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Melius Club

Il diario dei film


analogico_09

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Inviato

Di là si parla del regista Jashujiro Ozu. Sulla scorta di alcune suggestioni nate in loco ho provato il desiderio non di rivedere un film di Ozu, bensì il docufilm che il regista tedesco Wim Wenders dedica al "maestro" , a quello che era il suo mondo, fino all'anno della sua morte, 1963, a confronto con i "reganiani" anni '80.

Tokyo Ga, 1985, è il titolo di questo bellissimo e toccante omaggio cinematografico. Uno spaccato della Tokyo moderna, fascinosa e "alienata"; ritorni al passato che rivive ad ogni visione dei film di OZU, attraverso le commosse interviste all'ineffabile interprete "feticcio", Chisu Ryu, e al fedelissimo operatore Yuharu Atsura il quale racconta con accuratezza le straordinarie tecniche di ripresa di Ozu che poneva la macchina al altezza del "tatami" e usava esclusivamente l'obiettivo da 50 mm, quello che secondo il regista "vedeva" come vede l'occhio umano (non amava il grandangolare, condivido appassionatamente...), e che a un certo punto dell'intervista sfoga in pianto e chiede con umile, dolente, cortese sussiego di poter rimanere solo, provato, non più in grado di sostenere la profonda, nostalgica emozione, il rinnovarsi del sentimento della dedizione e della fratellanza nutrito per il Maestro, quell'amore supremo per il cinema che, dopo la scomparsa di Ozu, Atsura non riuscì a trovare con altri registi.

Mi fermo. Ci sarebbe molto da dire su questo film da non perdere, che raccomando agli appassionati di Ozu e del grande cinema.

Vorrei riportare ciò che dice la voice-off (parla per Wenders) nell'introdurre il film ambientato a Tokyo, città fisica e metafisica, mentre scorrono le immagini di "Viaggio a Tokyo" di Ozu, viaggio nella poesia cinematografica sublime, davvero unica, inconfondibile, irripetibile.


Trascritto a manina mentre scorrevano le immagini del DVD

 

 

Se il sacro avesse ancora diritto al suo posto in questo secolo e se ritenessimo giusto erigere un santuario del cinema ci metterei l’opera del regista giapponese Ysujiro Ozu […] I suoi film raccontano con mezzi ridottissimi la semplice storia della gente comune nella città di Tokyo. Questa cronaca che dura circa 40 anni registra la metamorfosi del vivere in Giappone. I suoi film parlano del lento declino della famiglia giapponese e dello sbiadirsi dell’identità nazionale. Lo fanno senza disprezzare il progresso e la presenza sempre più invadente della cultura americana, ma limitandosi a rimpiangere, con nostalgia, i valori che parallelamente perdono.
Per quanto siano giapponesi questi film possono ambire ad una comprensione universale. Vi ho riconosciuto le famiglie del mondo intero, i miei genitori, i miei fratelli, me stesso. Secondo me il cinema di Ozu non fu mai così vicino alla sua essenza e alla sua stessa funzione dando un’immagine utile, un’immagine vera dell’uomo del XX secolo dove si è riconosciuto e ha appreso qualcosa di sé.

 

 

Straordinaria la scena  madre al cimitero nel quale è sepolto Ozu. "MU" (il nulla, il vuoto) in cui  è racchiuso tutto il senso del cinema di Ozu, il senso del regista e dell'uomo per l'arte e per la vita.
Wenders cerca di "spiegare" tale dimensione trasfigurante tale scena della totale "confluenza".

Il commento alle immagini è in originale è sottotitolato in italiano, un testo al quale bisognerebbe prestare molta attenzioe ... e poi vedere i film di Ozu.., infine il Tokyo Ga di Wim Wenders.

 

 




 

 

 

  • Melius 1
  • 2 settimane dopo...
Inviato

Ho un bellissimo ricordo di Tokio Ga, visto all'epoca in cui uscì senza ancora avere l'idea di chi fosse Ozu.

Lo devo ripescare, al più presto

  • 1 mese dopo...
analogico_09
Inviato

Ho rivisto Fitzcarraldo di Werner Herzog, uno di quei film "estremi" e definitivi, come il Salò di Pasolini, che lasciano il segno distinguendosi da tutti gli altri film nel determinare il punto del non ritorno giunti dal  quale anche andare avanti, oltre, diventa impossibile.

Un culmine della poetica visionaria del regista tedesco. Mi appuntai molti anni fa l'impressione ricavata da una successiva visione del film: una sola visione non basta per coglierne in pieno il senso del la lucida follia.
Poche parole (anche troppe per un film visionario ed delirante di cui non si finirebbe mai di parlare), scrissi che avevo imparato ad amare incondizionatamente Fitzcarraldo  perchè affronta il tema elettivo e della "conquista dell'inutile" a qualunque costo. Una appresentazione selvaggia, violenta, immaginifico-visionaria e letteraria, reale, materiale, fisica, non già allegorica o sostenuta dagli "effetti speciali", del primo raggio di sole che risvbegliò la scintilla della creatività nel primo uomo sulla terra. L'utopia di quel film  - in quanto "inutile", impossibile e folle - è il sale della vita e dell'arte.

 

 

 



 

  • Melius 1
  • Thanks 1
Inviato
3 ore fa, analogico_09 ha scritto:

 

Neppure Aguirre scherza in quanto a follia.

Inviato
48 minuti fa, meliddo ha scritto:

Aguirre

Memorabile l'inizio, la musica dei Popol Vuh, Kinski che interpreta "se stesso", la formula Herzog + Kinski era magica

Inviato

Visto da poco su sky un bellissimo documentario di herzog sul suo amico/nemico kinski. 

 

 

analogico_09
Inviato
3 ore fa, meliddo ha scritto:

Neppure Aguirre scherza in quanto a follia.


Bisognrebbe però distinguere tra i diversi tipi di "follia" che in Aguirre diventa epressione dell'avidità, della violenza, della crudeltà, dell'abbaglio di un El Dorado farneticato che porta, col fallimento, alla demenza finale del conquistador, mentre in Aguirre la follia è, allanpoenianamente, la sublimazione o trasfigurazione dell'intelligenza e del sentimento, ovvero il soffio utopico fecondo e trionfatore del genio dell'arte, della poesia, della "bellezza" che è possibile portare e far vivere anche all'interno della fitta foresta selvaggia, la quale, contrariamente a ciò che succede in a Aguirre, non viene sopraffatta dalla disumana, distruttice ambizione di conquista.

Grandissimo film anche Aguirre, ovviamente. Mi sa che lo rivedrò presto; ogni volta che parliamo di una musica, di un film, di un libro o delle opere di altre arti che mi stanno particolarmente a cuore... mi viene sempre voglia di rivedere, riascoltare, rileggere...

 

2 ore fa, indifd ha scritto:
3 ore fa, meliddo ha scritto:

Aguirre

Memorabile l'inizio, la musica dei Popol Vuh, Kinski che interpreta "se stesso", la formula Herzog + Kinski era magica

 

 

I popol VUH hanno realizzato le colonne sonore di altri film capitali di Herzog (Aguirre, Fitzcarraldo, Nosteratu, Cuore di Vetro, Anche i nani hanno cominciato da piccoli, ecc); lo stesso regista, grande appassionato e conoscitore di musiche, ha curato le colonne sonore dei suoi film e documentari attingendo alle musiche più affascinanti e straordinarie.

Kinski (Il mio nemico più caro, così definito da Herzog che titola il suo libro sul controverso rapporto tra lui e il suo attore feticcio, o alter ego - difficile stabilire chi fosse più "pazzo" tra i due opposti ma speculari caratteri pronti fare scintille e a creare grande cinema... lo stato di "guerra" a volte è più creativa di quello della "pace"...

 

 



 

 

analogico_09
Inviato
1 ora fa, Napoli ha scritto:

Visto da poco su sky un bellissimo documentario di herzog sul suo amico/nemico kinski. 

 

 

ho il film completo, ti va di condividere il link del documentario?

  • 2 mesi dopo...
analogico_09
Inviato

Benchè non spesso, tra i film che non smetto di rivedere c'è Oci Ciorne (occhi neri) produzione italo/russa diretta da Nikita Michalkov. Liberamente tratto dai racconti di Cecov: La signora del cagnolino e Anna al collo.
Amo rivedere questo "piccolo-grande" capolavoro perchè è un film "tenero", nostalgico, delicato, ironico e graffiante, una mistura di melodramma dal fondo triste ma senza... drammatizzare", sorta di amorosa "favola" con siparietti da commedia all'italiana sovrabbondanti, a volte esuberanti, un po' "grotteschi", con quel sottile velo di "romanticismo" privo di sentimentalismi. Una messinscena varia e coinvolgente, un "girato" che diverte e fa riflettere, che anzi, sa come farsi "sentire" dallo spettatore che nel finale "capitale" finirà per capire quanto fosse  "patetica" anche la (finta?) allegria che pervade il film.

E poi  c'è dell'immaginario viscontiano, felliniano; ci sono Cecov e c'è anche l'"Oblomov" di  Ivan Goncarov, il personaggio interpretato da Mastroianni. Un'"alleanza"elettiva, cinematografica e letteraria, poetica e spirituale tra il nostro paese e la terra dei girasoli che chissà che non possa di nuovo tornare ad essere, passata la follia della guerra.
Si sorride e si partecipa, addirittura ci si innamora (come una volta al cinema magari quando si era più giovani, - ma non ricordo il nome di colui che dimostrò come la costante frequenzazione dell'arte cinematografica mantenesse il cinefilo  giovane) della misteriosa, affascinante e "tenera" "signora del cagnolino" russa, interpretata dalla bella Elena Sofonova, la quale fatalmente si innamora, corrisposta, dell'taliano sposato, donnaiolo romantico e "fanfarone" incontrato alle terme di Montecatini.
Interpreti straordinari,  protagonisti, comprimari e caratteristi. Enorme Marcello Mastroianni che mette in scena in modo naturale ogni caratteristica della sua esemplare arte attoriale, senza mai dare l'impressione che stia recitando, cosa che gli valse il premio come migliore attore protagonista a Cannes 1987 accolto da una standind ovation da tutto il pubblico.
Ineffabile la già citata  Elena Sofonov, (seguiterò ad amarla fino a 94 anni... 😄 ) e con la sempre squisita Silvana Mangano in quello che sarà il suo ultimo film. Eccellente Vsevolod Larinov  che "duetta" egregiamente con Mastroianni, tra "sogno o realtà"?

Ho voluto vedere una versione restaurata ed integrale, venti minuti in più, con un finale diverso rispetto alla vecchia versione italiana, ma non ricordo quale fosse, non mi è sembrato notare particolari differenze, magari  a causa della mia memoria che  a volte fa cilecca.., o forse perchè immerso (come forse lo è il protagonista del film)  in quella dimensione mentale situata tra la veglia e il sogno ...


 

 

OCI-CIORNIE-Manifesto-4F-Poster-Original

 

 

  • 3 settimane dopo...
Inviato

@analogico_09 il mio Marcello preferito :non è quello dell'abbagliante bellezza ( Antonioni/la notte,Fellini/8e mezzo) ma quello dei colpi di tosse a Civitavecchia,nel piccolo  e magico "che ora è?"..

Subito dopo ,provo molta tenerezza per il personaggio del professore in "verso sera'' della Archibugi.Qui scrive uno scemo, perché frequentavo un piccolissimo ristorante, vicino il villaggio dei pescatori...una sera,nel tavolo accanto, c'era LUI insieme a qualche amico.. l'immagine davanti a me

non coincideva piu' con quella che cento films avevano sedimentato nella  testa.Era una sensazione enorme, cercavo di mettere insieme "quel lui" di Antonioni con quello "di" Scola e Troisi.. Impossibile,abbassai lo sguardo..Al contrario,

la mia ragazza esultò uscendo dal ristorante : Oh ! sono stata guardata da MASTROIANNI!

 

  • Haha 1
analogico_09
Inviato

Sono tanti i film in cui Mastroianni lasci un segno memorbile. Così a caso mi vengono in mete due film molto diversi tra di loro nei quali troviamo il Mastroianni malinconico e umano ne "I Compagni" di Monicelli, e ne' "Lo Straniero", da Camus, film "minore" di Visconti con Mastroianmi nei panni di un personaggio indifferente, cinico, freddo, assassino suo malgrado.., insomma un po' "esistenzialista"... FIlm minore per la critca, a me piace, imperfetto ma intrigante (come non menzionare Anna Karina bella e sensuale più che mai). Mi sa che lo rivedrò a breve.

  • 5 settimane dopo...
analogico_09
Inviato
Il 6/7/2022 at 20:30, analogico_09 ha scritto:

Ho voluto vedere una versione restaurata ed integrale, venti minuti in più, con un finale diverso rispetto alla vecchia versione italiana, ma non ricordo quale fosse, non mi è sembrato notare particolari differenze, magari  a causa della mia memoria che  a volte fa cilecca.., o forse perchè immerso (come forse lo è il protagonista del film)  in quella dimensione mentale situata tra la veglia e il sogno ...

 

 

Ho rivisto e confrontato i due finali di Oci Ciorne, opto decisamente per il finale più intimo e "sussurrato", meno esplicito e dunque più "aperto"...

analogico_09
Inviato

 

Si parlava nell'altro topic dei film visti aperto da @Partizan del biopic su Morricone diretto da Tornatore. Questo mi ha fatto tornare in mente la figura del grande conpositore di musiche cinematografiche, un film in particolare che si avvale del contributo di Morricone e che stimolato dalla discussione ho rivisto ieri sera.

Riesumo il commento che scrissi dopo la visione del film visto in anteprima nel 2005 con la quale mi ritrovo ancora auto-d'accordo...

 

 

Fateless - Senza Destino
 
“L’inferno non esiste, i lager si”
 
Stanley Kubrick e Frederic Raphael (sceneggiatore di Eyes Wide Shut), parlano dei film sull’Olocausto.
Kubrick … “Ok, e quali altri film hanno fatto?”
Raphael “(sapendo benissimo che è a questo che vuole farlo arrivare) Beh, c’è Schlindler’s List)”
Kubrick “E ti sembra un film sull’Olocausto?”
Rapahel “No? E su cos’è?”
Kubrick “E’ un film sul successo. L’Olocausto riguarda sei milioni di persone che vengono ammazzate. Schlindler’s List parla di seicento persone che non vengono ammazzate” (da Eyes Wide Open di Frederic Raphael – Einaudi)
 
 

Breve premessa, non per tentare un’improbabile ed inopportuno raffronto diretto tra due pellicole diversissime tra loro, nonostante le incidentali assonanze, ma per meglio evidenziare, esemplificando, come il punto di vista di SENZA DESTINO - contrariamente a quanto si assista nel film spielberghiano - sia squisitamente interiore, antieroico, antiretorico, tutto coeso intorno alla figura del giovane protagonista e alle sue tragiche vicende, pertanto idealmente e poeticamente più vivino a "Il Pianista" di Roman Polanski.
Un film sull'Olocausto è sempre un’impresa difficile e rischiosa, ma l’ungherese Lajos Koltaj, tra i più accreditati e prolifici direttori della fotografia (fedele collaboratore di Istvan Szabo: "Mephisto", attivo nel cinema statunitense ed anche “fotografo” di "La leggenda del pianista sull’oceano" e "Malena"  entrambi di Tornatore), al suo primo film come regista, vince la scommessa con un’opera di raro ed esemplare rigore formale e contenutistico.
Il suo racconto si avvale di un impianto narrativo e figurativo dai toni misurati ma potenti ed evocativi, propri del cinema che nnon abusa dell'effetto e dall'affetto speciali, della spettacolarità fine a se stessa, nell'’ostentazione del sentimentalismo più accattivante e ricattatorio tipico dei "registi dinasauro" (citando Samuel Fuller che non amava il cinema "fracassone" hollywoodyano) .
Tratto da “Fateless”, il romanzo autobiografico di Imrek Kertèsz, premio Nobel per la letteratura (2002), SENZA DESTINO è la storia vera del quattordicenne ebreo ungherese Gyuri Nagy, il quale, deportato ad Auschwitz e Buchenwald, riuscirà a sopravvivere a quelle inenarrabili violenze, fisiche e morali, grazie anche alla solidarietà ed al sostegno di alcuni sfortunati compagni di “viaggio”, la maggior parte dei quali non farà ritorno a casa.
Eppure.., persino nell’inferno dei lager, in balia del destino, costantemente in bilico sulla sottile linea che separa la vita dalla morte, il sentimento umano più nobile riesce a trovare il modo di sopravvivere a tali disperanti atrocità, nel riconfermare, attraverso un doloroso percorso di trasfigurazione lirica, il valore centrale ed inalienabile della dignità umana.
Tutti mi chiedono dell’orrore, ma nessuno della felicità dei campi di concentramento”, recita a tale riguardo, la voice-off, filo conduttore della narrazione affidata allo stesso protagonista, alle ultime svolte del film.
In un cast attoriale di primissimo ordine, il giovane Marcell Nagy eccelle nei panni del Gyuri. Il bel volto del ragazzo, coronato da una folta e riccia capigliatura, è lo specchio dell’orrore definitivo vissuto, fino a quando i residui sprazzi di vita agonizzante in un corpo martoriato, brilleranno solo nei suoi occhi, troppo grandi e profondi, e "tenaci".., per un viso così smagrito e segnato dalle gravi privazioni e violenze subite.

Con una straordinaria ed efficace economia di mezzi, forte di una solida sceneggiatura ben stratificata, supportata da un montaggio lineare e perfettamente oliato, con un senso tagliente del dramma (tolto il “melo”), durante 128 minuti, neppure uno di troppo, il regista annichilisce lo spettatore, lo induce a "partecipare" e riflettere sugli orrori della barbarie nazista, in maniera se vogliamo inedita, certamente personale, con ammirevole lucidità ed onestà intellettuale e vivo, penetrante, crudo e poetico realismo.

 Il gesto, i piccoli atti quotidiani in quelle disperate condizioni di (non) vita, come il litigarsi con un compagno di sventure una ripugnante zuppa o delle bucce di patate marce – estremo, bestiale, e pur tuttavia inequivocabile segno di attaccamento alla vita -, contano e significano molto di più delle parole e dei dialoghi.
Di Gyula Pados, la fotografia dai colori saturi, virata in seppia, ricca di contrasti e controluci, rende pienamente il senso d’estraniamento ed isolamento rappresentati, il tragico livore che attanaglia le scene ambientate nel lager.
Le "melodie" composte da Ennio Morricone, senza mai sovrapporsi alle immagini, fuse con esse, si fanno sottolineatura degli stati d’animo, dell’intera gamma dei sentimenti umani, attenuando "pietosamente" le crudezze, le scene più dolorose ed efferate, accentuando lo slancio lirico nei momenti di "religioso" patetismo e di catarsi.
Koltaj non chiude sulle morali univoche e retoriche, sempre in agguato ove si affronti un argomento complesso e impegnativo come quello dell'Olocausto. Al contrario, e ciò impreziosisce maggiormente l'opera, SENZA DESTINO resta aperto ad una molteplicità di significati che potrebbero apparire controverse od (auto) critici  - “Eravamo noi il DESTINO” -, ma sempre riflessive, mai scontate e manichee.



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  • 3 mesi dopo...
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Truman Capote: a sangue freddo

 

Regia: Bennett Miller (2005)

 

Si parlava ieri l'altro con un amico di Philip Seymour Hoffman, il grande interprete prematuramente scomparso nel 2014, il più grande del momento, e ho provato il desiderio di rivederlo in una delle sue più straordinarie prove, in un film nel quale ... il film è l'attore stesso. Recupero gli appunti presi dopo la visione aggiornando le mie prime e lontane impressioni con le quali concordo ancora...



Una storia di profonde e fredde solitudini della "provincia americana"


Truman Capote è uno scrittore di buona fama, noto nell’ambiente del jet set newyorkese per le sue eccentricità e talentuose frivolezze, quando, nel 1959, si imbatte in un articoletto del New York Times che parla di un efferato assassinio multiplo avvenuto in una remota contrada del Kansas.
La stampa si occupa spesso di storie d’ordinaria follia, ma lo scrittore resta colpito dalla particolarità di quel crimine. Interessato ad affrontare il fatto cronaca con gli “strumenti” del romanziere, viene incaricato a procedere seguendo tale traccia dal capo redattore del The New Yorker.
Accompagnato dall’amica/collega Herpes Lee (premio Pulitzer per “Il buio oltre la siepe”, romanzo dal quale Robert Mulligan trarrà il bellissimo, omonimo film), Capote si reca sul luogo del delitto per indagare  sull’impatto che la vicenda aveva avuto sulla piccola comunità rurale di Halcomb, guadagnandosi, con la bizzarra ma diretta vivacità dei suoi modi, la fiducia dell’agente investigativo, degli amici delle vittime. Entra in contatto con gli assassini stessi, prima in un fugace approccio, poi durante l’intero iter processuale, instaurando con Perry Smith – uno dei due criminali rei confessi condannati a morte – un rapporto controverso e lacerante.
Le affinità tra lo scrittore e l’omicida sono rintracciabili nei rispettivi trascorsi esistenziali, nelle traumatiche e dolorose esperienze infantili, nella nevrotica ed ambigua tensione psicologica e intellettuale che spingono Capote ad interessarsi del ricorso giudiziario, al fine di evitare che la pena capitale venisse eseguita.
Da quel “privilegiato” ed insieme conflittuale punto di osservazione, diventa difficile per lo scrittore gestire gli scrupoli morali, l’etica professionale, la generosità, l’amicizia, la prospettiva di un successo letterario annunciato, il cinismo (colpevole?) che lo spinge ad abbandonare, in ultima istanza, i due detenuti al proprio destino di morte.
Ogni rinvio dell’esecuzione mette a dura prova l’equilibrio di Capote, costretto a rimandare ulteriormente il capitolo conclusivo del suo romanzo: “A Sangue Freddo”, acclamato capolavoro della letteratura americana degli anni ’60, risultato di un’indagine giornalistica, sorta di viaggio d(n)ella psiche che, in ultima analisi, diventa una ricerca del sè riflesso in una tragica ed insieme affascinante avventura, nella persona “gemella” incarnata da un killer (“E’ come se io e Perry fossimo vissuti nella stessa casa” – cit).
A vicenda conclusa, non a caso, Capote cadrà in uno stato di depressione ("Il momento in cui Truman riesce ad ottenere tutto quello che ha sempre voluto, coincide con l’inizio del suo inarrestabile declinio” – cit).
Al suo primo lungometraggio, Bennett Miller (pluripremiato autore di documentari e di spot pubblicitari), si "limita" a raccontare un segmento della vita del protagonista. "Truman Capote – A Sangue Freddo, non è quiondi un film biografico, sebbene la figura dello scrittore americano ne esca a tutto tondo, grazie alla solida sceneggiatura (un adattamento di Dan Futterman del libro biografico di Gerald Clarke intitolato “Capote”) dalla quale traspaiono, tra le pieghe di un appassionante e variegato tracciato narrativo, ed efficace scavo psicologico, gli aspetti più salienti della parabola artistica ed esistenziale dello scrittore.
In un film complesso, che ha molto da dire, nel quale i personaggi contano più delle vicende narrate, alcune circostanze e tematiche trasversalmente sfiorate, lasciate ai margini del flusso narrativo, quali la doppia faccia di un’America che rincorre il felice sogno del successo e del perbenismo, e che pure cela nel tessuto connettivo ampie sacche di violenza, di frustrante emarginazione, di sradicamento umano, sociale e culturale, acquistano tuttavia grande importanza nel gioco d’insieme, grazie alla rigorosa e puntuale messinscena che consente allo spettatore di rintracciare le tessere di un ricco e compiuto mosaico, meno abbozzato di quanto non possa apparire in superficie.
La regia di Miller evoca gli archetipi del cinema classico, del film-inchiesta dai toni asciutti, misurati, quasi distaccati, e rifugge ogni forma di spettacolarità in eccesso, riducendo ai minimi termini le valenze melodrammatiche. L’impianto con il figurativo, con le statiche inquadrature a tratti pittoriche del lirico paesaggio campestre ed urbano, le livide atmosfere ottenute con le più cupe gradazioni del grigio, del marrone, del verde, contribuiscono ad sottolineare con grande naturalezza il carattere severo della vicenda.
Le musiche “minimaliste” per pianoforte ed archi del grande compositore Mychael Danna (collaboratore di autori importanti quali Atom Egoyam, Ang Lee, Istvan Szabo, Terry Gilliam, Mira Nair), sottolineano con rara efficacia e discrezione i passaggi filmici più sensibili e toccanti.
In un cast di ottimo livello, in cui spicca l'intenso Clifton Collins Jr. nei panni di Perry Smith, la parte del leone la fa naturalmente Philip Seymour Hoffmann, in perfetto stato di grazia, semplicemente magico nel ruolo di Truman Capote, ben oltre l’impressionante somiglianza fisica con lo scrittore che l'interprete riesce genialmente a non fa apparire caricaturale. 
Già vincitore di un Golden Globe e in corsa per gli Oscar come miglior attore protagonista (nel momento in cui scrivevo non era stato ancora assegnato ad Hoffmann l'Oscar 2005 per il miglior attore protagonista) si riconferma grande interprete, uno dei migliori se non il migliore, dell’attuale panorama cinematografico mondiale.
RIP

 


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  • Melius 2
  • 1 anno dopo...
Inviato

 

Si parlava del fim di Spike Lee nell'altro topic dei film visti e, poichè è uno dei miei film del cuore, mi è venuta voglia di rivederlo. Già che ce l'ho ancora  vorrei condividere la mia vecchia recensione di "Inside Man" che scrissi per un sito di cinema on line nel 2006 data di uscita del film.

Posto in questo vecchio spazio che aprii per parlare dei nostri film preferiti, che riteniamo più importanti, per farlo risalire un po' su visto che era finito in cantina... Posto qui anche per non fare arrabbiare Francesco @Guru... postandolo nell'altro contenitore... :classic_biggrin: :classic_wink:



QUANDO L’APPARENZA (NON) INGANNA

Tutte le opere d’arte sono forme d’intrattenimento, ma non tutte le forme d’intrattenimento sono opere d’arte e l’approccio più credibile all’arte è quello che passa per l’intrattenimento, facendo si che l’arte vi prenda di sorpresa.” (Gavin Lambert)

Con una sequenza iniziale emblematicamente ispirata agli archetipi del teatro shakespeariano, l’ultimo parto di Spike Lee è una robusta favola metropolitana, un’opera in nero carica di suspense e di sorprese, caratterizzata da una messinscena adrenalinica, di grande dinamismo narrativo e visivo.
Il film prospetta e ribalta, senza soluzione di continuità, il tratto logico e controverso, l’(apparente) inverosimiglianza tramica, la falsa pista, il dato scontato, ciò che si prefigura infine come una sorta di metafora politica, giocosamente “morale” e - pur nel già visto - tutt’altro che banale.
Inside Man, aldilà del “messaggio” e della speculazione ideologica ad ogni costo, è un omaggio al cinema; nell’ingarbugliato gioco dei doppi e dicotomici piani di vero e falso, d’illusorio e di reale, d’ombre e luci, di sogno/veglia ad occhi aperti/chiusi, in funzione di una purezza di forme e di linguaggi, di un montaggio ad orologeria che non ammette cadute di ritmo, né scollature narrative e stilistiche, è il cinema stesso.
Dopo il notevole "SOS- Summer of Sam", film “emblematico, ancora sul "doppio", ”, un thriller (nell’approccio) fastoso e visionario, il regista afro americano, cantore della sua gente, dei ghetti e delle commistioni culturali interrazziali, torna al ”genere” per (ri)tarare il suo gioco di scatole cinesi sui registri (apparentemente) più disimpegnati, divertiti e divertenti del cinema d’intrattenimento, non meno immaginifici delle opere dichiaramene politiche.
Lee recupera, in maniera personale e creativa (l’omaggio al cinema d’azione degli anni ’70 appare evidente, e così l’eco lumetiana di Quel Pomeriggio Di Un Giorno Da Cani), le suggestioni di una “magnifica ossessione” che - accade sempre più raramente - sembra riemergere dalle macerie di un immaginario filmico americano da tempo crollato su se stesso.
Come le Torri dell’11 Settembre, prese spesso a pretesto da un cinema “souvenir” votato alla rappresentazione meramente spettacolare, infarcito di tronfi retoricismi ed inani moralismi.
Contrariamente a quanto accade in La "25 ora", l’allegoria “terroristica” di "Inside Man", sebbene meno esplicita, non espressamente poetica, sembra più reale ed efficace, nel gioco delle parti che si rendono irriconoscibili (nulla distingue i rapinatori dagli ostaggi), segno che il “nemico” – non più inteso come minaccia esterna -, è tra noi, si mimetizza dentro di noi, tra le pieghe delle nostre coscienze, delle nostre stesse paranoie. La caccia al “mostro”, come in "Summer of Sam", si trasforma dunque in una persecuzione del diverso, dell’indesiderato, in maniera proiettiva, al fine di esorcizzare lo “straniero” che alberga in noi, estraneo alla nostra stessa coscienza.
Paranoia ed ironia, grande senso dello spettacolo, dialoghi scoppiettanti, quantunque si percepisca il gioco frenante del doppiaggio (da vedere/seb ntire assolutamente in originale) convivono felicemente in un’opera di pura azione cinematografica che si avvale di un cast stellare, esemplarmente superbo.

(15/04/06)

 

 

 

  • 1 mese dopo...
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Lo Spaccone Robert Rossen

 

 

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GIorni fa ho rivisto un film americano del 1956, il cult (in)dimentica(bile)to "Lassù qualcuno mi ama" del grande Robert Wise, sulla sfida sportiva ed esistenziale del pugile Rocky Graziano,  una leggenda della box, interpretato da Paul Newman, giovane, bello e sfrontato come un dio greco, affiancato dalla nostra connazionale Anna Maria Pierangeli, attrice non di meno affascinante, che ha raggiunto il Paradiso anzitempo, nel 1971.

Robert Wise è inoltre autore di un altro film molto drammatico sul mondo a volte spietato, violento e cinico della box di quei tempi intesa per chi la praticasse come forma di riscatto sociale ed esistenziale, che avesse anche a che fare con il sisogno di recuperare il senso l'autostima vacillante.
"Stasera ho vinto anch'io" (1949) con Robert Ryan, Audrey Totter, ecc.

 

Avendo rivisto il primo film che mi ha ricordato il secondo, la rotellina della memoria ha riportato in superfice anche l'altro film epocale, ancora sullo sport come "sfida", ricatto e forse come istinto di autodistruzione del protagonista coincidente con la grande, indimenticabile figura attoriale tra le più amate e riconoscibili di Paul Newman, ancora lui...

Quando Paul morì, nel 2008, mi sembrò come se morisse un'era. Uno dei suoi film più celebrati, "Lo Spaccone", 1961, un capolavoro di Robert Rossen, più di altri entrò prepotentemente e centratamente nell'immaginario cinematografico della generazione di giovani spettatori cui appartenevo. L'America nel bene e nel male, con la sua terribile "provincoia" e le sue "ingenuità" sequitava ad entrare da noi con un carico di immaginari che non lasciavano indifferenti. Nel bene e nel male.

Naturalmente ho voluto rivedere anche questo film conclusivo di una sorta di "trilogia" personale,  e vorrei ricordare l'attore a modo mio, piuttosto che recensire il film, "citando" una memorabile sequenza de "Lo Spaccone" la cui storia, la cui figura  immediatamente dopo la sua uscita finì per segnare, come divevo sopra,  l’immaginario di alcune generazioni di spettatori ammirati, commossi, riconoscenti, “imitanti”. Una scena apparetentemete semplice, defilata, a mio avviso un'autentica scena madre, uno momento filmico nodale.

Dopo Lo Spaccone, il biliardo non fu più il gioco plebeo dei sordidi locali da film di "genere", un banale e stereotipato fondale con cui creare l"atmosfera" da film noir, o polar, poliziesco, gang, etc.
Al contrario, il gioco del bigliardo, "rinobilitato", entrò nella nostra idea come un simbolo, come il luogo  della vita in cui si consumavano le passioni, il sentimento, l'amore, la  crudeltà, l’arroganza, l'avidità, anche occasione di scontro/incontro “cavalleresco” e leale tra sfidanti, luogo dell’azzardo, del riscatto, del duro ideale che le giovani, inquiete e smarrite coscienze del post-guerra faticavano a sbarcare, dovendosi misurare, in quel clima di guerra fredda, reale e simbolica, con le terribili spalle della metropoli americana.

Ancora “sfide” per l'attore Newman, straordinario interprete anche nella pellicola di Wise.., in seguito, in età matura, anche protagonista del "seguito" rischioso ma risuscito di Scorsere: "Il Colore di Soldi".

La scena che vorrei raccontare è la seguente:

In una delle tante epiche sfide da "saloon western" (Lo Spaccone è un western metropolitano), serratissime, estenuanti, ma leali, Eddie/ Newman, lo spaccone, scruta ammirato il grande campione della stecca, a cui aveva lanciato la sfida "generazionale", il leggendario Minnesota Fats, maturo, "rotondo". elegante,  bello e imponente come una testuggine romana, l'avversario che imbucava una palla dietro l’altra, lasciando il nostro a lungo in “panchina”.

Rivolgendosi al socio, durante la lunga pausa, mentre le stava prendendo, lo spaccone, ammirato, così parla dell'avversario:

Che forza! E’ come se suonasse un violino … oh… è fantastico… quella montagna di grasso guarda lì come si muove … come una ballerina… guarda le dita, quei cotechini… Che forza … è come se suonassero un violino!” (traduzione google dall'inglese)

Noi cercammo di imitarlo, imparammo in molti a “steccare”, si andava spesso nelle sale da biliardo e in altri circoletti popolari per sfide ostinate e incaSSose tra amici per riaffermare un certo orgoglio del saperci fare con la stecca, con la mira, con la precisione del tocco, della sfumatura di tocco. della strategia del gico, senza mai perdere la misura della lealtà e il senso sacro dell'amicizia. Ci si sfotteva a iosa ma, come ci dicevamo,:"chi le pija nun s'engrugna"...

Ora, al di la della coatta metafota autoreferenzialistica, ripensando anche al film di Rossen, allo Spaccone, mi verrebbe da dire che Il mondo avrebbe ancora bisogno di questi “personaggi”, di queste testimonianze di lealtà e amicizia virile, di maggior poesia, anche nei momenti più duri del divenire, delle sfide, dei contradti, per smussare le asprezze della vita sempre più stranianti e disumane.

Sempre con graditudine, dunque, e commozione, eterna ammirazione per il "nostro" Spaccone!



 

 

 

 

 

Inviato

@analogico_09 Bellissimo film, visto e rivisto più volte. vorrei ricordare di

 Paul Newman l'altra grande interpretazione di "Nick Mano fredda" pochi anni dopo

 di S. Rosemberg.

Tra parentesi Etta James, la grande cantante soul, ha sempre sostenuto che

Minnesota Fats fosse il suo padre e che avesse abbandonato lei e sua madre.

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