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Don Was scolò la sua pinta di caffè, con molto zucchero, panna e crema di latte, guardando attraverso i vetri del suo ufficio nella Fifth Avenue. Don era il boss della mitica Blue Note Records e aveva un chiodo fisso: come far capire agli audiofili italiani che c'è ancora vita oltre Diana Krall. Accese uno strano sigaro e chiamò il suo fido braccio destro Justin Seltzer, lui avrebbe trovato la soluzione, senza dubbio. La soluzione doveva essere donna, giovane e bella, ma di una bellezza fulminante (gli italiani... li conosciamo, pensò Don), doveva avere una voce da mettere in difficoltà i midrange più blasonati e doveva suonare il pianoforte... come Diana! Magari, con l'occasione, si pesca anche una nuova star della scena jazz internazionale. Chissà, con un po' di fortuna... Don (nella foto), Justin e soprattutto Kandace mi perdoneranno l'introduzione davvero poco seria che - in un certo senso - hanno però meritato, perché? lo scopriremo solo leggendo. Kandace Springs La vita serve alla piccola Kandace un tris d'assi: viene alla luce a Nashville, Tennessee, fin da piccola mostra un gran talento per il pianoforte, il padre fa il cantante, ha collaborato con Aretha Franklin, Donna Summer e Chaka Khan... e lo chiamano "Scat" (per chi non lo sapesse, lo scat è una tecnica di canto inventata - si dice - da Louis Armstrong e glorificata da Ella Fitzgerald). Incidentalmente, Kandace crescendo diventa anche una gran bella ragazza, il quarto asso. A soli diciassette anni registra un demo che - girando girando - finirà sulla scrivania di Don Was, il potente presidente della Blue Note Records. E così, dopo un po' di gavetta, a meno di 25 anni Kandace si ritrova sotto contratto con la casa discografica che da ottant'anni è il punto di riferimento nel mondo del jazz. Debutta con un EP che viene notato nientemeno che da Prince (il quinto asso di Kandace?) che la invita ad esibirsi con lui in un concerto al Paisley Park per il trentesimo anniversario di Purple Rain. Più o meno a quel tempo, Kandace aveva questo look, molto "Prince". La carriera A soli 25 anni la sua carriera è già su buoni binari, Kandace mostra una voce davvero particolare, ampia, completa, sensuale. Si esibisce negli USA ed in Europa cantando sia grandi jazz stardard che qualche interessante pezzo di sua composizione tra jazz, soul e R&B. Nel 2016 pubblica Soul Eyes, prodotto da Larry Klein (già con Herbie Hancock, Joni Mitchell e Tracy Chapman) che - pur mostrando a tratti una certa immaturità - viene accolto dalla critica con molto favore, definito un disco di coffeehouse smooth soul. Le tracce si svolgono sempre pendolando tra jazz, soul e pop, personalmente su tutti i brani ho preferito la cover di "The World Is a Ghetto" dei War, brano che amo particolarmente. Il disco viene pubblicato su CD e vinile [ASIN: B01EJQ097Y] Nel 2018 è la volta di Indigo, vi raccomando di fare clic ed ascoltare "6 8" di Gabriel Garzon-Montan, non solo ascoltare ma anche osservare la presenza scenica che nel frattempo ha acquisito la giovane Kandace. Prodotto quasi interamente dal batterista e percussionista Karriem Riggins, nel disco convivono influenze diverse, da Rachmaninoff ai Portishead e Sade. Per questo si è scelto di non avere formazione stabile, sono state assemblate varie formazioni per personalizzare l'atmosfera delle otto composizioni co-create dalla Spring come delle cover. Kandace si conferma capace di passare con leggerezza dal jazz contemporaneo al pop di qualità, Indigo non è proprio un disco per integralisti del jazz comunque MOJO gli conferisce il massimo dei voti e Kandance diventa la reginetta del Nu Soul/Pop. Il disco viene pubblicato su CD e vinile [ASIN : B07F54P3JW]. The Women Who Raised Me E veniamo ad oggi. "Le donne che mi hanno cresciuto" è un tributo di Kandance alle cantanti che più ne hanno influenzato lo stile e la musica: Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Astrud Gilberto, Roberta Flack, Diana Krall, e così via. Contiene quindi alcuni classici celeberrimi della storia del jazz: da Angel Eyes a What Are You Doing The Rest Of Your Life, da Gentle Rain a I Put A Spell On You. Lei canta e suona pianoforte e piano elettrico Rhodes e Wurlitzer, la band che la accompagna è di alto livello: Steve Cardenas, Scott Colley e Clarence Penn, in più l’album è ricco di ospiti prestigiosi come Norah Jones, Chris Potter, Avishai Cohen, Christian McBride e David Sanborn. Con The Women Who Raised Me, Kandace Springs ha sorprendentemente accantonato il soul e l'R&B per il jazz classico, sia pure interpretato con personalità. Un jazz destinato al largo pubblico, patinato e con una formula collaudata: grandi standards, originale interpretazione, ospiti di gran calibro, evidentemente Don Was ha deciso di creare la Diana Krall dei prossimi 20 anni. L'album è stato registrato quasi interamente in presa diretta: “Praticamente tutto ciò che ascolti è dal vivo, ed è simile al primo disco che ho realizzato, dove ci guardavamo tutti in un grande studio, in stile vecchia scuola, che mi piace. Penso che ci sia più magia in questo modo.” Il master è di Bernie Grundman, missato da Tim Palmer, l'album è stato pubblicato in CD, doppio LP e digitale HD. Oggi, alla soglia dei 32 anni, Kandace ha questo look anni '40, sdraiata sul piano, decisamente diverso dal precedente. C'è ancora vita oltre Diana Krall Il disco mette subito le cose in chiaro, quando nel primo brano Christian McBride spara le fondamentali a 40 Hz nello stomaco dell'ascoltatore, con pure i 32 Hz ben presenti al loro posto. Questo è uno di quei dischi che, alle mostre, passando nel corridoio lo senti suonare e devi per forza entrare in saletta, la qualità tecnica è di riferimento: estensione, dettaglio, microdinamica, trasparenza, realismo, c'è di tutto e di più. Ecco quindi svelato il gioco iniziale: The Women Who Raised Me di Kandace Springs ha tutti i requisiti per diventare il nuovo disco di riferimento per gli ascolti di jazz con voce femminile. E' bella musica, di quella che piace a tutti ma non per questo priva di valore artistico, anzi. Insomma, non è un disco da demo audiofila ma è perfettamente in grado di farlo. Per me un must-have, fatemi sapere la vostra. Tracklist: 1. Devil May Care (Feat. Christian McBride) 2. Angel Eyes (Feat. Norah Jones) 3. I Put A Spell On You (Feat. David Sanborn) 4. Pearls (Feat. Avishai Cohen) 5. Ex-Factor (Feat. Elena Pinderhughes) 6. I Can't Make You Love Me (Feat. Avishai Cohen) 7. Gentle Rain (Feat. Chris Potter) 8. Solitude (Feat. Chris Potter) 9. The Nearness Of You 10. What Are You Doing The Rest Of Your Life 11. Killing Me Softly With His Song (Feat. Elena Pinderhughes) 12. Strange Fruit - Verifica la disponibilità su Amazon - Ascolta gratis su OpenSpotify - Guarda su YouTube1 punto
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A trent'anni dal terrore di Jack lo Squartatore a Whitechapel, l'Axeman teneva in ostaggio una città americana: tra la primavera del 1918 e l'autunno del 1919 un serial killer uccise sei persone di origine italiana, ferendone altre sei, colpendo di notte a New Orleans. Questa storia ha ispirato racconti, romanzi, fumetti e la serie televisiva American Horror Story. Tuttavia, la trama completa di omicidi efferati, vittime commoventi, innocenti accusati, panico pubblico, coinvolgimento della Mafia di New Orleans e di un misterioso assassino, è rimasta avvolta nel mistero. Axeman, il serial killer che amava il Jazz Cosa c'entra il jazz? I giornali ricevettero una lettera spedita dal serial killer: dichiarava che stava per compiere un nuovo delitto ma, visto che era "molto amante del jazz", avrebbe risparmiato chiunque quella sera lo ascoltasse. Quella notte gli abitanti non volevano correre rischi: sia nelle case che nei locali della città, si ascoltò jazz e non ci fu alcuna vittima. Così nacque il mito di Axeman, il serial killer amante del Jazz. L'assassino colpiva di notte, sorprendendo le vittime, negozianti di origine italiana, e usava come arma ciò che trovava sul posto. A quanto pare, a quel tempo le asce erano comuni nelle case, fornendo alla stampa un soprannome efficace per gli articoli sensazionalistici che inondavano la città: Axeman. Axeman irruppe ripetutamente nelle case dei negozianti italiani di alimentari nel cuore della notte, lasciando le sue vittime in una pozza di sangue. Alcuni furono lasciati feriti; quattro persone furono lasciate morte. Gli attacchi furono feroci. Joseph Maggio, ad esempio, ebbe il cranio fratturato con la sua stessa ascia e la gola tagliata con un rasoio. Sua moglie, Catherine, ebbe anche la gola tagliata. L'Axeman colpì le abitazioni a New Orleans dal 1917 a marzo 1919, poi l'assassino attraversò il fiume Mississippi alla città vicina di Gretna. Nella notte del 9 marzo, attaccò Charlie Cortimiglia nel modo consueto, ferendo gravemente Charlie e sua moglie Rosie e uccidendo la loro figlia di due anni. Le autorità di Gretna - il capo della polizia Peter Leson e lo sceriffo Louis Marrero - tuttavia, si concentrarono sui vicini di casa dei Cortimiglia, l'anziano Iorlando Jordano e suo figlio di 17 anni Frank. Essendo negozianti, erano concorrenti commerciali dei Cortimiglia e li avevano recentemente citati in tribunale per una disputa commerciale. Il problema era che nessuna prova coinvolgeva i Jordano. Gli ufficiali gestirono questa scomodità attaccando i Cortimiglia feriti mentre giacevano all'Ospedale Charity, chiedendo ripetutamente: "Chi vi ha colpito?" "Sono stati i Jordano? Frank l'ha fatto, vero?" Secondo il medico che la curava, Rosie diceva sempre di non sapere chi l'avesse attaccata. Quando fu abbastanza in salute per essere rilasciata, Marrero arrestò immediatamente Rosie come testimone materiale e la incarcerò nel carcere di Gretna. Fu rilasciata solo dopo aver firmato un'affidavit che implicava i suoi vicini. Quando Iorlando e Frank andarono a processo, l'unica prova contro di loro era l'identificazione di Rosie, un'identificazione che persino il suo medico considerava non affidabile. Eppure, dopo un processo di meno di una settimana, furono entrambi condannati per omicidio. Iorlando, settantanovenne, fu condannato all'ergastolo; Frank fu condannato alla forca. Nove mesi dopo, Rosie entrò nell'ufficio del giornale del Times-Picayune e ritirò la sua testimonianza. Disse che San Giuseppe le era apparso in un sogno e le aveva detto che doveva dire la verità. Rosie firmò un altro affidavit, dichiarando questa volta di non aver visto i suoi aggressori e di essere stata costretta a identificare i Jordano. Finalmente, nel dicembre del 1920, Iorlando e Frank furono liberati. Siciliani a New Orleans A New Orleans, il French Quarter, la parte più antica della città piena di decrepite case creole, era diventato il quartiere italiano. All'inizio del XX secolo, così tanti siciliani si radunarono nella parte bassa del French Quarter vicino al fiume che l'area da Jackson Square a Esplanade Avenue, tra Decatur e Chartres, era conosciuta come "Little Palermo". Il siciliano Nick La Rocca, con Prima e Roppolo, fece la storia del Jazz. La Rocca, cui si deve non solo l’invenzione della parola “jazz” (in origine jass), ma la rivoluzione del modo stesso d’intendere la musica. Sua l’incisione del primo disco jazz a New Orleans insieme all’Original Dixieland Jass Band, che nel 1917 vendette ben un milione e mezzo di copie. Gli operai siciliani deliziarono i piantatori di zucchero della Louisiana post-emancipazione che li trovarono, come scrisse un impiantatore, "una razza laboriosa, risparmiatrice e contenta di pochi comfort della vita". Negli anni '80 e '90 del XIX secolo, i siciliani affluirono nel porto di New Orleans e dominarono l'immigrazione italiana in Louisiana: oltre l'80 percento degli immigrati italiani che arrivarono a New Orleans erano siciliani. Alcuni rimasero. Nel 1900, la città aveva la più grande comunità italiana del Sud; circa 20.000 (contando i figli degli immigrati) vivevano a New Orleans. Tuttavia, la maggior parte se ne andò per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e cotone, una vita ardua che, tuttavia, offriva loro la possibilità di risparmiare denaro. Un immigrato che risparmiava attentamente il suo salario poteva mettersi in proprio nel giro di pochi anni. Nel 1900, piccole imprese di proprietà degli italiani erano sbocciate in tutta la Louisiana, gli italiani stavano prendendo il controllo del settore degli alimentari. Possedevano solo il 7 per cento dei negozi di alimentari a New Orleans nel 1880. Nel 1900, il 19 per cento era di proprietà italiana, e nel 1920 gestivano la metà di tutti i negozi di alimentari della città. Ma il successo commerciale degli immigrati siciliani non poteva proteggerli dai pregiudizi razziali del Sud degli Stati Uniti. Gli italiani non sostituirono mai completamente il lavoro nero in Louisiana, ma lavorarono al fianco degli afroamericani nei campi. Mentre gli italiani, non comprendendo le gerarchie razziali del Sud, non trovavano nulla di vergognoso in questo, per i bianchi nativi la loro disposizione a farlo li rendeva non migliori dei "neri", dei cinesi o di altri gruppi "non bianchi". I siciliani scuri venivano spesso considerati non bianchi affatto, nient'altro che "dago neri". Un osservatore contemporaneo notò che persino i lavoratori afroamericani distinguevano tra bianchi e italiani e trattavano i loro colleghi con, come lui lo descrisse, "una familiarità talvolta sprezzante, talvolta amichevole, con l'uso del nome di battesimo" che non avrebbero mai osato utilizzare con altri bianchi. L'idea che i "dago" non fossero migliori dei "neri" contribuì all'aumentare del pregiudizio contro gli immigrati italiani negli anni '70 e '80 del XIX secolo. Si trovarono di fronte a sospetti e occasionali linciaggi. Nel 1929, un giudice di New Orleans espresse una visione comune della maggior parte dei siciliani a New Orleans come "di un carattere assolutamente indesiderabile, essendo in gran parte composti dai più viziosi, ignoranti, degradati e sporchi miserabili, con qualcosa in più di una mescolanza dell'elemento criminale." Che fine ha fatto Axeman? L'Axeman scomparve da New Orleans dopo l'attacco ai Cortimiglia. L'ultimo omicidio avvenne poco prima di Halloween nel 1919, poi la carneficina cessò. Tuttavia, prove dai documenti della polizia e resoconti giornalistici mostrano che colpì altrove in Louisiana, uccidendo Joseph Spero e sua figlia ad Alexandria nel dicembre 1920, Giovanni Orlando a DeRidder nel gennaio 1921 e Frank Scalisi a Lake Charles nell'aprile 1921. La sua modalità operativa era la stessa: irrompere in un negozio alimentare italiano nel cuore della notte e attaccare il negoziante e la sua famiglia con la loro stessa ascia. L'Axeman poi sparì dalla storia. Gli italiani di New Orleans no. Continuarono a prosperare. Anche se a causa della crescita dei supermercati scomparvero alla fine i negozi di alimentari di quartiere, loro, come tanti immigrati prima di loro, si integrarono nella società americana mantenendo comunque la propria identità etnica. Fonte: The Axeman of New Orleans: The True Story di Miriam C. Davis1 punto
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Con il ritorno di moda del vinile, sempre più spesso noi vecchi barbogi cresciuti a base di musica analogica, veniamo interpellatati dalle new entry sul settaggio del giradischi. Vero è che sul web c’è tutto e anche di più, ma nella maggior parte dei casi i sistemi proposti sono idonei per analogisti “scafati” ed a volte sovrabbondanti o poco chiari per chi con il vinile non ha troppa dimestichezza. Visto che tra le “mission” di Melius Club c’è anche quella di avere un occhio di riguardo per le nuove leve, abbiamo pensato di produrre una guida sintetica, facile da usare e consultare, ma non per questo approssimativa, sul settaggio di testina e giradischi. Visto il particolare target cui ci rivolgiamo, abbiamo ridotto al minimo indispensabile le attrezzature da comprare, e siamo partiti dall’ipotesi di parlare a persone che per la prima volta si trovano a dover gestire direttamente un giradischi. Un neofita tipicamente comprerà un giradischi nuovo, preassemblato in fabbrica e spesso tarato dal venditore, ovviamente un prodotto che quando va bene sarà di classe media, diciamo un classico giradischi a cinghia, con braccio e testina MM. Questo ci semplifica la vita, parleremo in una prossima puntata di come abbinare una testina MC ad uno stadio phono. Il travaglio del neofita Allora il nostro neofita, che chiameremo Mario, ha un classico impianto hi-fi composto da un amplificatore, due diffusori, una sorgente digitale e a questo armamentario ha deciso di aggiungere un giradischi, Lo ha scelto con cura, informandosi sul web, nei negozi, leggendo le riviste, parlando con amici, ha ottenuto il placet della componente femminile (madre, moglie, fidanzata, a seconda dei casi) e finalmente lo porta trionfante a casa pronto per l’uso. Ma è davvero pronto? Sul web ne ha letto di cotte e di crude, montare il gira gli sembra ora una cosa astrusa e complicata, una via irta di pericoli, che al confronto mandare una navicella spaziale su Marte pare una passeggiata. Quasi quasi gli vien voglia di desistere e di maledire il momento che ha deciso di passare al vinile, ha mille dubbi, mille paure e soprattutto il timore di procurare danni irreparabili alla testina ed ai preziosi dischi. Calma Mario, le cose non stanno così, quando ero giovane il gira stava in tutte le case, lo usava anche la casalinga di Voghera (termine usato dagli statistici), ti assicuro che non morde e che non ha mai ucciso nessuno. Basta procedere con calma, molta calma, e con metodo. L'ingresso phono Per prima cosa, verifichiamo se il nostro amplificatore ha un ingresso phono. L’ingresso phono è diverso da tutti gli altri (cd, aux, tuner, tape, video, ecc), deve intanto avere un guadagno elevato (visto che il livello del segnale della testina è molto più basso di quello delle altre sorgenti), e poi deve essere equalizzato secondo la curva RIIA. Per i non addetti ai lavori spieghiamo di cosa si tratta. Per motivi inerenti alla incisione del disco, il segnale inciso su vinile viene equalizzato secondo una curva detta RIIA (una curva standardizzata negli anni ‘70 con un accordo tra tutte le case discografiche), quindi al momento dell’ascolto lo stadio phono deve avere al suo interno un circuito che sia speculare alla curva di incisione. Una volta, ossia prima dell’avvento del digitale, praticamente tutti gli ampli integrati e tutti i preamplificatori disponevano di una sezione phono, all’epoca molto curata, essendo il disco nero la fonte di qualità per antonomasia nell’uso casalingo di massa. Ormai da una ventina di anni sono sempre più rari gli ampli dotati di ingresso phono, quindi, caro Mario, prima di sballare il prezioso giradischi leggi con calma le “distruzioni per l’uso” del tuo ampli e controlla che abbia effettivamente una sezione phono, dico questo perché a volte sul pannello frontale c’è tra le sorgenti selezionabili il phono, ma potrebbe essere una comodità per l’utente (per ricordargli dove sta il pre phono esterno o quello interno ma optional). Se la sezione phono è presente, falso allarme possiamo procedere. Se la sezione phono è assente, Mario ferma tutto, e prima di continuare vai a comprare un pre phono. La sistemazione del giradischi Ma restiamo nella ipotesi più favorevole, ossia di pre phono presente all'interno dell’ampli. Come procediamo? Innanzitutto scegliamo un luogo dove posizionare il giradischi: una base stabile, priva il più possibile di vibrazioni, non troppo lontana dall’ingesso phono per non dover utilizzare cavi di segnale troppo lunghi, curando al contempo la distanza dai trasformatori di alimentazione dell’ampli, che potrebbero indurre rumori indesiderati. Un buon trucco è quello di mettere (se tutto va su uno stesso pian di appoggio), il giradischi con il braccio al lato opposto dell’ampli, se invece abbiamo un mobile a colonna evitiamo di posizionare il braccio in asse con i trasformatori di alimentazione dell’ampli. Individuato il luogo e prese le misure, possiamo finalmente procedere a sballare il giradischi ed a montarlo secondo le istruzioni a corredo, che possono variare da gira a gira. Gli attrezzi del mestiere Prima di andare oltre, procuriamoci gli attrezzi minimi necessari per una corretta installazione, non sono tanti, spesso economici e a volte recuperabili a costo zero. Ci serviranno. a) una o più livelle a bolla, perché il gira per funzionare correttamente deve essere messo in bolla. Di livelle a bolla ce ne sono di tutti i tipi e di tutti i prezzi, vanno benissimo in teoria anche quelle da muratore reperibili a poco nelle ferramenta, ma spesso sono poco pratiche da utilizzare perché troppo grandi per l’uso su un gira. Io eviterei anche le bolle di livello marchiate con nomi altisonanti, costano molto e fanno lo stesso lavoro di quelle economiche. Sui siti di vendita on line ce ne sono parecchie, in foto ne mostro alcune a titolo esemplificativo b) un cacciavitino amagnetico (meglio due, uno a taglio ed uno a croce), quasi tutti ne abbiamo più di uno a casa, ma sono facilissimamente reperibili a poco prezzo dappertutto (e fa sempre comodo averli a disposizione); c) una pinzetta di quelli che le signore usano per le ciglia, anche questa di sicuro in casa non manca e se dovesse mancare la si può sempre chiedere in prestito ad una amica (sperando che non equivochi); d) una dima per il corretto montaggio della testina. Di dime ce ne sono moltisime sul mercato, per semplificare, qui possiamo dire che una vale l’altra, io suggerisco di prenderne una classica a due punti, eventualmente la si può anche scaricare da qualche sito web, avendo però cura di effettuare una stampa senza modificare le misure e usando possibilmente cartoncino non troppo leggero; e) uno specchietto o un apposito goniometro per verificare l'allineamento della testina; f) una bilancina per verificare il peso di lettura (anche se di solito i giradischi nuovi hanno scale precise, meglio avere uno strumento ad hoc, a volte poi ci si imbatte in gira privi di una scala graduata); g) un set di vitine di varia lunghezza e relative rondelle, sempre amagnetiche (ottone o inox) meglio ancora se con la testa a brugola, (munitevi della relativa chiavetta) eviterete slabbrature della testa usando le viti con la testa a taglio se scivolasse il cacciavite e otterrete un serraggio più deciso, magari non serviranno ma non si può mai sapere; h) utile ma all’inizio non indispensabile, il disco test di Hi-Fi News (ci sono anche quelli di Ortofon e di Tacet), per un analogista navigato è un must che non dovrebbe mancare, per un neofita una spesa che si può rinviare. Ovviamente se si ha un amico pratico e dotato di tutto l’armamentario sopra descritto, si può fare ricorso al suo ausilio ed alle sue attrezzature, e procedere alla installazione del giradischi senza ulteriori attese (ma poi queste 4 cosette procuratevele, male non fanno, non costano uno sproposito, e nella vita è meglio essere autonomi che dipendere dagli altri). Adesso siamo pronti per procedere e Mario è li che freme di impazienza. Per prima cosa posizioniamo il gira dove abbiamo deciso di metterlo, verifichiamo che le operazioni siano agevoli (mettere in disco, togliere un disco, ecc) e per prima cosa procediamo con la messa in bolla; per fare questo useremo le nostre bolle di livello e poi regoleremo i piedini fino a ottenere il risultato ottimale. Adesso possiamo procedere a collegare il giradischi all’ingresso phono dell’ampli, poniamo attenzione ala corretta polarità (positivo con positivo, negativo con negativo, cavetto di massa del braccio al connettore marcato “GND” sull’ampli). Montiamo la testina Il mio suggerimento è di NON collegare il giradischi alla rete elettrica durante il settaggio della testina, la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo, e il rischio che per l’emozione o la fretta il piatto si metta a girare mentre operiamo con la dima o la bilancina è sicuramente diverso da zero. Quindi calma calma e ancora calma, temiamo il gira non collegato. E sempre per prudenza, teniamo l’amplificatore spento e il selettore degli ingressi non su phono. Adesso dobbiamo procedere a regolare la testina. Se è stata preinstallata in fabbrica o dal venditore, possiamo dare per scontato che l’operazione sia stata fatta bene, quindi possiamo saltare il prossimo capitolo e andare direttamente alla regolazione del peso. Se invece abbiamo una testina di nostra scelta, da installare oppure vogliamo verificare che i settaggi di fabbrica non si siano modificati durante il trasporto o semplicemente vogliamo capire cose si fa, passiamo al capitolo “mettiamo in dima la testina”. Per prima cosa bisogna montare la testina sullo shell. I bracci di una volta avevano di solito shell intercambiabili a standard EIA, questo permette di togliere lo shell, montare la testina e rimontare lo shell senza dover rimovere il braccio dal gira. L’operazione, anche per un neofita, è facile e sicura, e permette di giocare con le testine alternandole, basta avere più shell. I bracci di oggi, per aumentare la rigidità del sistema, hanno invece quasi sempre lo shell fisso, quindi per il montaggio della testina è opportuno rimuovere il braccio dal giradischi. L’operazione di norma è assai semplice, in genere occorre allentare una vite di blocco e sfilare ll braccio. Per sicurezza in questo caso stacchiamo i cavi che dal gira vanno all’ampli, meglio una precauzione in più che una in meno. Per montare la testina, ci servirà un piano di lavoro bene illuminato con tutto il materiale necessario pronto all’uso e facilmente accessibile, pertanto serviranno la testina (ovvio), lo shell (idem), la pinzetta, il cacciavitino o chiavetta a brugola a seconda delle viti reperite, le viti di fissaggio della testina e le relative rondelle. Una volta le testine venivano vendute bene accessoriate (viti di diverse lunghezza, rondelle, pennellino, cacciavitino), oggi la dotazione è ridotta all’osso se ci sono 4 viti e 4 rondelle è grasso che cola. Quindi meglio procurarci un po di viti in più, sia a passo metrico (solitamente M2,5) che a passo americano. Le testine spesso sono dotate di un copripuntina, il mio suggerimento è di lasciarlo inserito fino a che la testina non sia fissata allo shell ed al braccio in posizione di lavoro. Lo rimuoverei solo prima di procedere alla messa in dima ed alla regolazione del peso (sempre per la logica che la prudenza non è mai troppa). Adesso possiamo finalmente cominciare. Per prima cosa colleghiamo i 4 pin della testina con i 4 cavetti dello shell. Quasi tutte le testine hanno i pin contrassegnati con un colore che corrisponde ai colori della 4 pagliuzze dello shell, non ci si può sbagliare se la luce è buona. I colori sono bianco rosso blu e verde, con poca luce blu e verde possono non essere immediatamente distinguibili, ma basta saperlo. Se il cavetto stenta a entrare nel pin, si può con attenzione e l’ausilio di un cacciavitino allargarne poco il connettore, se invece il contatto fosse lasco, si può ovviare stringendo con una pinzetta il connettore sul pin della testina. Il contatto lasco è la prima causa di rumorosità del giradischi, raccomando una particolare attenzione su questo punto (ovviamente senza esagerare). Terminata con successo questa fase del lavoro (Mario, visto che poi non serviva un chirurgo?) andiamo ora a fissare con le viti la testina allo shell. Ogni shell e ogni testina hanno un verso per esempio nei vecchi Thorens e nei Revox è possibile solo inserire la vite dal basso vero l’alto, operazione non permessa da alcune testine. Ma in genere si può procedere in entrambi i modi, a seconda di come stiamo più comodi e di come è strutturato il corpo testina. Va scelta una vite sufficientemente lunga da permettere l’inserimento anche del dado, ma non esageratamente lunga, in questa fase è importante solo che la testina sia fissata con due viti con sicurezza, ma lasciando una certa libertà di movimento, il fissaggio definitivo lo faremo dopo aver completato la messa in dima. Regoliamo l'azimuth e il VTA Adesso però non dimentichiamoci dell’azimuth e del VTA. Per lavorare correttamente il braccio deve essere parallelo al giradischi mentre la testina deve essere allineata con il piatto. Quindi togliamo delicatamente il copristilo, mettiamo un disco NON IMPORTANTE sul piatto e facciamo scendere la testina sui solchi a gira spento. Per prima cosa verifichiamo, magari con l'ausilio di uno specchietto, che la testina sia allineata con il piatto, ossia che non penda verso destra o verso sinistra. Poi verifichiamo il braccio, se siamo fortunati avremo il braccio parallelo, al disco altrimenti dovremo procedere in diversi modi. Il più semplice, ma non tutti i bracci lo permettono, è di variare l’altezza del braccio fino a raggiungere il risultato desiderato. In caso contrario a volte si riesce a risolvere interponendo degli spessorini tra corpo testina e shell, se non si risolve vuol dire semplicemente che la testina non è adatta a quel tipo di braccio (ipotesi abbastanza remota ma non impossibile). A dimostrazione che l'analogico non è una scienza esatta, esistono anche diverse scuole di pensiero che prevedono un braccio non perfettamente allineato con il disco, ma sono soluzioni che vanno sperimentate ad orecchio e sinceramente le sconsiglio ad un neofita, che potrebbe ricavarne più danni che benefici. Se siamo riusciti regolando il braccio ad ottenere il parallelismo braccio testina disco, possiamo tirare un sospiro di sollievo e andare avanti con la regina delle regolazioni, ossia la messa in dima. Mettiamo in dima la testina Per mettere in dima la testina di un giradischi si possono seguire più strade, utilizzare la dima in plastica fornita in dotazione da alcuni giradischi (i vecchi Thorens, alcuni Technics, ecc), utilizzare la dima ad un punto e l’overhang, utilizzare la dima a due punti, utilizzare dime più complesse e costose (dr. Flickert, Project, OMR ecc). Ritengo che per un principiante il sistema della dima a due punti sIa la soluzione migliore perché: a) è universale; b) svincola dalla conoscenza dell’overhang del braccio (dato non sempre fornito); c) è facile da usare senza rischiare di fare danno; d) è economica. Premetto che le dime a due punti non sono tutte uguali, anche se forniscono tutte risultati attendibili. Spesso le problematiche dell’analogico non hanno una sola soluzione, quindi prendiamo la dima che Mario ha recuperato e usiamola senza porci tanti problemi. Il modo di funzionare di tutte le dime a due punti è semplice, si inserisce nel perno del giradischi il foro presente nella dima, si individuano i due punti segnati sulla dima e si fa scendere la puntina sul primo di essi. Quindi si ruota leggermente la testina nello shell (ecco il motivo per non avvitarla a morte) fino a che il corpo testina non sia allineato alla riga della dima che passa per il punto selezionato. Un trucco che spesso funziona è mettere una mina sottile da disegno sullo shell. Fatto questo si ruota la dima e eventualmente anche il braccio e si fa scendere la testina sul secondo punto di riferimento della dima, e si ripete l’operazione precedente. Si continua per tentativi successivi e piccoli aggiustamenti (Mario, non ti spaventare non è un ciclo infinito), in genere dopo 4-5 tentativi si arriva al parallelismo su entrambi i punti. Adesso possiamo stringere bene le viti, avendo cura di non far ruotare lo shell. E’ buona regola verificare nuovamente con la dima per scrupolo che tutto sia a posto dopo aver completato questa operazione. Regoliamo il peso di lettura della testina Ora ci siamo quasi, passiamo alla regolazione del peso della testina. Anche se ogni braccio può fare storia a se, in genere per regolare il peso si opera in questo modo: a) si disinserice l’antiskating (se è magnetico o a molla lo si setta a zero, se è meccanico si toglie il pesetto della regolazione dello stesso); b) si gira il contrappeso grande (di solito cromato o anodizzato) fino a che il sistema braccio testina sia libero di oscillare senza scendere verso il disco e senza volare al cielo. In questo modo abbiamo trovato il punto degli zero grammi; c) adesso, tenendo fermo il contrappeso grande, ruotiamo la ghiera graduata fino a portarla sullo zero (ovviamente se questa ghiera esiste); d) ruotiamo il contrappeso grande insieme alla ghiera graduata fino a trovare il peso raccomandato dal costruttore esempio peso di lettura 2 gr, impostare a 2 gr; e) prendiamo la nostra bilancina e verifichiamo che il peso di lettura impostato corrisponda. Se la bilancina è meccanica (la classica Shure, per esempio) avrà una precisione di circa 0,25 grammi, se elettronica potrà essere precisa al decimo di grammo. Attenzione a come eseguiamo la misura, l’ideale sarebbe avere il piano di lettura all’altezza del piano del disco, ma non sempre questa situazione è fattibile quindi non è detto che la lettura con la bilancina sia perfettamente esatta. Ma se le variazioni sono sotto gli 0,25 grammi, non preoccupiamoci troppo, siamo comunque in una zona di sicurezza. Regoliamo l'antiskating Dopo il peso eccoci all’antiskating, Sull’antiskating si sono scritte pagine e pagine, chi lo ritiene necessario, chi dannoso, chi lo verifica con il disco liscio, chi con l’oscilloscopio (i pignoli, brutta bestia) chi con i dischi test. Per un neofita direi di andare sul pratico ed impostare l’antiskating ad un valore circa uguale a quello del peso di lettura. La forza di skating non è costante, varia con la velocità di incisione del solco e con la distanza solco/perno, a meno di non usare bracci particolari (per esempio il Morsiani), non ci sarà una regolazione dell’antskating perfetta istante per istante, dobbiamo per forza di cose accettare una soluzione approssimativa. Certo si possono usare le tracce apposite del disco test di HiFi News, ma occorre ricordare che l’ultima è incisa in una condizione che non troveremo mai nei nostri dischi musicali, quindi una volta regolato l’antiskating con quel valore, faremo bene a diminuirlo un pochino. La fine del gioco Abbiamo finito? Quasi, Mario, quasi. Adesso verifichiamo di nuovo il parallelismo braccio piatto con il peso impostato, se è tutto ok, direi che ci siamo, possiamo riporre con cura gli attrezzi del mestiere (mi raccomando le viti), ricollegare giradischi ed ampli, attaccare la spina di rete, mettere un disco sul piatto, selezionare phono sul selettore dell’ampli e cominciare ad ascoltare. Un piccolo suggerimento a Mario (ed a tutti i neofiti), fate suonare la testina per almeno una trentina di ore prima di emettere un giudizio e poi (ma meglio prima) procuratevi due “aggeggi” indispensabili, una spazzolina per il vinile ed uno spazzolino per la testina. La polvere è il nemico numero uno del disco nero, la sporcizia può accumularsi nei solchi e essere raccolta dalla puntina, usare il dito per pulirla è poco raccomandabile quindi non dimenticate questi piccoli accessori salvavita. di Enrico Felici1 punto
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Insofferente alle relazioni pubbliche, nauseato dalla stupidità umana, il volto di Ludwig van Beethoven assume i contorni di una maschera intrisa di tristezza e amarezza. Ma un divertimento umano, non titanico, lo si ritrova in due composizioni, antitetiche e simili allo stesso tempo. Chiunque abbia un minimo di conoscenza delle vicende biografiche di Beethoven fa indubbiamente fatica nell’immaginare il gigante di Bonn mentre sorride o, meglio, ride di cuore. L’apporto biografico, a cominciare dalle prime testimonianze sulla sua vita scritte da un fedele amico del compositore, Anton Felix Schindler, nel 1840, a diciassette anni dalla morte del compositore, tende a raffigurare Beethoven scolpito in un’espressione perennemente accigliata, pronto alla collera, a inveire contro quei “filistei” capaci soltanto di minare la sua tranquillità e il suo silenzio innaturale, straziante, provocato da quella sordità che lo afflisse per buona parte della sua infelice esistenza. Insofferente alle relazioni pubbliche, nauseato dalla stupidità umana (eppure quanto soffrì a causa della solitudine nella quale si relegò, malgré soi!), il volto di Beethoven, come ce lo hanno tramandato dipinti e sculture, assume i contorni di una maschera intrisa di tristezza e amarezza. Beethoven non sorrideva quasi mai e la sua risata era sconosciuta perfino nella cerchia dei suoi amici (ossia coloro che riuscivano a sopportare meglio gli effetti nefasti del suo carattere) più intimi. Il suo divertimento riuscì a manifestarlo solo nei pensieri e nella sua musica: un divertimento scevro dalla drammaticità, dalla tragicità di cui sono imbevute le sue pagine più celebri e immortali. A tale proposito, un divertimento umano, non titanico, non stravolto dalle dimensioni eroiche e sovrumane della sua visione del mondo, lo si ritrova soprattutto in due composizioni, antitetiche e simili allo stesso tempo, il concerto per violino, violoncello e pianoforte in do maggiore op. 56 (il celeberrimo “Triplo concerto”) e il trio per violino, violoncello e pianoforte in si bemolle maggiore op. 97 (detto dell’“Arciduca”, visto che fu dedicato appunto all’arciduca Rodolfo d’Asburgo, suo allievo e uno dei suoi principali mecenati). Il concerto in questione è del 1804, successivo di circa due anni alla stesura del tremendo Testamento di Heiligenstadt (nel quale Beethoven, rivolgendosi ai fratelli, preannunciava di farla finita con la vita per via di quella sordità che lo aveva aggredito l’anno precedente), mentre il trio è posteriore di sette anni e che coincide con un altro momento oscuro (quanti ce ne furono!) della sua vita, un periodo nel quale il genio di Bonn compose poco o punto, angustiato dall’incomprensione della quale si sentiva circondato e dai crucci causati dagli immancabili problemi economici. Eppure, le due tonalità scelte, quella del do maggiore (simbolo di quella solarità così agognata dal compositore) e del si bemolle maggiore (dal sapore empireo, mercuriale, nella quale la gaiezza si scopre inscindibile dalla cupezza che farcisce l’animo dell’artista) risultano emblematiche: anche Beethoven, dopotutto, sa sorridere e, a volte, ridere di cuore. Ora, queste due pagine meravigliose vengono proposte da un disco SACD dell’etichetta discografica olandese Challenge Classics, che vede la partecipazione del giovane Storioni Trio (formato da Bart van de Roer al fortepiano, da Wouter Vossen al violino e dal fratello Marc Vossen al violoncello), accompagnato dagli elementi della Netherlands Symphony Orchestra, diretta da Jan Willem de Vriend. Come da tradizione della terra d’Orange, le interpretazioni del concerto e del trio sono condotte sul piano filologico (gli strumenti ad arco dei fratelli Vossen, il violino è un Lautentius Storioni del 1794, da qui il nome dello stesso Trio, e il violoncello è un Giovanni Grancino del 1700, hanno corde di budello, mentre il fortepiano di de Roer è un magnifico Salvatore Lagrassa del 1815, e non Lagrasse com’è scritto nel booklet del disco). Il già citato Schindler nella sua biografia beethoveniana ci ricorda che la partitura pianistica del “Triplo concerto” Beethoven la compose proprio per il principe Rodolfo d’Asburgo, ultimogenito dell’imperatore Leopoldo II. Affermazione, questa, alquanto bislacca, visto che a quell’epoca l’arciduca, sebbene fosse uno degli allievi più dotati del compositore, aveva soltanto sedici anni e sebbene il ruolo rivestito dal pianoforte nel concerto non sia così arduo, come quelli riservati al violino e al violoncello, resta alquanto improbabile che Beethoven lo abbia scritto pensando proprio al suo giovane, aristocratico discepolo. Tant’è vero che il concerto stesso, stampato nel 1807, fu poi dedicato a un altro dei grandi mecenati del gigante di Bonn, il principe Lobkowitz. Mentre, è fuor di dubbio che il trio cameristico op. 97 fu effettivamente dedicato da Beethoven proprio al suo giovane allievo. Ultimato nel difficile 1811, il “Trio dell’Arciduca” fu eseguito per la prima volta tre anni dopo, l’11 aprile 1814, a Vienna, nella hall dell’albergo Zum Römischen Kaiser. Nonostante lo stato quasi assoluto di sordità, Beethoven volle suonare la parte del pianoforte, mentre quella del violino toccò al fedele Ignaz Schuppanzigh (uno dei più raffinati e preparati violinisti di quel tempo) e quella del violoncello a Josef Linke. L’esito di quell’interpretazione, a causa della presenza di Beethoven, fu catastrofico. Tra i presenti, quella sera, ci fu anche il violinista e compositore Louis Spohr, il quale ci ha lasciato una dolorosa testimonianza di quell’esecuzione e soprattutto di ciò che combinò il «povero sordo», come lo definì testualmente. Non potendo sentire assolutamente nulla, quando sullo spartito era segnato un “forte”, per essere sicuro del risultato, Beethoven pestò sulla tastiera a un punto tale che lo strumento prese a gemere, mentre quando un passaggio era contrassegnato “piano”, il tocco del compositore fu così lieve che i presenti non riuscirono a sentire il minimo suono provenire dal pianoforte. Dopo quella sciagurata serata, il genio di Bonn comprese che ormai la sordità non gli avrebbe più potuto permettere di suonare in pubblico. E quella del “Trio dell’Arciduca” fu dunque l’ultima esecuzione alla quale Beethoven prese parte come interprete. (continua) di Andrea Bedetti [Fai clic qui per leggere la seconda parte]1 punto
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