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Eric Hobsbawm racconta il jazz


appecundria

1.755 visite

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A prima vista può sembrare un accostamento curioso, ma in realtà "Storia sociale del jazz" è la naturale estensione del restante lavoro di Eric Hobsbawm. Con la sua capacità unica di leggere i fenomeni culturali come prodotti e riflessi della storia sociale, Hobsbawm ci consegna un’opera che è al tempo stesso saggio, racconto e affresco critico su una delle più importanti forme d’arte musicale: il nostro amato jazz.


L'autore
Eric Hobsbawm (1917-2012) è stato uno storico di fama mondiale, noto per le sue innovative visioni della storia, tra cui la celebre definizione di "secolo breve" per il Novecento.

Oltre ai suoi studi sul movimento operaio, Hobsbawm nutriva una profonda passione per il jazz, che lo portò a scriverne regolarmente come critico musicale sotto lo pseudonimo Francis Newton, in omaggio al trombettista comunista Frankie Newton.

Questa duplice veste di storico rigoroso e appassionato intenditore ha permesso a Hobsbawm di offrire una prospettiva unica e integrata sul jazz.

 

Per Hobsbawm il jazz non è solo musica: è un fenomeno sociale. È la voce, spesso inascoltata, di una parte della società che non aveva accesso al potere né agli strumenti della rappresentazione dominante. Nato nelle comunità afroamericane del Sud degli Stati Uniti, il jazz diventa, pagina dopo pagina, una lente attraverso cui osservare non solo l’evoluzione musicale del Novecento, ma anche le sue trasformazioni economiche, politiche e culturali.


Il libro

"Storia sociale del jazz" fu pubblicato nel 1959 con il titolo originale: The Jazz Scene, sotto lo pseudonimo di Francis Newton. L'opera è strutturata in quattro parti: una prima dedicata alla storia del jazz dalle origini all’età del bebop; una seconda dedicata alla musica in sé (strumenti, forme, rapporti con altre arti); una terza all’industria musicale; e una quarta — tra le più interessanti — dedicata alle persone: musicisti, pubblico, appassionati, critici. Completano l'opera diverse appendici, un glossario del linguaggio del jazz, una guida per approfondire la lettura e una sezione dedicata a biografie e ritratti dei grandi del jazz, curata da Arrigo Zoli, con figure iconiche come Louis Armstrong, Bessie Smith, Duke Ellington, Miles Davis, Billie Holiday, John Coltrane e Charlie Parker.


L’autore analizza con precisione e passione le origini del jazz, la sua diffusione, la sua continua metamorfosi. Lo stile è sorprendentemente scorrevole, e nonostante l'autore sia noto per le sue grandi sintesi storiografiche — Il secolo breve, Le rivoluzioni borghesi, Il trionfo della borghesia — qui si muove con una leggerezza e un calore che sorprendono. Forse perché dietro la penna di Francis Newton c’è l’appassionato ascoltatore, il frequentatore di locali, il critico musicale che per dieci anni ha scritto di jazz sulle pagine del “New Statesman”. Ma anche perché il jazz stesso, con la sua vitalità, la sua apertura all’improvvisazione, ben si presta a essere raccontato da chi sa vedere la storia come un processo non lineare, fatto di strappi, svolte e note fuori dallo spartito.


Uno dei punti di forza del libro è proprio la sua prospettiva sociale e politica, che mai scade nella rigidità ideologica. Hobsbawm era marxista, sì, ma con uno sguardo non dogmatico. Anzi, proprio la scelta di firmarsi con uno pseudonimo (in omaggio a Frankie Newton, trombettista, nero e comunista) indica la volontà di affrontare il jazz senza le preclusioni di certa ortodossia culturale dell’epoca, che vedeva nella musica americana un prodotto borghese o capitalistico da guardare con sospetto.
 

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Se il libro ha una tesi centrale, è che il jazz è sempre stato più di un genere musicale: è stato un linguaggio di libertà. E proprio per questo è stato spesso imitato, addomesticato, commercializzato. La tensione tra autenticità e mercato, tra arte e industria, attraversa tutto il libro. Hobsbawm ci mostra come il jazz sia stato un campo di battaglia culturale: una forma d’espressione popolare che l’industria discografica ha cercato di trasformare in prodotto di consumo, con esiti alterni. Il jazz — scrive — è una delle poche arti del Novecento che “non deve nulla alla cultura della classe media”.


Ma quello che rende davvero interessante Storia sociale del jazz è il modo in cui Hobsbawm intreccia la storia della musica con quella delle persone che la fanno e la vivono. La musica non è mai presentata come un oggetto puro, isolato, ma come un’esperienza viva, radicata nella storia e nei corpi, nei luoghi, nei conflitti.

 

In realtà, come dimostra l’autore, il jazz è stato a lungo una forma di cultura popolare, spesso marginalizzata, che ha resistito — almeno per un certo tempo — alla logica omologante dell’industria culturale. In uno dei passaggi più intensi del libro, Hobsbawm parla del jazz come di una musica che riesce a “non farsi soffocare” dal mercato, mantenendo una propria autenticità proprio grazie alla sua struttura aperta, collettiva, dialogica. Il jazz, insomma, è una musica che nasce dalla strada ma non si lascia addomesticare.


Oggi il jazz non ha più la centralità che aveva negli anni ’50 o ’60, e puòHobsbawm-Storia sociale del jazz sembrare ormai una musica per pochi. Ma proprio per questo il libro è importante, ci ricorda che il jazz è una musica capace di parlare all’umano universale. Capace di fare della tensione tra ordine e disordine una forma di bellezza. Capace di far convivere la solitudine del solista con l’intelligenza collettiva dell’ensemble.


In conclusione

Per chi ama la musica, per chi vuole capirla nel suo contesto, per chi cerca nella cultura qualcosa che vada oltre l’intrattenimento, Storia sociale del jazz è una lettura che lascia il segno. Non solo per ciò che dice del jazz, ma per come ci insegna a pensare la musica: non come un lusso decorativo, ma come uno specchio — spesso graffiato e tagliente — della storia in cui viviamo.
 

Storia sociale del jazz
di Eric J. Hobsbawm (Autore), Massimo Donà (Prefazione)

Lunghezza stampa: ‎ 484 pagine

ISBN-10 ‏ : ‎ 8857567869

ISBN-13 ‏ : ‎ 978-8857567860

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  • Melius 1
  • Thanks 6

9 Commenti


Commenti Raccomandati

campaz

Inviato

Lo sto leggendo (a spizziche e bocconi, non è per me un libro attrattivo: ma d'altronde nemmeno l'approccio dell'Hobsbawm storico mi fa impazzire) proprio in questi giorni. Ne ricordo, ero ragazzo, l'edizione Editori Riuniti (all'epoca nel quartiere genovese operaio dove sono cresciuto c'era una libreria di quella casa editrice, stava di fornte all'ingresso dei cantieri navali). Grazie, grazie, grazie. 

  • Thanks 1
appecundria

Inviato

@campaz non è un libro da primi approcci al jazz. Come testo per neofiti per me il migliore resta il buon vecchio Arrigo Polillo.

  • Melius 1
Gaetanoalberto

Inviato

Lo compro. Tra 484 giorni commento.

  • Haha 2
analogico_09

Inviato

Un "uccellino" mi aveva anticipato giorni fa che ci saremmo prima o poi imbattuti nella presentazione del libro Eric Hobsbawm da parte del recensore che avrebbe ricevuto in regalo una copia presa un una bancarella dell'usato cosa che aggiunge alla sua puntuale ed interessante presentazione un pizzico di "romanticisto" (in un libro vissuto resta sempre qualche traccia "aleatoria" dei precedenti lettori). 
Confesso di non conoscere questa "Storia sociale del jazz", ne ho lette di altri autori, ma, poichè l'argomento mi sta particolarmente a cuore, non di rado nelle numerose discussioni sull'espressione musicale afroamericana ho cercato spesso ed "urgentemente" di soffermarmi  sul fatto che se non si comprende ed accetta il fatto che il jazz sia una musica socio-politica, sociologica, financo "socialista", antropologico-razziale virata al marxismo, si finisce per prendere il jazz come musica del mero intrattenimento, buona per far scrocchiar le dita e battere il ritmo sincopato col piedino ben calzato, graziosamente swingante, un approccio "bracciantile" al jazz che induce a pensare a come -  citando il nostro "recensore" -  proprio per questo il jazz è stato spesso imitato, addomesticato, commercializzato. Non mi riferisco unicamente al free jazz che nasce protestatario, quale manifesto iconoclastico e provocatorio, pur sempre eminentemente estetico ed etico, della rivoluzione culturale, sociale, politica razziale del "potere nero",  dei movimentismi per l'emancipazione e per i diritti dei neri all'interno degli establishment statunitensi politico-culturali bianchi, borghesi e razzisti. 

Intendo invero sostenere come la "politica", il sociale, il sentimento di ribellione saldato alla sublime istanza poetica ed estetica, siano già nelle primissime forme musicali afroamericane schiave e successive; presenti nei blues che raccontavano il disagio esistenziale e sociale, politico, razziale, soprattutto la spiritualità e il "dolore" del "popolo del blues". Il dolore associato alla vitalità gioiosa del fare musica dell'anima, ancor prima che dello strumento e delle note. Il dolore catartico e catalizzatore senza il quale il jazz non si concretizza.  

Leggerò prima o poi questo libro scritto da un bianco spinto anche dalla curiosità di confrontarlo con quello che per me rappresenta il "testo sacro" sul "jazz sociale" nell'offrire un visione critico-estetica, storiologica, musicologica, dall'interno - tutt'altro che faziosa od ideologicamente viziata - già che a scriverla nel 1963 fu Amiri Baraka (Le Roi Jones) scrittore, drammaturgo, poeta, saggista, musicologo, musicista, militante, condannato e incarcerato  per aver partecipato alle dure sommosse di proteste antirazziste di Newark, se non ricordo male. Il libro è intitolato "Il Popolo del blues"  - sociologia degli afroamericani attraverso il jazz. Il primo capitolo è "Il nero come non americano, alcuni antefatti" ; l'ultimo: La scena moderna (fino al 1962, ovviamente)
Ne parlo non certamente per fare "concorrenza" al testo proposto, ci mancherebbe, è solo per arricchire, aggiungere una voce in più, e tante altre se ne potrebbero citare, a quello che è il panorama saggistico-letterario che gravita intorno alla cogente realtà del jazz come musica eminentemente "sociale". 

Anche per dire di come il jazz sia morto venuta a mancare, od avendo subito profonde trasformazioni, la dimensione poetica ed ispirativa di quelle realtà sociali e di quel dolore fisico, morale e metafisico. Restano tuttavia razzismo e dolore, con qualche correzione - insomma il nero sta meglio, manco troppo... - nella loro mera e prosaica, infruttuosa accezione. 

 

  • Melius 2
best_music

Inviato

Direi che la presentazione del libro è "onesta": da quanto capisco non si parla tanto di musica quanto di un fenomeno sociale, direi anzi le lo si approfondisce perché sulla nascita del jazz e sulla sua estraneità a quella che all' epoca era la cultura dominante non credo che chiunque abbia dei dubbi.

:

Francamente, da ignorantone qual sono, tutti gli approcci che ho avuto con letture sul tema jazz erano più sul cercar di capire di questo mondo cosa mi piacesse e cosa no e che magari dessero indicazioni su cosa ascoltare per capire.

:

Confesso apertamente che quando mi capita  di andare in un ristorante fighetto di quelli in cui il cameriere si sente in dovere di spiegarti cosa c'é nel piatto sono piuttosto impaziente che quel seccatore se ne vada e mi lasci assaporare in pace il lavoro dello chef. Lo stesso è per la musica: condirla di chiacchiere non migliora né peggiora la musica che sto ascoltando.

:

Mi piace Bach anche se so che per campare doveva baciare le chiappe a nobilotti di mezza tacca, detesto Furtwängler ma non perché fosse simpatico ai nazi ma perché non mi piace come interpreta Beethoven, mi piacciono i grandi del Jazz del periodo d' oro ma spesso (me ignorante!) non ho presente chi di loro fosse nero e chi no, mi affascina la musica di Petrucciani, e mi piacerebbe ugualmente se chi la suonava avesse avuto il fisico di Alain Delon ecc ecc...

appecundria

Inviato

Il 26/06/2025 at 16:49, best_music ha scritto:

condirla di chiacchiere non migliora né peggiora la musica che sto ascoltando.

Scusa se le mie chiacchiere ti hanno disturbato.

Però potevi skippare dopo l'introduzione. 

best_music

Inviato

16 ore fa, appecundria ha scritto:

se le mie chiacchiere

Rileggi il mio post con calma e senza pregiudizi, vedrai che il significato non ti sfuggirà.

:

Ho sottoposto il mio post a CHATGPT per verificare se desse adito alla tua interpretazione; lo ha analizzato in 4 punti ed al punto 3 dice:

Cita

 

3. La metafora del ristorante fighetto:
"Confesso apertamente che quando mi capita di andare in un ristorante fighetto..."

Qui fa una paragone tra la musica e il cibo. Proprio come trova fastidioso che il cameriere spieghi troppo un piatto, trova inutile (anzi, fastidioso) che si parli troppo della musica. Vuole godersi l’ascolto direttamente, senza troppe spiegazioni intellettuali.

🟡 In sintesi: L’arte (musica o cucina) va vissuta e gustata, non dissezionata a parole.

 

:

Sono quindi grato per la discussione che hai aperto, dandomi la possibilità di esporre il mio pensiero, e della tua obiezione che mi ha fatto scoprire la mirabile sintesi che ne fa la macchina:

:

In sintesi: L’arte (musica o cucina) va vissuta e gustata, non dissezionata a parole.

  • Melius 1
appecundria

Inviato

È arrivato Adorno.

Sincero

Inviato

Un articolo molto interessante. Grazie, scritto bene e piacevole. Mi riservo solo un marcato piglio di disapplicazione per il link di Ammazzon...le librerie ci sono esistono e sono li ad accogliervi a braccia aperte. 

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