Savgal Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto @extermination Suggerisco la lettura dell'ultimo paragrafo del capitolo XI de "Il secolo breve" di Hobsbawm, da cui ho tratto diverse considerazioni. Poi Putnam "Comunità contro individualismo".
LUIGI64 Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto 9 minuti fa, extermination ha scritto: frustrati ed ignoranti; gli altri Quello sempre... Si capisce 😎😁 P.s. Tra l'altro non di rado, ciò che non tolleriamo negli altri (con componente emotiva rilevante), trattasi di una nostra istanza rimossa e non integrata che riconosciamo soltanto nel comportamento altrui (proiezione/Ombra) In sintesi, se scorgiamo narcisisti in ogni dove...☺️
extermination Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto 14 ore fa, Savgal ha scritto: Ho conosciuto tanti che dinanzi ad un argomento che a suo tempo è stato oggetto del percorso di studi in cui hanno conseguito il diploma di scuola superiore dimostrano una grande ignoranza. Il diplomato all’istituto tecnico commerciale che ha cognizioni di diritto e di economia pari a chi si è fermato alla scuola dell’obbligo. In ambito scientifico la situazione è in moltissimi casi disastrosa, una semplice moltiplicazione di frazioni mette molti in difficoltà, in fisica e scienze non sono solo assenti le conoscenze, ma non è stato neppure compreso il metodo e i principi della disciplina. La grandissima parte di loro non legge un libro da decenni. Osserva che nella gran parte dei casi non si porta un testo o un autore a supporto delle proprie tesi. Ma la deriva narcisistica li ha convinti che una breve ricerca su internet sia sufficiente a compensare la propria ignoranza. Che costoro siano fin troppo facilmente manipolabili è purtroppo un dato di fatto. In estrema sintesi ed in buona sostanza, l’Italia è nelle mani di una manica di narcisisti, frustrati, ignoranti ed incapaci. Bisogna attrezzarsi senza indugio.
senek65 Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto 17 ore fa, Gustavino ha scritto: e' sempre la crema chimica ,fa' entrambe le cose : non funziona(finta protezione ) ed e' tossica Dovresti smettere di dare informazioni mediche errate. Potreste commettere un reato.
Gaetanoalberto Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto 1 ora fa, LUIGI64 ha scritto: se scorgiamo narcisisti in ogni dove...☺️ Il fatto che tu sia narcisista non ti autorizza ad alludere che chi lo ha capito lo sia anche lui, c'é qualcosa che te lo fa pensare? E comunque, il mio narcisismo ha stabilito che il tuo è quello sbagliato
Gaetanoalberto Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto Passando dal faceto al serio, non credo che la tesi sia che "gli altri" sono narcisisti. É un tema sociologico generale. Certo è che se tutti sembrano sapere tutto e non c'è più OMS, ONU, Stato, Tribunale etc che tenga, siamo ad un maxi delirio di onnipotenza. 1
Savgal Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto @extermination Per quanto possa sembrare strano, la scuola è un punto da cui è possibile osservare i fenomeni sociali. La deriva narcisistica la si osserva dalle reazioni dei genitori sull'andamento scolastico dei figli. Troppi sono convinti di avere dei figli particolarmente intelligenti, cosa che molto spesso non corrispondente al vero. Pare quasi che la valutazione non positiva non fosse stata fatta allo studente, ma al genitore. Farò la parte del colto, illuminante per comprendere questi comportamenti è stata la lettura di "Introduzione al narcisismo" di Freud. Il narcisismo dei genitori si proietta sui figli, il che li porta a rifiutare che il loro figlio è semplicemente un normodotato. Tornando alla carenza di conoscenze scientifiche, mi sono diplomato al liceo scientifico. Dinanzi a Newton che in assenza di una matematica in grado di formalizzare il moto sviluppa il calcolo differenziale, o di Maxwell che sviluppa le sue equazioni, ci si sente un minus habens, altro che narcisismo.
Savgal Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto @Gaetanoalberto Il periodo successivo al secondo dopoguerra, la "età dell'oro", come la definisce Hobsbawm, ha visto il prevalere degli interessi della comunità e lo sforzo verso una uguaglianza sostanziale. Ciò è stato possibile sia per una contingenza storica (il confronto con sistema comunista), sia per la solidarietà di classe operaia, sia per una classe dirigente di alto livello. Tre fattori che non sono più presenti.
LUIGI64 Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto 1 ora fa, Gaetanoalberto ha scritto: fatto che tu sia narcisista Magari, sono decisamente peggiore di un semplice narcisista 😵💫 Comunque, se non si fosse capito, il meccanismo della proiezione funziona quasi sempre (per qualcuno sempre quando è implicata una reazione emotiva) per tutte quelle particolari caratteristiche che ai nostri occhi sono considerate negative Pertanto, non soltanto per il narcisismo
extermination Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto 1 ora fa, Savgal ha scritto: La deriva narcisistica la si osserva dalle reazioni dei genitori sull'andamento scolastico dei figli. Troppi sono convinti di avere dei figli particolarmente intelligenti Hai considerato il fatto che la rilevanza del fenomeno sia dovuta (fortemente influenzata e favorita) ad aspetti sociali e culturali locali?
Panurge Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto 4 ore fa, Savgal ha scritto: avere dei figli particolarmente intelligenti Beati loro 🤣 2
LUIGI64 Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto Perché qualche genitore valuta i propri figli intelligentissimi, quando invece non lo sono? Trattasi di narcisismo ? Risponde Chatgpt: In parte sì, ma non sempre. Dire che si tratti di narcisismo genitoriale può avere senso in alcuni casi, ma non è l’unica spiegazione. 🔹 Quando è narcisismo Se il genitore proietta sul figlio un proprio bisogno di sentirsi superiore attraverso di lui (“Mio figlio è intelligentissimo → quindi io sono un genitore speciale”). Se non riesce ad accettare la normalità del bambino e lo spinge continuamente a “dimostrare” eccellenza. Se l’attenzione è più sull’immagine sociale (“che figura fa mio figlio”) che sul benessere autentico del figlio. 🔹 Quando non è narcisismo Può essere semplice orgoglio o idealizzazione affettuosa. Può nascere dall’ansia di garantire un futuro migliore al figlio. Spesso è solo mancanza di obiettività, non necessariamente patologica. 👉 In sintesi: in certi casi è narcisismo (il figlio visto come estensione del sé), in altri è più un “velo d’amore” o un’illusione benevola.
Savgal Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto @extermination Quel che abbiamo supposto essere il primario narcisismo infantile, il quale costituisce una delle premesse delle nostre teorie della libido, è più facilmente desumibile facendo riferimento a un altro fattore che ricorrendo all'osservazione diretta. Se consideriamo l'atteggiamento dei genitori particolarmente teneri verso i loro figli, dobbiamo riconoscere che tale atteggiamento è la reviviscenza e la riproduzione del proprio narcisismo al quale i genitori stessi hanno da tempo rinunciato. L'ottimo indizio della sopravvalutazione, di cui abbiamo già apprezzato il valore come stigma narcisistico per quel che attiene alla scelta oggettuale, costituisce, com'è ben noto, l'elemento dominante di questa relazione emotiva. Si instaura in tal modo una coazione ad attribuire al bambino ogni sorta di perfezioni di cui non esiste indizio alcuno se lo si osserva attentamente, nonché a dimenticare e coprire ogni sua manchevolezza (a questo fatto si riallaccia altresì il misconoscimento della sessualità infantile). Al tempo stesso esiste nei genitori anche la tendenza a sospendere in favore del bambino tutte le acquisizioni della civiltà al cui rispetto essi stessi hanno costretto il proprio narcisismo, e a rinnovare per lui la rivendicazione di privilegi a cui da tempo hanno rinunciato. La sorte del bambino dev'essere migliore di quella dei suoi genitori; egli non deve esser costretto a subire le necessità da cui, come i genitori sanno, la vita è dominata. Malattia, morte, rinuncia al godimento, restrizioni imposte alla volontà personale non devono valere per lui, le leggi della natura al pari di quelle della società devono essere abrogate in suo favore, egli deve davvero ridiventare il centro e il nocciolo del creato, quel "His Majesty the Baby", che i genitori si sentivano un tempo. Il bambino deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori: il maschio deve diventare un grand'uomo e un eroe in vece del padre, la femmina deve andar sposa a un principe in segno di riparazione tardiva per la madre. Nel punto più vulnerabile del sistema narcisistico - l'immortalità dell'Io che la realtà mette radicalmente in forse - si ottiene sicurezza rifugiandosi nel bambino. L'amore parentale, così commovente e in fondo così infantile, non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita; tramutato in amore oggettuale, esso rivela senza infingimenti la sua antica natura. S. Freud “Introduzione al narcisismo” (1914)
LUIGI64 Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto Sul narcisismo hanno scritto tanti studiosi, con molti contributi diversi Ma evito di postare qualche loro pagina (già fatto in passato) per non andare fuori tema e per evitare che il thread diventi monotematico Ma rimango, della mia personalissima opinione, confermata anche da AI Non tutto, banalmente, può essere riconducibile al narcisismo In sintesi, non generalizzerei D'altro canto, mi pare che siamo tutti un po' narcisisti Narcisismo che si esprime, ovviamente, con declinazioni e gradi variabili diversi
Savgal Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto @LUIGI64 Il ritorno al narcisismo infantile è la conseguenza di "un mondo di individualismo egocentrico spinto ai suoi estremi limiti", di cui il complottismo è conseguenza. Sotto posterò alcune pagine dal "Il secolo breve" di Hobsbawm, un libro che ritengo una lettura obbligata in grado di far comprendere al lettore molti dei fenomeni del nostro tempo. Le pagine sono tratte dalla fine del capitoli XI dedicato. 1
Savgal Inviato 22 Agosto Inviato 22 Agosto Nel caso in cui un'attività sessuale fosse stata proibita in passato, era facile compiere gesti di rottura contro le vecchie tradizioni. Quando invece fosse stata tollerata in precedenza, ufficialmente o ufficiosamente, come per esempio nel caso delle relazioni lesbiche, bisognava sottolineare che essere lesbica era un gesto di rottura. Divenne perciò importante un’adesione pubblica a ciò che fino ad allora era stato proibito o era stato considerato contrario alle convenzioni sociali: bisognava cioè dichiararsi apertamente omosessuale, etc. Le droghe, tranne che per l’alcol e il tabacco, erano state confinate fino ad allora a piccoli gruppi sociali, di livello alto o basso o marginale, e non avevano beneficiato di una legislazione permissiva. Non si deve spiegare la diffusione dell’uso delle droghe solo come un gesto di ribellione, perché le sensazioni che gli stupefacenti procuravano potevano essere motivo d’attrazione sufficiente. Tuttavia, fare uso di sostanze stupefacenti era un’attività illecita e proprio il fatto che la droga più diffusa fra i giovani occidentali, la marijuana, fosse probabilmente più innocua dell’alcol o del tabacco, fece sì che fumarla (fumare è una tipica attività sociale) fosse considerato non soltanto un atto di sfida, ma un gesto di superiorità nei confronti di coloro che la proibivano. Negli ambienti più anarchici dell’America degli anni ’60, nei quali i fans della musica rock si riunivano con gli studenti radicali, il confine che separava fumare uno spinello e costruire barricate sembrava spesso assai confuso. L’area sempre più estesa dei comportamenti pubblicamente accettabili, compresi quelli sessuali, accrebbe forse la sperimentazione e la frequenza di comportamenti considerati fino ad allora inaccettabili o devianti, e certamente ne accrebbe la visibilità. Negli USA il venire allo scoperto di una subcultura omosessuale apertamente praticata non si verificò fino alla metà degli anni ’60, neppure a San Francisco e a New York, le due città che dettavano le nuove tendenze e che si influenzavano l’un l’altra. L’emergere degli omosessuali come un gruppo di pressione politica in queste due città avvenne solo negli anni ’70 (Duberman e altri, 1989, p. 460). Comunque il significato più rilevante di questi mutamenti fu che, implicitamente o esplicitamente, essi rifiutavano l’ordine delle relazioni umane nella società, stabilito da una lunga tradizione storica e sanzionato ed espresso dalle convenzioni e dalle proibizioni sociali. Ancor più significativo è il fatto che questo rifiuto non avvenne in nome di altri modelli di ordinamento sociale - sebbene non mancassero gli ideologi «libertari» che sentivano la necessità di etichettare e di giustificare la contestazione del sistema e dell’ordine tradizionale, bensì in nome dell’autonomia illimitata del desiderio individuale. Si presupponeva un mondo di individualismo egocentrico spinto ai suoi estremi limiti. Paradossalmente, i ribelli contro le convenzioni e le restrizioni sociali condividevano i presupposti sui quali era costruita la società dei consumi di massa o almeno le motivazioni psicologiche sulle quali facevano leva con più efficacia coloro che vendevano beni e servizi ai consumatori. Si presupponeva tacitamente che il mondo consistesse di parecchi miliardi di esseri umani, la cui identità consisteva nel perseguimento del proprio desiderio individuale, compresi i desideri un tempo proibiti e malvisti, ma ora permessi, non già perché fossero divenuti moralmente accettabili, ma perché erano nutriti da così tanti individui. La liberalizzazione almeno fino agli anni ’90 non ha però compreso l’uso delle droghe, che hanno continuato a essere proibite con diversi gradi di severità e con scarsa efficacia. Dalla fine degli anni ’60 si sviluppò rapidamente un enorme mercato della cocaina, principalmente fra i ricchi ceti medi del Nordamerica e, poco dopo, dell'Europa occidentale. Questo fenomeno, insieme con la crescita del mercato dell’eroina, diffusasi un po’ prima della cocaina, presso strati sociali più bassi e soprattutto in Nordamerica, ha trasformato per la prima volta le organizzazioni criminali in autentiche imprese economiche di grandi dimensioni (Arlacchi, 1983, pp. 215, 208). 4 La rivoluzione culturale degli anni ‘60 e ‘70 può dunque essere intesa come il trionfo dell’individuo sulla società, o piuttosto come la rottura dei fili che nel passato avevano avvinto gli uomini al tessuto sociale. Infatti il tessuto sociale non era formato soltanto dalle effettive relazioni fra esseri umani e dalle loro forme organizzative, ma anche dai modelli generali di tali relazioni e dagli schemi che, secondo le aspettative comuni, dovevano regolare i comportamenti reciproci tra le persone, i cui ruoli erano prescritti, benché non sempre fossero messi per iscritto. Da ciò il senso di insicurezza spesso traumatica che sorgeva quando i vecchi modelli di comportamento venivano capovolti o perdevano la loro ragione effettiva; da ciò anche il senso di incomprensione tra coloro che avvertivano questa perdita e coloro che erano troppo giovani per aver conosciuto qualcos'altro che non fosse una società anomica. Un antropologo brasiliano negli anni ‘80 descrisse l’indecisione e la tensione di un uomo del ceto medio, cresciuto nella cultura di stampo mediterraneo, fondata sul senso dell’onore e della vergogna, tipica del suo paese, di fronte all’eventualità sempre più comune che una banda di rapinatori gli chiedesse il denaro e minacciasse di violentare la sua fidanzata. In tali circostanze ci si era sempre aspettato che un gentiluomo difendesse la donna, se non il denaro, a costo della vita; e che una donna avrebbe preferito la morte a un destino che proverbialmente era «peggio della morte». Tuttavia nella realtà delle grandi città alla fine del ventesimo secolo era improbabile che un tentativo di resistenza avrebbe salvato l’«onore» della donna o il denaro. La linea di condotta più razionale in tali circostanze era di cedere, in modo da evitare che gli aggressori si infuriassero e arrivassero al punto di ferire o di uccidere. Quanto all’onore di una donna, che tradizionalmente si identificava con la verginità prematrimoniale e con la completa fedeltà coniugale dopo il matrimonio, in che cosa consisteva e dunque che cosa bisognava difendere alla luce dei comportamenti sessuali praticati e accettati negli anni ’80 dalle persone colte ed emancipate? Tuttavia, come dimostrarono le indagini dell’antropologo, queste considerazioni non rendevano meno traumatica quella difficile situazione. Circostanze meno estreme - per esempio normali rapporti sessuali – potevano comunque produrre una insicurezza e una sofferenza mentale proporzionate alla loro natura. Poteva capitare che l’alternativa a una vecchia convenzione, per quanto irragionevole, non fosse già una qualche nuova convenzione o un comportamento più razionale, bensì l’assenza completa di regole, o almeno l’assenza di un’opinione comune su ciò che si doveva fare. Nella maggior parte del mondo, le vecchie convenzioni e i vecchi tessuti sociali, benché minati da un quarto di secolo di trasformazioni socio-economiche senza precedenti, erano sotto tensione, ma non si erano ancora disintegrati. Questa fu una fortuna per la maggioranza del genere umano, soprattutto per i poveri, dal momento che la rete dei parenti, la comunità e il vicinato erano essenziali per la sopravvivenza economica e specialmente per aver successo in un mondo in trasformazione. Nella maggior parte del Terzo mondo la rete delle relazioni sociali funzionava come se fosse la combinazione di servizi informativi, di scambi lavorativi, di un consorzio tra capitale e lavoro, di meccanismi per il risparmio e di un sistema di sicurezza sociale. Infatti senza la coesione familiare i successi economici di alcune parti del mondo - per esempio l’Estremo Oriente - si spiegherebbero difficilmente. Nelle società più tradizionali le tensioni si mostrarono principalmente nella misura in cui il trionfo dell’economia di mercato minò la legittimità dell’ordine sociale fino allora accettato, fondato sull’ineguaglianza, sia perché le aspirazioni si fecero più egualitarie sia perché le giustificazioni funzionali dell’ineguaglianza vennero erose. Pertanto la ricchezza e lo sperpero dei ragià indiani (come pure l’immunità dalle tasse della famiglia reale britannica, che non venne messa in discussione fino agli anni ’90), non erano stati oggetto dell’invidia e del risentimento dei propri sudditi, come lo sarebbero potuti essere le ricchezze e i privilegi di un vicino. Si trattava piuttosto di segni e di attributi confacenti al ruolo speciale che quei personaggi rivestivano nell’ordine sociale e forse perfino nell’ordine cosmico, un ordine che secondo l’opinione diffusa conservava, rendeva stabile e certamente simbolizzava il loro regno. In maniera un po’ diversa, i privilegi e i lussi dei miliardari giapponesi erano considerati meno inaccettabili nella misura in cui non erano visti come il frutto della ricchezza di cui un individuo si era appropriato, ma piuttosto come spettanze per le posizioni ufficiali che quei miliardari ricoprivano nell'economia, alla stregua dei privilegi che competono ai ministri del governo inglese - automobili di rappresentanza, residenze ufficiali etc. — i quali vengono tolti non appena si cessa di ricoprire la carica a cui quei privilegi sono annessi. L’effettiva distribuzione dei redditi in Giappone, come sappiamo, è assai meno diseguale che nelle società capitalistiche occidentali. Tuttavia chiunque abbia osservato la situazione giapponese negli anni ’80, anche da lontano, può a stento evitare l'impressione che durante quel decennio di boom economico l’enorme accumulazione di ricchezza personale e la sua ostentazione pubblica rendessero assai vistoso il contrasto tra le condizioni di vita delle persone comuni in Giappone - soprattutto nelle loro case, assai più modeste di quelle degli occidentali appartenenti allo stesso ceto sociale - e le condizioni in cui vivevano i giapponesi ricchi. Forse per la prima volta i ricchi non erano più sufficientemente protetti dal fatto che i loro privilegi in passato erano sempre stati considerati legittime conseguenze del servizio che essi svolgevano nello stato e nella società. In Occidente, i decenni della rivoluzione sociale avevano portato a una distruzione assai più ampia dei vecchi codici etici e sociali. I termini di tale crollo sono più facilmente visibili nei discorsi ideologici pubblici che caratterizzano questi ultimi anni del secolo nei paesi occidentali, specialmente in quelle dichiarazioni pubbliche che, pur non avanzando la pretesa di essere logicamente coerenti e approfondite, vengono formulate come se esprimessero opinioni valide, largamente diffuse. Si pensi all’argomento, diventato comune a un certo punto in alcuni circoli femministi, che il lavoro domestico delle donne debba essere calcolato (e, se necessario, pagato) secondo il valore di mercato, oppure sì pensi alla giustificazione dell’aborto in termini di un astratto e illimitato «diritto di scelta» dell’individuo (donna). L’influenza pervasiva delle dottrine economiche neoclassiche, che nelle società occidentali secolarizzate hanno preso sempre più il posto della teologia, e (in virtù dell’egemonia culturale degli USA) l’influenza della giurisprudenza americana ultra-individualista hanno incoraggiato una tale retorica. Essa ha trovato espressione politica in una frase del primo ministro inglese Margaret Thatcher: «La società non esiste; esistono solo gli individui». Agli eccessi nella teoria corrisposero talvolta gli eccessi nella pratica. Durante gli anni ’70, i riformatori sociali nei paesi anglosassoni, giustamente turbati dagli effetti negativi (periodicamente documentati da alcune inchieste) della segregazione in istituti delle persone disabili o dei malati di mente, promossero con successo una campagna perché il maggior numero di queste persone venissero sottratte alla loro condizione di reclusione, «per essere assistite dalla comunità». Ma nelle città occidentali non c’era più una comunità che potesse prendersi cura di loro. Non c’erano più parenti. Nessuno li conosceva più. C’erano soltanto le strade di città come New York, piene di mendicanti senzatetto con le loro borse di plastica, che gesticolavano e parlavano da soli. Per loro fortuna o sfortuna (dipende dal punto di vista) molti di quei malati di mente finirono col trasferirsi dagli ospedali, che li avevano espulsi, alle prigioni che, negli USA, divennero il ricettacolo primario di tutti i problemi sociali della società americana, soprattutto dei neri. Nel 1991 il 15% di quella che è, in proporzione, la popolazione carceraria più grande del mondo - 426 prigionieri ogni centomila abitanti - era composto di individui classificati come malati di mente (Walker, 1991; Human Development, 1991, p. 32, fig. 2.10). Le istituzioni più duramente colpite dal nuovo individualismo morale furono in Occidente la famiglia tradizionale e le chiese tradizionali, le quali conobbero un tracollo vistoso nell’ultimo terzo di secolo. Il cemento che aveva tenute compatte le comunità dei cattolici romani si sbriciolò con velocità stupefacente. Nel corso degli anni ’60 la frequenza alla messa nel Québec (Canada) calò dall’80% al 20% e la natalità tradizionalmente alta dei canadesi di origine francese calò al di sotto della media nazionale canadese (Bernier, Boily, 1986). La liberazione delle donne, o più precisamente la richiesta delle donne del diritto al controllo delle nascite, del diritto all'aborto e al divorzio inserì forse il cuneo più profondo tra la Chiesa e ciò che nell’Ottocento era diventata la base dei fedeli (vedi L’Età del capitalismo). Ciò divenne sempre più evidente in paesi notoriamente cattolici come l'Irlanda e l’Italia, sede del papato, e perfino - dopo la caduta del comunismo - in Polonia. Le vocazioni religiose al sacerdozio e alla vita monastica crollarono, così come venne meno la disponibilità a vivere una vita di celibato, effettiva o formale. In breve, per il bene o per il male, l’autorità materiale e morale della Chiesa sui fedeli scomparve nel buco nero che si aprì tra le regole di vita e di moralità della Chiesa e la realtà della condotta pubblica e privata alla fine del ventesimo secolo. Le altre chiese occidentali, che avevano una presa meno forte sui propri membri, comprese alcune tra le più antiche sette protestanti, decaddero anche più in fretta. Le conseguenze materiali dell’allentamento dei tradizionali legami familiari furono forse perfino più gravi. Infatti, come si è già visto, la famiglia non era solo ciò che è sempre stata, ovvero un meccanismo che si autoriproduce, ma era anche un meccanismo di cooperazione sociale. In quanto tale, la famiglia era stata essenziale per sorreggere sia l'economia agricola sia la prima economia industriale, a livello locale e mondiale. Ciò si dovette in parte al fatto che nessuna adeguata struttura capitalistica di carattere impersonale era stata sviluppata prima che la concentrazione di capitali e il crescere dell’attività economica cominciassero a generare la moderna organizzazione delle società per azioni alla fine dell'Ottocento, ossia quella «mano visibile» (Chandler, 1977) che doveva integrare la «mano invisibile» del mercato di cui aveva parlato Adam Smith. Ma una ragione ancora più forte dell’importanza della famiglia come cellula economica era che il mercato da solo non basta a procurare l’elemento centrale di qualunque sistema che miri alla ricerca del profitto privato, cioè la fiducia; ovvero, e ciò è l’equivalente legale della fiducia, l'osservanza dei contratti. Questo rispetto dei contratti poteva essere garantito o dalla forza dello stato (come ben sapevano i teorici secenteschi dell’individualismo) o dai legami di sangue e di comunità. Pertanto il commercio internazionale, la banca e la finanza, settori nei quali le attività fisiche dei diversi contraenti si svolgevano talvolta a grande distanza e che accanto a lauti profitti presentavano anche grandi margini di rischio, erano stati gestiti con molto successo da imprenditori tra loro imparentati, in preferenza da gruppi legati da una speciale solidarietà religiosa come gli ebrei, i quaccheri o gli ugonotti. Infatti, persino alla fine del ventesimo secolo, tali legami sono ancora indispensabili negli affari della malavita, che non solo opera contro la legge, ma al di fuori della sua protezione. In una situazione in cui non c’è nient'altro che garantisca il rispetto dei contratti, solo la parentela e la minaccia di morte possono assolvere questo compito. Le famiglie della ‘ndrangheta calabrese che hanno avuto più successo sono infatti costituite da un notevole numero di fratelli (Ciconte, 1992, pp. 361-62). Ma a essere colpiti dalla rivoluzione culturale furono proprio questi legami e queste solidarietà di gruppo di carattere non economico, come lo furono i codici morali a essi associati. Tali codici morali erano certo più vecchi della società industriale borghese, ma erano stati adattati a quella società e ne formavano parte integrante. Il vecchio vocabolario morale dei diritti e dei doveri, delle obbligazioni reciproche, del peccato e della virtù, del sacrificio, della coscienza, dei premi e delle pene, non poteva più essere tradotto nel nuovo linguaggio della gratificazione immediata dei desideri. Una volta che le pratiche e le istituzioni tradizionali non furono più accettate come metodi per ordinare la società, per tenere vincolate le persone e per assicurare la cooperazione e la riproduzione sociale, la capacità dei vecchi codici morali di strutturare la vita umana in società svanì quasi del tutto. Essi sì ridussero semplicemente a espressioni di preferenze individuali e alla pretesa che la legge dovesse riconoscere la supremazia di queste preferenze. L'incertezza e l’imprevedibilità si fecero incombenti. L’ago della bussola non segnava più il nord e le mappe divennero inutili. Tutto ciò divenne sempre più chiaro nei paesi più avanzati dagli anni ’60 in poi e trovò espressione ideologica in una varietà di teorie, dal liberismo estremo al «postmodernismo» e simili, che cercarono di accantonare del tutto il problema del giudizio e dei valori, o piuttosto cercarono di ridurli al singolo denominatore della illimitata libertà individuale. Ovviamente, all’inizio, i vantaggi della liberalizzazione sociale su vasta scala erano sembrati enormi a tutti tranne che ai più incalliti reazionari, e i costi sembravano minimi; né quel processo pareva implicare una liberalizzazione economica. La grande ondata di prosperità che si abbatté sulle popolazioni delle aree favorite del mondo, rafforzata da sistemi pubblici di sicurezza sociale sempre più estesi e generosi, parve rimuovere le macerie della disintegrazione sociale. Essere un genitore singolo (prevalentemente una madre) era ancora la strada che portava quasi sicuramente a una vita di povertà, ma nei moderni stati assistenziali anche in questi casi veniva garantito un livello minimo di sussistenza e di protezione. Le pensioni, i servizi sociali e, alla fine, le case di riposo si prendevano cura dei vecchi soli, i cui figli o figlie non potevano, o non sentivano più l’obbligo di prendersi cura dei propri genitori nella vecchiaia. Sembrò naturale che si potessero affrontare con lo stesso metodo anche altre evenienze che un tempo erano state risolte entro l’istituzione familiare, per esempio trasferendo il peso della cura dei bambini dalle madri agli asili nido, come i socialisti, da sempre sensibili ai bisogni delle madri lavoratrici, avevano richiesto da lungo tempo. Sia il calcolo razionale sia lo sviluppo storico sembravano additare la stessa direzione, come pure diversi tipi di ideologie progressiste, comprese quelle che criticavano la famiglia tradizionale perché perpetuava la subordinazione delle donne o dei bambini e degli adolescenti, o quelle che si basavano su assunti ancor più libertari. Materialmente l’assistenza pubblica era superiore a quella che la maggior parte delle famiglie era in grado di provvedere ai propri membri, sia a causa della povertà sia per altre ragioni. Lo dimostrava il fatto che negli stati democratici usciti dalle guerre mondiali i bambini erano davvero più sani e meglio nutriti che in passato. Una conferma è data anche dalla sopravvivenza dello stato assistenziale nei paesi più ricchi alla fine del secolo, nonostante gli attacchi sistematici ad esso condotti da governi e ideologie liberisti. Inoltre è un luogo comune tra i sociologi e gli antropologi sociali che in generale il ruolo della famiglia e della parentela «diminuisce con il crescere d’importanza delle istituzioni statali». Per il meglio o per il peggio, la famiglia declinò con «la crescita dell’individualismo economico e sociale nelle società industriali» (Goody, 1968, pp. 402-3). In breve, come era stato previsto da lungo tempo, la Gemeinschaft stava cedendo il passo alla Gesellschaft; le comunità cedevano il passo agli individui legati tra di loro in società anonime. I vantaggi materiali di una vita entro un mondo in cui la comunità e la famiglia declinavano erano e rimangono innegabili. Pochi però capirono che una gran parte della moderna società industriale, fino alla metà del nostro secolo, si era basata su una simbiosi tra la vecchia comunità e i vecchi valori familiari e la nuova società; di conseguenza pochi compresero che gli effetti della loro rapidissima disintegrazione sarebbero stati ingenti. Ciò divenne evidente nell’epoca dell’ideologia neo-liberale, quando verso il 1980 comparve o ricomparve nel lessico socio-politico il macabro termine di «sottoclasse». * La «sottoclasse» era composta di persone che, nelle società avanzate, dopo la fine del pieno impiego, non riuscivano a guadagnarsi da vivere per sé e per le proprie famiglie (o non si impegnavano a farlo) nell’ambito dell’economia di mercato integrata dal sistema di sicurezza sociale, che sembravano funzionare abbastanza bene per i due terzi della popolazione, almeno fino agli anni ’90 (donde la locuzione «società dei due terzi» coniata in quel decennio da Peter Glotz, un politico socialdemocratico tedesco, sensibile ai problemi sociali). Proprio la parola «sottoclasse», come l’espressione più vecchia «sottobosco malavitoso», implicava un’esclusione dalla società «normale». I membri di tale «sottoclasse» confidavano essenzialmente sull’assegnamento di alloggi pubblici e sull’assistenza pubblica, anche quando integravano il proprio reddito con qualche incursione nell'economia sommersa o in quella del «crimine», cioè in quei settori dell’economia che i sistemi fiscali dei governi non potevano censire. Comunque, poiché costoso appartenevano a quegli strati sociali dove la coesione familiare si era largamente spezzata, anche le loro iniziative nell’economia sommersa, legale o illegale, erano marginali e incostanti. Come dimostrano infatti il Terzo mondo e le masse di immigrati del Terzo mondo nei paesi settentrionali, perfino l’economia in nero delle baraccopoli e le attività illecite degli immigrati funzionano solo entro una rete di parentela. Le fasce più povere della popolazione urbana nera negli USA, cioè la maggioranza dei neri degli Stati Uniti, divennero l’esempio tipico di questa «sottoclasse», un corpo di cittadini virtualmente espulsi dalla società ufficiale, che non ne fanno parte o — nel caso di molti giovani maschi - neppure entrano nel mercato del lavoro. Infatti molti giovani neri - specialmente maschi - si consideravano una società fuorilegge o un’anti-società. Il fenomeno non era limitato alla gente di colore. Con il declino e la scomparsa delle grandi industrie sorte nel secolo scorso e all’inizio del nostro secolo, le quali impiegavano molta manodopera, le «sottoclassi» cominciarono a comparire in diversi paesi. Tuttavia nei quartieri e nei palazzi costruiti dallo stato per tutti coloro che non potevano permettersi di pagare gli affitti al prezzo di mercato né di acquistare una casa, e che ora erano abitati dalla «sottoclasse», non c’era alcuna comunità e pochissimo appoggio da parte dei congiunti. Perfino l’aiuto dei vicini, ultima reliquia della comunità, non poteva sopravvivere alla paura che si impadroniva di tutti, in genere di fronte ai giovani teppisti, sempre più armati, che attraversavano spavaldi queste giungle hobbesiane. La comunità sopravvisse in certa misura solo in quelle parti del mondo che non erano ancora entrate nell’universo in cui gli esseri umani vivono fianco a fianco ma senza rapporti sociali. In queste parti del mondo in cui sopravvisse la comunità, si conservò anche un certo ordine sociale, benché, per la maggior parte degli uomini, fosse un ordine che sanciva la loro disperata povertà. Chi poteva parlare di una «sottoclasse» minoritaria in un paese come il Brasile dove, a metà degli anni ’80, il 20% della popolazione che si trovava al vertice della piramide sociale possedeva più del 60 7% del reddito nazionale, mentre il 40% che si trovava alla base ne possedeva il 10% o ancor meno? (UN World Social Situation, 1984, p. 84). In quei paesi la vita era segnata dalla disuguaglianza sociale e tuttavia, per lo più, non era presente quella insicurezza che pervade l’esistenza di chi vive nelle città dei paesi avanzati, dove sono stati smantellati i vecchi codici dì comportamento e a essi si è sostituito il vuoto dell’incertezza. Il triste paradosso della fine del ventesimo secolo è che, sotto tutti i criteri possibili del benessere e della stabilità sociali, vivere in un’area socialmente retrograda ma strutturata tradizionalmente come l’Irlanda del Nord, nonostante la disoccupazione e venti anni di ininterrotta guerra civile, è meglio ed è più sicuro che vivere nella maggior parte delle grandi città del Regno Unito. Il dramma del crollo delle tradizioni e dei valori non sta tanto nello svantaggio materiale di dover fare a meno dei servizi personali e sociali prestati un tempo dalla famiglia e dalla comunità. Questi potevano infatti essere sostituiti nei moderni stati assistenziali, anche se non nelle regioni povere del mondo, dove la grande maggioranza del genere umano tuttora può contare solo sui consanguinei, su qualche protettore e sull’aiuto reciproco (per i paesi socialisti, vedi capitoli 13 e 16). Il dramma sta nella disintegrazione sia del vecchio sistema di valori sia dei costumi e delle convenzioni che regolavano il comportamento umano. Questa perdita venne sentita. Si rifletté nel sorgere di quelle che vennero definite (ancora una volta negli USA, dove il fenomeno divenne visibile alla fine degli anni ’60) «politiche dell’identità», in genere dell’identità etnico/nazionale o religiosa, e nell’affermarsi di movimenti nostalgici che cercavano di recuperare un ordine e una sicurezza perfetti che si presumeva fossero esistiti in un’epoca passata. Questi movimenti erano grida d’aiuto piuttosto che proposte di programmi. Erano richieste di una qualche «comunità» a cui appartenere in un mondo anomico; di una famiglia di cui far parte in un mondo di individui socialmente isolati; la richiesta di un qualche rifugio nella giungla. Ogni osservatore realistico e la maggior parte dei governi sapevano che il crimine non diminuiva e neppure veniva tenuto sotto controllo dall’esecuzione dei criminali o dalla condanna a lunghe pene detentive, ma ogni politico conosceva anche l’enorme forza emotiva, razionale o irrazionale, che aveva la richiesta generalizzata da parte dei cittadini comuni di punire gli elementi antisociali. Questi erano i pericoli politici dello sfilacciamento e del laceramento dei vecchi tessuti sociali e dei vecchi sistemi di valore. Comunque, con l'avanzare degli anni ’80, in genere sotto lo stendardo della purezza del libero mercato, divenne sempre più ovvio che il processo di disintegrazione costituiva un pericolo anche per la trionfante economia capitalistica. Infatti il sistema capitalistico, anche quando era stato costruito sul funzionamento del mercato, si era affidato a un certo numero di inclinazioni che non avevano alcuna connessione intrinseca con quel perseguimento dell’utile individuale che, secondo Adam Smith, alimentava il suo motore. Il capitalismo faceva affidamento sull’«abitudine a lavorare», che Adam Smith considerava uno dei moventi fondamentali del comportamento umano, nonché sulla disponibilità degli uomini a rinviare a lungo la gratificazione immediata, cioè a risparmiare e a investire in previsione di future ricompense, sull’orgoglio di ottenere buoni risultati, sul costume della fiducia reciproca e su altre attitudini che non erano implicite nella massimizzazione razionale dell’utilità di ciascuno. La famiglia divenne una parte integrante del capitalismo primitivo perché fornì parecchie di queste motivazioni. Altrettanto si dica per l’«abitudine al lavoro», l’abitudine all’obbedienza e alla lealtà, compresa la lealtà dei dirigenti di un’azienda verso la propria azienda, e altre forme di comportamento che non potevano esser fatte rientrare con facilità in una teoria della scelta razionale basata sulla massimizzazione. Il capitalismo poteva funzionare in assenza di questi fattori, ma, quando ciò accadde, divenne qualcosa di strano e di problematico per gli stessi uomini d’affari. Ciò si verificò ad esempio negli anni ’80, quando nella Borsa e nella finanza di paesi ultraliberisti come gli USA e la Gran Bretagna imperversarono manovre piratesche per il rilevamento azionario di società e altre speculazioni finanziarie, le quali in pratica ruppero ogni nesso tra la ricerca del profitto e l’economia come sistema di produzione. Perciò i paesi capitalistici che non avevano dimenticato che la crescita economica non si acquisisce soltanto massimizzando i profitti (Germania, Giappone, Francia) adottarono provvedimenti per rendere difficili o impossibili questi assalti pirateschi. Karl Polanyi, esaminando le rovine della civiltà ottocentesca durante la seconda guerra mondiale, evidenziò come fossero straordinari e senza precedenti i presupposti sui quali era stata costruita: quelli di un sistema di mercati universale e autoregolantesi. Egli sostenne che «inclinazione a barattare, a trafficare e a scambiare una cosa per l’altra», di cui aveva parlato Adam Smith, aveva ispirato «un sistema industriale [...] che implicava in pratica e in teoria che la razza umana fosse influenzata da quella particolare inclinazione in tutte le sue attività economiche, se non anche in quelle politiche, intellettuali e spirituali» (Polanyi, 1945, pp. 50-51). Tuttavia Polanyi esagerava la logica del capitalismo a quell’epoca, proprio come Adam Smith aveva esagerato la misura in cui la ricerca da parte di tutti gli uomini del proprio utile economico, presa da se stessa, avrebbe automaticamente massimizzato la ricchezza delle nazioni. Come noi diamo per scontata l’aria che respiriamo e che rende possibili tutte le nostre attività, così il capitalismo dava per scontata l’atmosfera nella quale operava e che esso aveva ereditato dal passato. Il capitalismo scoprì quanto fosse essenziale quell’atmosfera solo allorché l’aria si assottigliò. In altri termini, il capitalismo aveva avuto successo perché non era soltanto capitalista. La massimizzazione e l’accumulazione dei profitti erano condizioni necessarie ma non sufficienti per il suo successo. La rivoluzione culturale dell’ultimo terzo del secolo cominciò a corrodere quelle preziose tradizioni storiche che il capitalismo aveva sfruttato e dimostrò così le difficoltà che il sistema capitalista incontrava nel funzionare senza di esse. Per ironia della storia il neoliberismo, che diventò di moda negli anni ’70 e ’80 e guardò con disprezzo alle rovine dei regimi comunisti, ebbe il suo trionfo proprio nel momento in cui cessò di essere plausibile come lo era sembrato in passato. La logica del libero mercato proclamò il proprio trionfo proprio quando la sua nudità e la sua inadeguatezza non potevano più essere nascoste. La forza principale della rivoluzione culturale si fece sentire naturalmente nelle economie industriali di mercato dei vecchi paesi capitalistici urbanizzati. Ma, come vedremo, le straordinarie forze economiche e sociali scatenate nella seconda metà del ventesimo secolo trasformarono anche ciò che venne definito il «Terzo mondo». E. Hobsbawm "Il secolo breve", Capitolo XI (Dovrei dare un premio a chi avrà la pazienza di leggerlo interamente.)
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