale la richiesta dei due musicisti che i proprietari dei locali, per la legge della domanda e dell’offerta, si vedono costretti ad aumentare il prezzo d’ingresso quando uno dei due è cartellone.
Inoltre Hampton deve fare i conti con la burocrazia. Essendo in libertà vigilata è soggetto a mille scartoffie per ottenere il permesso di esibirsi in pubblico: certificati medici, attestazioni del tribunale, istanze ad autorità specifiche a seconda della città in cui è chiamato ad esibirsi.
Infine il pianista vive i fatti del suo tempo, le tensioni razziali mai sopite. Nel distretto di Watts, a Los Angeles, è testimone di una delle più cruenti sommosse ad opera della popolazione di colore (34 morti), mai avvenute negli Stati Uniti. Hampton la definirà una guerra in piena regola. Tutti girano armati, uomini, donne e bambini. Interi edifici vanno a fuoco. Hampton, dopo una serata di lavoro, alle cinque del mattino si ritrova in mezzo ai disordini; vista la piega che prendono gli eventi decide di darsela a gambe prima che arrivi l’esercito (che infatti arriverà di lì a poco).
La mattina seguente telefona al sassofonista Sonny Criss, che abita proprio nel cuore della rivolta: “Mi sono installato in giardino con una bottiglia di whisky ed ho riso tutta la notte. Sembrava Roma ai tempi di Nerone!” gli risponde Criss.
Può sembrare una reazione esageratamente cinica, ma…- Se continui a dare schiaffi ad una persona, prima o poi quella te li restituisce –, scrive Hampton.
Il quale è pieno di rabbia verso l’esistenza che gli è toccata in sorte. Sente di aver perso il treno, di aver buttato i migliori anni della sua vita. Se la prende con tutti, con l’educazione ricevuta, con l’esercito, la polizia, il razzismo; con tutti tranne che con sé stesso. Hampton è consapevole, giacché lo scrive, che la questione razziale può essere un comodo alibi per la gente di colore. Io credo che Hampton fosse perfettamente cosciente di dove finissero la sfortuna, le persecuzioni razziali, un’educazione sbagliata da parte del Sevener, che ne frustrò le aspirazioni, e dove iniziassero le sue responsabilità personali, per le quali non vi erano molte giustificazioni. E’ il 1965, va verso i quarant’anni, molti dei suoi amici sono morti (Charlie Parker, Sonny Clark, Wardell Gray, Billie Holiday, l’impresario Billy Shaw), Monk è sempre più chiuso in sé stesso, Bud Powell è malato, il suo stile jazzistico sta per essere liquidato come anticaglia, per essere sostituito da qualcosa di completamente diverso.
E lui?
Lui si sente un sopravvissuto.
Alberto.

 

Inviato

 

UN LEGNETTO IN UNA CASCATA: HAMPTON HAWES
Parte Undicesima:

Il Vecchio Continente


Il famoso Mitchell’s Studio Club era fallito e presto molti altri ritrovi per gli appassionati di Jazz avrebbero seguito il suo destino.
Dei pianisti Jazz non importava più niente a nessuno; nella migliore delle ipotesi venivano chiamati a fare musica di sottofondo nei cocktail bar o ad accompagnare i cantanti Pop e Rock.
Hampton reagisce alla sua maniera, vale a dire in modo assolutamente originale. Invece di svendersi adotta la soluzione diametralmente opposta; chiede più soldi, 400 dollari a serata. Più di quanto guadagnasse qualunque jazzista in quel momento (a parte le star come Coltrane e Davis).

E trova chi glieli da: a San Francisco.
Il locale è un po’ particolare, un luogo di incontri clandestini dove girano parecchie ragazze disinibite, ma è tutto spesato, inclusa le cena e gli alcolici. Qui ritrova Ray Bass, l’ex proprietario dell’Harlem Club di Yokohama (a cui, scappando per i tetti dalla finestra del suo ufficio, aveva rubato la macchina fotografica), che ora possiede quel ritrovo un po’ equivoco. L’incarico non è troppo gravoso, deve esibirsi da solo fino alle 09:30, poi può andarsene a casa. C’è da immaginarsi cosa succedesse in quel posto passate le 09:30!

Hampton suona per un pubblico di agenti di borsa, vestiti tutti alla stessa elegante maniera, benestanti, padri di famiglia in cerca di avventure, che gli prestano la stessa attenzione che gli accordavano gli scimpanzè ai tempi della sua esibizione per il circo Ringling.
Considera quell’ingaggio il più triste della sua vita, ma tira avanti, dando del suo meglio.
Una sera un tizio all’apparenza messicano, in abito elegante verde, entra nel locale. Hampton lo avvicina: “Cosa ci fai qua?”,
“Sono venuto ad ascoltarti” dice l’uomo,
“Di cosa ti occupi ora?”,
“Lavoro all’azienda municipale per l’acqua”.
“Be’, sono contento che non fotti più la gente”.
L’uomo venuto dal Messico è Vince, l’ex agente dell’FBI che lo aveva incastrato e mandato in carcere.

Chissà se Hampton Hawes si rese mai conto che Vince, arrestandolo, gli salvò la vita.
Qualche sera dopo, uscito dal club di Ray Bass, decide di entrare al Both And Club, che ha appena aperto i battenti e sta offrendo una serata inaugurale. In cartellone c’è il complesso di Miles Davis. Il trombettista lo invita a suonare un pezzo ed Herbie Hancock gli cede il pianoforte. Hampton ritrova immediatamente la gioia di esibirsi in gruppo e Davis, che lo ha sempre ammirato, ne è entusiasta.
Alcuni giorni dopo sua sorella Margurite gli telefona: “Hampton…nostra madre è morta questa mattina”. Come riceve la notizia prende in tutta fretta il primo aereo che da San Francisco va a Los Angeles. A bordo trova Ella Fitzgerald, Duke Ellington e vari altri artisti della scuderia Verve. Hampton riflette: “Diamine, qua sopra c’è sufficiente talento per comperarsi l’intera linea aerea. Questi artisti dovrebbero ognuno fare i soldi che da soli fanno i Beatles”.
Il pianista si avvicina a Duke Ellington, ci tiene a presentarsi: “Sono Hampton Hawes…da tanto tempo desideravo…”, “Hampton” lo interrompe il Duca “Ho ben presente chi è Hampton Hawes!”.

Per il pianista è una bella soddisfazione, nonostante il triste motivo per cui si è messo in viaggio.
In quei giorni gli giungono notizie di molti suoi colleghi che si sono trasferiti o si stanno per trasferire in Europa: Dexter Gordon, Kenny Clarke, Arthur Taylor…nessuna discriminazione, ingaggi a volontà, rispetto e stima.
Inizia a parlare con Jackie della possibilità di trasferirsi nel vecchio continente. Che senso ha continuare a vivere in una società che ti prende solo a calci nel di dietro?

Detto fatto, i coniugi Hawes partono per Londra.
In tre settimane di permanenza in Inghilterra Hampton si esibisce soltanto due volte, al Ronnie Scott Club, per giunta in sostituzione di un altro pianista.
Insomma non se lo fila nessuno: “Passavo il tempo a guardare gli altri suonare”.
Su invito di Randy Hultin, corrispondente della rivista Down Beat, passa ad Oslo, in Norvegia. Alloggia in casa della giornalista, sulle cui pareti campeggiano diverse fotografie di grandi jazzisti americani. Randy è ancora al lavoro ma la porta è aperta, come da istruzioni. Hampton ha il dubbio di essere atterrato su Marte, immaginarsi se a Los Angeles si può lasciare la casa incustodita, con la porta aperta, in attesa che arrivi l’ospite!
Rientrata dal lavoro Randy accoglie con calore i coniugi Hawes ed annuncia al pianista che l’indomani la sua fotografia sarà su tutti i giornali locali. Da quel momento la macchina si mette in moto: Oslo, Stoccolma, Madrid, Berlino, Hampton riceve continue proposte. A Berlino ritrova Dexter Gordon, Thelonious Monk, Erroll Garner ed una pletora di altri musicisti USA. Pare che tutto il Jazz americano si sia trasferito in Europa. Registra per la radio norvegese e la radio danese, viene pagato 100 dollari per una sola intervista.
Tra le persone in fila fuori dai locali, i giornalisti che lo vogliono intervistare e le case discografiche pronte a fargli fare un disco, è una corsa ad accaparrarselo. Su suggerimento di Lester Koenig, patron dell’etichetta Contemporary, si sposta a Parigi, dove suona al Cameleon Club. Mentre è impegnato a Parigi riceve una telefonata dal batterista Kenny Clarke, che si trova a Roma e lo invita a raggiungerlo per un concerto. Trovato un sostituto nel pianista svizzero George Gruntz, lascia la moglie a Parigi e parte per Roma, dove tiene un concerto di grande successo con Clarke, Johnny Griffin e Jimmy Woode. Il quartetto passa poi a Pescara, ove si registra un’altra serata di tutto esaurito.
Tornato a Parigi ascolta dal vivo (per la prima volta) il pianista francese Martial Solal, che nella sua città natale fatica a trovare ingaggi, poiché subisce la concorrenza dei molti americani in trasferta. Hampton riflette su come tutto il mondo sia paese; George Gruntz era stato invitato al Monterey Jazz Festival, col biglietto aereo pagato per gli USA, ed Hampton non solo non era mai stato invitato, ma nemmeno gli avevano mai inviato la brochure del Festival!
Allo stesso modo Martial Solal, l’Art Tatum francese come veniva chiamato (…non esageriamo eh…), trovava difficile suonare a Parigi; lui che a Parigi ci era nato! Questo perché i francesi lo davano per scontato e lo consideravano un artista “locale”.
Nemo propheta in patria.

Alberto.

 

Inviato

 

UN LEGNETTO IN UNA CASCATA: HAMPTON HAWES
Parte Undicesima:

Il Morto Che Cammina


Hampton Hawes e Martial Solal decidono di registrare un album in coppia, inoltre iniziano un tour con Kenny Clarke ed un bassista ingaggiato di volta in volta. Suonano in Francia, Belgio ed Italia.
Hampton si rende conto che quel trasferirsi in Europa da parte di molti jazzisti neri americani è un inganno. Il popolo europeo li tollera poiché non è abituato alle persone di colore. Non le ha avute tra i piedi per quasi trecento anni. Il pianista capisce che è soltanto questione di tempo, e che anche in Europa prima o poi la gente proverà la medesima avversione per i neri che provano i bianchi americani. Che per adesso c’è entusiasmo innanzitutto perché sono americani, ed in secondo luogo perché hanno molti soldi da spendere. Infine che in Europa mostrarsi indulgenti verso i neri vuol dire essere alla moda.
Sì, è principalmente una questione di moda. Prima o poi anche lui sarebbe diventato un artista “locale” a Parigi o in qualunque altro posto, ignorato dai “locali”, come capitava a Solal; se questo doveva essere il suo destino, tanto valeva fare l’artista “locale” a Los Angeles. Proprio non capisce come i suoi fratelli neri possano dirsi felici in Europa, tanto più che ogni volta che ne incontra uno, famoso o non famoso che sia, quello gli chiede come vanno le cose a New York o a Los Angeles, se il tale ritrovo è ancora aperto, se la tale nuova autostrada è stata completata…è del tutto evidente che queste persone sentono nostalgia di casa.

I concerti con Martial Solal continuano in Spagna ma ad un certo punto Hampton si vede costretto a salutare il collega; lui e Jackie si trasferiscono prima a Roma e poi in Grecia. Per via di tutta questa massa di impegni professionali, il rapporto con la moglie si sta raffreddando. Pur non essendo uno stinco di santo (la fama implica certi vantaggi) il pianista intende salvare il suo matrimonio ed accetta, su richiesta di Jackie, di dare un taglio alle esibizioni con Martial Solal.
Dalla Grecia passano a Israele ed a Gerusalemme, dove assistono alla convivenza pacifica fra arabi ed ebrei (altri tempi…). Guardando ad essi Hampton ricorda che una volta il Sevener aveva addestrato alcuni fedeli all’uso del fucile, poiché la sua chiesa era stata oggetto di minacce anonime. Il corso propedeutico si teneva dopo la preghiera collettiva.

Quando ho letto ‘sta cosa non mi sono più fermato dal ridere.
Che forte il Sevener!

A Bombay Hampton scopre che esistono condizioni di miseria peggiori di quelle a cui è abituato in America, cosa che non avrebbe mai sospettato. Guardando all’estrema povertà diffusa, agli ultimi degli ultimi della terra, si sente ancora più in colpa per la sua vita sprecata. Deve considerarsi un uomo fortunato, tutto sommato gli è stata data la possibilità di vivere una vita dignitosa, vita che a quelle creature disperate viene negata.

Passa poi in China e a Tokyo. Qui i fan lo inseguono per strada, cosicché il direttore dell’Hotel dove alloggia si convince che l’ospite sia un uomo molto importante e lo invita a cena. Vengono scattate numerose fotografie con il personale dell’albergo, ma alla fine della serata nessuno ancora ha la più pallida idea di chi sia Hampton Hawes.
Il giorno dopo Maasaki Hisamatsu, della RCA, lo contatta proponendogli di registrare un disco per solo piano. Incide dodici tracce e l’album uscirà col titolo The Challenge.
Mentre registra per la RCA telefona un funzionario della Columbia proponendogli un altro disco.
Ma porca p…!, pensa Hampton, due album in una settimana qua in Giappone e nemmeno so dove si trovano gli studi della RCA o della Columbia negli Stati Uniti!
L’album della Columbia viene registrato con la presenza del pubblico, per dare l’impressione di una jam session. Quando rivede i musicisti giapponesi con i quali aveva suonato quindici anni prima all’Harlem Club di Yokohama (tra cui il batterista George Otsuka ed il sassofonista Hidehiko Matsumoto), essi gli corrono incontro, lo abbracciano e urlano: “Uma-san!”.

E’ in quella sessione di registrazione che compone un nuovo pezzo, Uma San Blues, in onore dei suoi fratelli del Sol Levante.
Alcuni giorni dopo riceve un invito formale da parte dell’esercito degli Stati Uniti perché si esibisca davanti ai soldati dell’Aeronautica militare di stanza a Tokyo. Quello stesso esercito che lo aveva cacciato a pedate, ora gli invia una fiammante limousine con autista.
In nove mesi in giro per il mondo Hampton registra sette album. A Los Angeles il suo sindacato non era mai stato in grado di trovargli una serata. Si limitavano ad inviargli i solleciti di pagamento della tessera annuale.
Eppure gli Stati Uniti sono il luogo dove tutto ha avuto origine ed Hampton sente di non avere scelta: deve tornare a casa. La musica Jazz sta cambiando volto e se resterà troppo a lungo lontano dalla fonte non sarà in grado di intercettare le novità, come sta accadendo a molti dei suoi colleghi, che non si sono accorti dell’aria nuova che tira e continuano a suonare un Jazz fermo agli anni ’50.

Ed in ogni caso il pianista non vede l’ora di tornare in mezzo a quel gran casino chiamato America.
Tuttavia prima di lasciare l’aeroporto di Tokyo accade un fatto a dir poco drammatico; un giornalista lo avvicina e gli comunica che la BBC ha diffuso la notizia che il famoso pianista Hampton Hawes è…morto!

Alberto.

Inviato

 

 

UN LEGNETTO IN UNA CASCATA: HAMPTON HAWES
Parte Tredicesima:

                                                                     Ultimo Atto

Giunto a Los Angeles un corrispondente della BBC gli telefona: “Vorremmo avere la conferma che Hampton Hawes non è morto in un incidente stradale in Svizzera, fuori Ginevra”.
Allora non è uno scherzo? Lo credono davvero morto!
“Sono vivo e senza un soldo” risponde al giornalista.
In effetti, tornato a Los Angeles, per Hampton non vi è alcuna prospettiva di lavoro.
Nessuno lo chiama.
Nei giorni successivi il pianista si rende conto di fare più notizia da morto che da vivo.
Hampton è sempre stato piuttosto rigido nelle sue scelte musicali, in merito a ciò che desidera suonare ed a ciò a cui non è assolutamente interessato, benché di moda. Quando Harvey Siders della rivista Down Beat gli chiede “Cosa risponderebbe se le proponessero di scendere a compromessi con la sua musica?”, Hampton, che ha già ricevuto offerte di questo tipo da parte della Contemporary Records, replica: “Se mi chiedi di suonare spazzatura, ti rispondo baciami il c…”.

Finalmente riceve una proposta accettabile, si tratta di registrare un album con la MGM Orchestra; i brani sono tratti dai musical Oliver e Funny Girl, entrambi del 1968. Un gruppo Jazz assieme ad un gruppo di archi. L’album esce col titolo Blue Strings ma non trova grande riscontro di pubblico. Il clima è cambiato, non c’è niente da fare.
Riceve un’offerta da Parigi e parte nuovamente verso l’Europa, questa volta senza Jackie. Qui ha una relazione con una bella ragazza americana di origini messicane, anch’essa in trasferta in Francia. Se ne va in giro con questa bellezza, nella massima libertà, come fosse scapolo. Per Josie Black, così si chiama la donna, Hampton perde letteralmente la testa.
Dopo giorni di indecisioni e sofferenze, Hampton decide di lasciare Jackie per iniziare una nuova vita con Josie. Abbandona una donna che ama e con la quale è stato sposato vent’anni, abbandona una grande casa, elegante e con tutte le comodità, per raggiungere Josie in una baracca di periferia, in un quartiere malfamato.
Ricevuta la notizia il Sevener così commenta: “Be’, dopo vent’anni di matrimonio non posso certo dire che non ci hai provato. E d’altronde due persone che non sanno tenersi per mano, non dovrebbero passeggiare assieme”.

Che sagoma il Sevener, è sempre uno spasso!

La nuova compagna, Josie Black, ha un figlio dodicenne, Billy, avuto da un precedente rapporto; l’ex marito è sparito nel nulla di modo che, quando gli viene chiesto di compilare un modulo per l’iscrizione a scuola, il dodicenne scrive “Hampton Hawes” nello spazio dove bisogna indicare il nome del padre. Hampton, che non ha mai avuto figli, si lega molto al ragazzo e gli insegna a suonare il pianoforte.
Il matrimonio con Josie Black avrà breve durata ed Hampton tornerà da Jackie.

E proprio sul racconto del rapporto con Josie, ed il figlio di lei, che si interrompono le memorie di Hampton Hawes.
Il pianista, durante l’ultima parte della sua vita, tentò di rilanciare la sua carriera aggiornandosi nello stile, sposando un certo sound funk-elettronico, ma senza mai dimenticare di “Battere il piede” come diceva lui, cioè senza mai dimenticare che il Jazz è Swing.

Hampton Barnett Hawes muore di infarto il 22 Maggio 1977, a soli 48 anni.
Qualche tempo dopo il Club Safari di Los Angeles farà realizzare un busto in bronzo con la sua effige.

Così termina la mia traduzione dall’Inglese dell’autobiografia del grande musicista Hampton Hawes; manca giusto il gran finale.
Ci vediamo Domenica prossima.
Alberto.

 

 

 

  • Melius 1
Inviato

 

Un Legnetto In Una Cascata: Hampton Hawes
Parte Quattordicesima
Hampton Hawes Forever!

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Qui termina il viaggio da me compiuto con la lettura di Raise Up Off Me, l’autobiografia di Hampton Hawes pubblicata nel 1974 e ristampata nel 2001 per l’editore Thunder’s Mouth Press.
Se vogliamo prendere coscienza di quanto poco conosciamo la lingua Inglese, non dobbiamo far altro che provare a tradurre in Italiano un libro scritto in Inglese.
Innanzitutto il titolo: Raise Up Off Me, ovvero “State Lontani Da Me”. E’ un’espressione slang, alla cui traduzione sono arrivato grazie alla mia insegnante di Inglese. Se ritenete sia sbagliata, prendetevela con lei.
Il libro è gremito di espressioni slang (lo slang dei tempi di Hampton Hawes, per giunta) e superarle è stata per me una grossa difficoltà. Non potevo tutte le volte ricorrere all’insegnate.
Una faticaccia insomma, che presumo rappresenti il modo con cui ho dimostrato mio attaccamento al Jazz ed a un jazzista che ho sempre amato. Tradurre non vuol dire allineare le parole una dietro l’altra, per quello è sufficiente Google Translator, con i mediocri risultati che molti di noi hanno sperimentato. Tradurre implica riportare il senso di ciò che viene scritto e di ciò che si nasconde dietro alle intenzioni. Significa aggiustare in continuazione la lingua originale alla propria, parafrasare, interpretare, affinché il testo risulti scorrevole ed interessante. Bisogna rendere non solo il tono ma anche il ritmo della scrittura. Se avessi tradotto in maniera letterale, alla Google Translator, vi garantisco che vi sareste annoiati a morte, perché l’Inglese non ha niente a che vedere con la lingua italiana (più lo studio e più me ne rendo conto). Pertanto in Un Legnetto In Una Cascata c’è non più del 70% di Hampton Hawes e non meno del 30% di OTREBLA. Inevitabilmente.

Hampton Hawes era un tipo piuttosto sboccato ma io vi ho risparmiato le molte parolacce con cui spesso condisce il racconto delle sue avventure.
La lettura di Raise Up Off Me porta alla luce il fatto che l’uomo Hampton Hawes era lontano dall’essere un modello di perfezione. Certamente ciò gli derivava dalla sua condizione di tossicodipendente, tuttavia quel suo maschilismo congenito (chiama quasi tutte le donne “Bitch”), non trova giustificazione nella tossicodipendenza.  Al giorno d’oggi, in cui domina il politicamente corretto, Hampton non verrebbe certo preso come esempio da seguire. Nei confronti della musica il pianista ha un atteggiamento spiccio, pratico e concreto, tipico dei grandi musicisti. Una indole per niente incline ai voli pindarici, agli slanci mistici (gli era probabilmente bastata l’educazione del Sevener) alle giustificazioni intellettualistiche. Hampton scrive: “Esistono solo due generi di musica, la musica buona e quella cattiva”. Lo stesso concetto uscì dalle labbra di Thelonious Monk e dalla penna del compositore americano Aaron Copland.

Hampton Hawes mostra una personalità davvero singolare; è capace di riassumere le vicende che gli capitano con spietatezza di visione, teutonica freddezza ed assenza della pur minima ipocrisia. Anche se ciò va quasi sempre a suo danno e comporta il fatto che l’uomo Hampton Hawes non ci faccia proprio ‘sta gran figura; diciamocelo. Un tratto di carattere che probabilmente era ereditario, da parte di padre. Il Sevener, come il fantasma del re di Danimarca, è in Raise Up Off Me una presenza costante.

Hampton nega con forza che l’assunzione di eroina lo abbia anche minimamente aiutato nel suo lavoro. Sostiene invece esattamente il contrario: “Se non hai swing, se non senti lo swing, nessuna droga potrà mai cambiare le cose”.
Nei confronti dei colleghi Hampton è comprensivo ed indulgente, poiché non considera la musica come terreno di competizione. Il musicista Hampton Hawes è tutto meno che presuntuoso, anzi, sembra costantemente sottovalutarsi; senza che ve ne sia una valida ragione peraltro ed a dispetto delle numerose dichiarazioni di stima e di ammirazione di alcuni tra i più importanti nomi della storia del Jazz: Bille Holiday, Art Tatum, Thelonious Monk, Charlie Parker, Miles Davis, Duke Ellington, Charles Mingus, Sonny Rollins, Oscar Peterson, Shelly Manne, solo che per citarne alcuni.
Altro tratto del carattere di Hampton Hawes è la sua ironia. Qualunque fatto racconti, anche il più tragico, spesso trova il modo di inserirlo in una eco di umorismo.
La scena di lui che viene portato in giro per l’ospedale-prigione di Fort Worth, ricevuta la notizia della prematura scarcerazione, è messa in un modo che risulti quasi comica, sballottato di qua e di là come la Madonna in processione.
Il direttore dell’hotel dove soggiorna in Grecia (nel 1968), mentre sta per lasciare l’albergo, gli urla dall’altra parte della hall: “Hampton, hanno ammazzato il tuo leader!”, mostrandogli da lontano la prima pagina di un quotidiano locale.
Certamente si tratta di un giornale vecchio di cinque anni, che riporta l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Capirai che notizia…è da mo’ che lo sappiamo!

Soltanto arrivato a Tel Aviv, due giorni dopo, Hampton si rende conto che il leader assassinato è Martin Luther King.
Il racconto è tutto così, anche nella condizione più cupa, non è raro che traspaiono gli accenti della commedia.
Vi sarete accorti che personalmente sono abbastanza incline all’umorismo, che ritengo terapeutico, nel senso della prevenzione se non della cura, per cui ho molto apprezzato il narrare leggero di Raise Up Off Me. Non credo che leggerò mai più un’autobiografia di un jazzista tanto divertente quanto quella di Hampton Hawes.

Raramente Hampton indica le date degli avvenimenti ma tra fatti storici rilevanti, assassinii di presidenti ed altri fatti certamente databili, è facile ricostruire la cronologia.
Le due figure che emergono da Raise Up Off Me sono la moglie Jackie Claget, con la sua pazienza infinita, ed il padre, il famigerato Sevener. Jackie doveva essere proprio una donna eccezionale, con un carattere d’acciaio; non smise mai di sostenere il marito, del quale andava fiera; ritagliava e conservava tutti gli articoli di giornale a lui dedicati.
E che dire del Sevener? Che spasso di pastore della Chiesa! Credo proprio che sia morto senza la consapevolezza di aver messo al mondo un genio; un figlio scapestrato, è vero, ma che diede prova, da un certo punto in poi della sua vita, di essersi rimesso in riga.
Infine Raise Up Off Me mi è stato utile per apprendere alcune vicende non direttamente collegate alla vita di Hampton Hawes, che aiutano a comprendere meglio la storia del Jazz e dei musicisti di colore.
Mi auguro che leggendo delle sue avventure vi sia venuta voglia di approfondire la conoscenza artistica di questo eccezionale musicista, il cui talento e la cui arte rappresentano un punto fermo nella storia del Jazz.
Per me è stato un piacere raccontarvi della vita di una colonna di questa splendida musica che viene chiamata Jazz, di un pianista geniale, di un musicista assoluto, di un maestro con ben pochi eguali, e della sua drammatica e folle parabola di essere umano, intrappolato nel turbinio di un’esistenza frenetica e travagliata, in balia del fato e di sé stesso, a rotta di collo, travolto dagli eventi come una piccola scheggia di legno è travolta dalle acque di una cascata.
Hampton Hawes,

Forever.
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Scorrendo sui giornali le notizie della rivolta, leggendo della desolazione, dei quartieri bruciati, del sangue secco mischiato alla cenere, mi ritornò alla mente un pomeriggio assolato di tanti anni prima; io, Miles Davis e Charlie Parker, seduti sul cofano di una vecchia Duesenberg, mangiando fette di anguria, mentre Chuck Thompson ci scattava delle fotografie…”. Hampton Hawes.
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Alberto/Otrebla – Dicembre 2024

E Buone Feste a tutti.

 

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