Vai al contenuto
Melius Club

Classifica

Contenuto Popolare

Mostra il contenuto con la massima reputazione da 11/09/2024 in Blog Entries

  1. Nato negli Stati Uniti, il jazz si diffuse rapidamente, raggiungendo l'Italia già nei primi anni del Novecento. Una delle prime testimonianze documentate della presenza di musicisti afroamericani nel Paese risale al 16 marzo 1904, quando i quattro membri della Louisiana Troupe si esibirono al teatro Eden di Milano, offrendo al pubblico italiano il primo assaggio della nuova musica. Un altro messaggero del jazz fu James "Jim" Reese Europe, tenente dell'esercito statunitense, compositore e direttore della banda del 369° Fanteria "Harlem Hellfighters" (in foto). Questo reggimento, interamente composto da soldati afroamericani, portò in Europa i ritmi sincopati durante la Prima guerra mondiale. Parallelamente, i musicisti italiani che lavoravano a bordo dei transatlantici sulla rotta tra Genova e New York assorbirono gli stilemi del jazz, contribuendo a importarlo nel loro Paese, dove all'epoca era ancora noto come "musica sincopata". Tra i pionieri si distinsero il batterista Arturo Agazzi, che dopo un periodo trascorso in Inghilterra fondò nel 1918 la sua Syncopated Orchestra, e il sassofonista Carlo Benzi, creatore dell'Ambassador's Jazz Band. Già intorno al 1920, l'industria discografica iniziò a pubblicare in Italia dischi jazz con etichette come Odeon, Columbia, Brunswick, Pathé e Parlophon, questa rappresentata in Italia dalla Cetra. Negli anni successivi, il jazz continuò a guadagnare popolarità grazie a figure come Pippo Barzizza (in copertina). Dopo aver lavorato sui piroscafi di linea per New York intorno al 1920, Barzizza divenne un importante promotore dello swing in Italia. Un momento cruciale per la diffusione radiofonica del genere si ebbe il 1° febbraio 1926, con la trasmissione in diretta del concerto della Jazz Band di Stefano Ferruzzi, che segnò l'ingresso ufficiale del jazz nell'etere italiano. Mentre il jazz metteva radici in Italia, il 30 ottobre 1922, il re Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di formare il nuovo governo. Quale fu dunque il rapporto tra Fascismo e jazz? Andiamo a vedere. Le vicende del jazz durante il Ventennio Inizialmente, in Italia l’interesse per il jazz fu un fenomeno limitato a una cerchia ristretta di appassionati. Solo con l'avvento del cinema sonoro negli anni '30, la nuova forma musicale si aprì a un pubblico più ampio. Tuttavia, l'introduzione del jazz non avvenne senza resistenze. I tradizionalisti dell'epoca, infatti, vedevano un legame tra la moda del jazz e la sfera sessuale. Essi temevano che questa "invasione straniera", insieme ad altri elementi percepiti come corruttivi, potesse minacciare il carattere e i valori tradizionali della società italiana. Nonostante queste opposizioni, il movimento futurista accolse con entusiasmo il jazz. Futuristi come Franco Casavola difesero il jazz con passione, considerandolo un'espressione dei propri ideali di mascolinità, violenza, energia e modernità, in netto contrasto con il romanticismo e il sentimentalismo. Questa precoce adesione da parte di un movimento artistico che in seguito avrebbe trovato una certa sintonia con il regime fascista, fornì una iniziale legittimazione culturale al jazz in Italia. Sebbene non esista un singolo documento o dichiarazione inequivocabile in cui Mussolini esprima esplicitamente la sua approvazione del jazz come simbolo di modernità e progresso - in linea con l'estetica futurista che il regime in parte celebrava - diverse testimonianze e contesti supportano questa interpretazione. Ciononostante, l'atteggiamento del regime fascista nei confronti del jazz fu caratterizzato da una sostanziale diffidenza e da una serie di contraddizioni che si evolsero nel corso del Ventennio. A metà degli anni Venti, le autorità fasciste iniziarono a manifestare una certa diffidenza verso i prodotti della cultura statunitense e il jazz non fece eccezione. Si cercò di allontanare gli italiani da questa musica attraverso chiusure temporanee di locali notturni, motivate ufficialmente da ragioni di moralità pubblica, ma forse anche da una volontà di esercitare un controllo ideologico. La censura divenne progressivamente più rigida, prendendo di mira i titoli delle canzoni, i testi e la nazionalità dei compositori, e tentando di forzare un'italianizzazione del linguaggio musicale, sostituendo il termine "jazz" con improbabili alternative come "giazzo" o giri di parole come "musica ritmica". Dal primo gennaio 1925 in Italia iniziò a trasmettere la radio, dapprima per poche ore al giorno, ma con un largo spazio dedicato alla musica. Gli abbonati crebbero lentamente, rispetto ad altri paesi: dai 55.000 del 1927, quando l'ente statale radiofonico assunse il nome di EIAR, raggiunsero il milione e mezzo nel 1940. All'interno della radio italiana, sotto la presidenza di Giancarlo Vallari, nacque la prima etichetta discografica pubblica, la Cetra. Per le trasmissioni radiofoniche, si adottò l'espediente creative di italianizzare i nomi dei musicisti americani, trasformando Louis Armstrong in Luigi Braccioforte e Benny Goodman in Benito Buonuomo. Questa strategia permetteva di gestire l'influenza straniera, facendola apparire più in linea con l'identità nazionale italiana. Nei primi anni Trenta, nonostante l'ostilità di fondo, Benito Mussolini stesso mostrò un certo apprezzamento per il jazz, in particolare per il Trio Lescano. Così, entro la metà degli anni '30, fu possibile trasmettere gran parte del repertorio jazz americano, purché venissero apportate piccole modifiche che segnalassero la capacità della cultura italiana di appropriarsi di elementi alieni. Nel 1935, l'EIAR intraprese una sorprendente operazione di rilettura ideologica, arrivando a definire la musica jazz come espressione del "fascismo". L'obiettivo era legittimare la diffusione di una musica verso cui il regime nutriva sospetti, presentandola come funzionale alla "sensibilità contemporanea". Questa singolare interpretazione si basava sull'affermazione che "non c'è musica che risponde meglio alla sensibilità contemporanea, alla vita contemporanea: un ritmo ben marcato, ma che permette tutte le libertà; una forma di servitù che dà l'illusione di perfetta indipendenza". Con queste parole, l'EIAR cercava di presentare il jazz, genere musicale spesso associato a culture straniere e a forme di libera espressione, come affine ai principi del regime, almeno nella sua interpretazione da parte dell'ente radiofonico. In alcuni casi, si arrivò persino definire "fascista" il jazz, una posizione sostenuta dal ministro della Cultura popolare, Alessandro Pavolini che difese la programmazione jazz dell'EIAR sottolineando quanto fosse apprezzata dai soldati e dal pubblico. Nel 1937, la radio italiana si vantava di trasmettere più jazz di qualsiasi altra emittente europea! Nel frattempo, la Germania nazista condannava il jazz come "arte degenerata" e "musica negra", a causa delle sue radici afroamericane ed ebraiche. Questa differenza si manifestò anche nel modo in cui i due regimi affrontarono la questione della "degenerazione" artistica. In Italia, a differenza della Germania nazista, non ci fu una mostra ufficiale di "arte degenerata" che includesse il jazz. La censura in Italia si concentrò maggiormente sui testi delle canzoni e sulla nazionalità dei musicisti, piuttosto che sul ritmo in sé. In Germania, invece, il criterio estetico fu sostituito da quello genetico-razziale, come sottolineato dal giornale filonazista "Rheinische Landeszeitung", che evidenziò quanto "nella musica vi è di malato, malsano e altamente pericoloso nella nostra (tedesca) vita musicale e che conviene dunque sradicare". Per il jazz, i vertici nazisti vararono un regolamento specifico discriminante e persecutorio prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Questo prevedeva, tra i vari commi, la riduzione al 20% dello swing nel repertorio orchestrale, la preferenza a composizioni in tonalità maggiore che esprimessero la gioia di vivere, temperata dal senso ariano della disciplina e della moderazione nonché la predilezione per il ritmo veloce (per combattere il blues), ma senza gli eccessi dell'hot jazz. Si stabilì inoltre il divieto dell'uso di strumenti musicali estranei allo spirito tedesco -un paradosso, considerando che il provvedimento avrebbe colpito anche i costruttori tedeschi di sax-, il divieto per il pubblico di alzarsi durante un assolo e per i musicisti di lanciare strilli durante l'esecuzione. Il 14 gennaio 1935, Louis Armstrong suonò in Italia per la prima volta, al Teatro Chiarella di Torino. La tournée di Armstrong in Italia fu un evento di grande successo e ricevette l'approvazione di Vittorio Mussolini. Nei tardi anni Trenta e all'inizio degli anni Quaranta, l'intensificarsi del nazionalismo e l'avvicinamento alla Germania nazista portarono a un inasprimento della censura. I titoli delle canzoni, i testi e la nazionalità (e la "razza") dei compositori divennero oggetto di sospetto. Dopo l'emanazione del Manifesto della Razza nel 1938, i musicisti ebrei furono progressivamente esclusi dalle attività musicali. Nel 1938, Harry Fleming interruppe le sue tournée in Italia, il contrabbassista ebreo dell'Orchestra Cetra di Barzizza, Giuseppe Funaro, fu licenziato, e Ezio Levi, cofondatore del circolo Jazz Hot di Milano, vide interrotta la sua attività a causa delle leggi razziali. Un altro autore che fu messo sotto sorveglianza per il suo lavoro fu Mario Panzeri, in collaborazione con Kramer per la composizione di "Maramao perché sei morto" (1939). Il titolo del brano fu scritto da alcuni studenti sul piedistallo del monumento che il governo aveva deciso di costruire a Livorno in memoria del gerarca Costanzo Ciano, recentemente scomparso. Nel giugno 1940, ogni attività di intrattenimento nello spettacolo fu vietata alle persone di "razza ebraica". Con l'entrata in guerra degli Stati Uniti, l'atteggiamento del regime fascista nei confronti del jazz si inasprì drasticamente. I termini inglesi associati al genere musicale furono banditi e nel 1942 venne decretata la proibizione di "tutte le esecuzioni di musica sincopata di origine e carattere anglosassone". Queste restrizioni e la crescente censura riflettevano il consolidamento del controllo del regime sull'espressione culturale, alimentato dall'intensificarsi delle ideologie nazionaliste e razziali e dal deterioramento delle relazioni internazionali. Il regime fascista, attraverso il decreto "Disciplina per la diffusione del disco fonografico", mirò a epurare ogni traccia di cultura "giudaica". Tale politica si tradusse nella rimozione dei 78 giri e delle matrici dai magazzini della radio, e nella distruzione di quelli conservati nei depositi delle case discografiche Cetra, Parlophon e Voce del Padrone. Le forze di polizia fasciste eseguirono sequestri e azioni punitive, culminando in arresti, distruzione di strumenti musicali e confisca di dischi e spartiti. Tuttavia, il jazz non fu mai completamente bandito dall'Italia, probabilmente a causa della sua grande popolarità. Il regime incoraggiò i musicisti italiani a sviluppare una forma nazionale di musica da ballo, utilizzando strumenti locali come la fisarmonica. Questa ambivalenza rifletteva la complessa interazione tra l'ideologia fascista, le preferenze personali di Mussolini e il desiderio di mantenere il consenso popolare. Oltre Luigi Braccioforte, un jazz naturalizzato Il jazz italiano del Ventennio, pur essendo naturalmente influenzato dalle sonorità americane, iniziò a delineare una propria identità, plasmata anche dalle politiche culturali nazionaliste del regime. Quest'ultimo, nel tentativo di promuovere una musica da ballo popolare più aderente alla tradizione nazionale, incoraggiava i musicisti a sviluppare uno stile meno sincopato e maggiormente melodico, esaltando strumenti locali come la fisarmonica a scapito del sassofono, simbolo dell'influenza statunitense. In questo contesto, il jazz italiano assunse un carattere peculiare, amalgamando l'energia del nuovo genere con elementi profondamente radicati nella tradizione musicale del Paese. La sensibilità per la melodia, ereditata dalla canzone napoletana e dall'opera, si intrecciava con l'influsso delle sonorità popolari e folcloristiche, generando una fusione originale che distingueva il jazz italiano dalle sue controparti d'oltreoceano. Il risultato fu un linguaggio musicale che, pur mantenendo la vitalità e l'innovazione ritmica proprie del jazz, si adattava alle esigenze espressive di un pubblico abituato alle forme più tradizionali della musica italiana, contribuendo così alla nascita di una variante autoctona del genere. In questo contesto, emersero musicisti, gruppi e cantanti che contribuirono significativamente alla diffusione e all'evoluzione del jazz nella penisola. Fu negli anni '30 che si assistette alla formazione delle prime vere orchestre e complessi jazz italiani, tra cui l'Orchestra Sincopata di Arturo Agazzi e il Quartetto Andreis di Carlo Andreis, che ottennero un immediato successo. Arturo Agazzi, batterista con esperienze nei migliori locali di Londra, già nel 1918 aveva fondato la prima jazz band italiana stabile presso il Mirador Club di Milano, mentre Carlo Andreis, con il suo quartetto, fu attivo tra il 1937 e il 1941. Un ruolo di primo piano fu ricoperto anche da Gorni Kramer (in foto) la cui celebre "Crapa pelada" fu interpretata come uno sberleffo al Duce. Scrisse nel 1941 Vittorio Mussolini – sceneggiatore, pubblicista e produttore cinematografico, secondogenito di Benito – riguardo a un disco del duo Kramer-Semprini: «Il pianoforte di Semprini e la fisarmonica di Kramer si uniscono in un felice matrimonio per interpretare i temi più belli e famosi di film recenti. La fisarmonica suona la melodia con effetti che ricordano prima un sassofono e poi un violino. Alcuni motivi ritmici ci trasportano in un’atmosfera piena degli aromi speziati di un quartiere di Harlem. Kramer ha davvero creato un nuovo modo di suonare la fisarmonica e di ottenere effetti inediti e inaspettati che sono estremamente interessanti.». Sempre negli anni '30, nacquero le prime vere e proprie italian jazz band. Milano, con la Blu Star, e Genova furono tra le prime città italiane in cui esplosero il jazz e lo swing. Si ricordano l'Orchestra di Sesto Carlini, ex clarinettista classico passato al jazz, e la Louisiana band di Piero Rizza. Le orchestre di Rizza a Genova e, in particolare, quella di Armando Di Piramo a Milano furono un importante banco di prova per molti nuovi musicisti jazz. Di Piramo era anche un impresario e possedeva diversi locali, dove si esibivano artisti di talento quali il genovese Pippo Barzizza (membro della Blu Star), che nel '36 andò a dirigere l'Orchestra Cetra di 18 elementi, poi divenuti 22.Tra le orchestre, la Barzizza-Cetra dimostrò il più alto profilo jazzistico. Ovviamente il riferimento musicale è al Duca del Jazz, Duke Ellington, ma, a differenza di Ellington, Barzizza non concede molti assolo ai suoi orchestrali, prediligendo un suono d'insieme. Tra i cantanti di questo periodo, si deve ricordare Natalino Otto (in foto), che fu la prima voce di chiara impronta jazz, appreso nei suoi passaggi a bordo delle navi sulla tratta Genova - New York. Pioniere dello stile swing, il genovese Natalino Otto, nel 1937, con il musicista Gorni Kramer, presentò un repertorio all'americana, tra cui "Polvere di stelle", "Mamma voglio anch'io la fidanzata" e "Ho un sassolino nella scarpa". Un altro grande interprete fu Alberto Rabagliati, che nel '26 aveva vinto un concorso indetto dalla Fox in America per sostituire lo scomparso Rodolfo Valentino, ma non ebbe fortuna e tornò in Italia, dove alla fine degli anni '30 esplose lo "stile Rabagliati", con "Ba..baciami piccina", "Quando canta Rabagliati" e varie altre. Ma il principale protagonista dello swing italiano fu il Trio Lescano (in foto) composto dalle sorelle olandesi di famiglia ebraica Alessandra, Giuditta e Caterina Leschan, con successi come "Arriva Tazio", "Ma le gambe", "Signorina grandi firme" (1938), "La gelosia non è più di moda", "Maramao... perché sei morto" (1939) e molti altri di enorme successo. Il Trio Lescano fu uno dei gruppi vocali più popolari dell'epoca, tanto da diventare le cantanti preferite di Benito Mussolini, e il loro stile, caratterizzato da raffinate armonie vocali swing e jazz, le rese celebri anche alla corte del principe Umberto di Savoia. Nonostante l'emanazione delle leggi razziali, Mussolini assicurò loro una certa protezione, concedendo la cittadinanza italiana nel 1941 e permettendo la loro adesione al partito fascista nel 1942. Anche Romano Mussolini, figlio del Duce, coltivò una profonda passione per il jazz, diventando in seguito un apprezzato pianista. Sebbene la sua carriera decollò principalmente nel dopoguerra, il suo interesse per il jazz durante il Ventennio è un elemento significativo. Tra gli altri musicisti attivi in questo periodo si ricordano Alfredo Gangi, Armando Frittelli, Luigi Antoniolo, Armando Manzi e Gino Filippini, che si formarono nell'orchestra di Bozza nei primi anni Venti. Locali come i nightclub romani e il Mirador Club di Milano rappresentarono importanti palcoscenici per questi artisti. Il panorama italiano: farinacciani e bottaiani La centralità della figura di Mussolini trasformò il mondo musicale italiano in un'arena di intrighi e opportunismi, con il Duce che esercitava un controllo diretto sulla produzione artistica. Mussolini, pur mostrando un certo interesse per la musica d'avanguardia, prediligeva le opere popolari e la musica sinfonica, considerate più adatte al coinvolgimento delle masse. Il regime promosse la composizione di inni celebrativi e sostenne i compositori che si allineavano ai suoi ideali. Roma, divenuta centro nevralgico della politica culturale fascista, attrasse artisti in cerca di favori. Nel 1926, durante l'organizzazione della mostra del Novecento musicale, il Duce espresse la sua preferenza per le opere teatrali, sottolineando il loro potenziale di coinvolgimento del pubblico rispetto alla musica da concerto. Questa visione utilitaristica della musica, intesa come strumento di propaganda e di consenso, si tradusse in un sostegno selettivo alle forme musicali più popolari e accessibili. Alcuni musicisti, come Pietro Mascagni, divennero ferventi sostenitori del regime, ottenendo vantaggi in termini di carriera e riconoscimenti. Giordano e Pizzetti contribuirono alla produzione di inni fascisti. Giacomo Puccini, pur scomparso poco dopo l'ascesa del fascismo, espresse in alcune lettere ammirazione per leader autoritari capaci di riportare stabilità nel paese. Il regime sfruttò la sua fama post mortem, nominandolo senatore a fini propagandistici. Ricordiamo anche Rito Selvaggi, autore di un "Poema della rivoluzione" concluso dal triplice grido degli orchestrali: "Duce duce duce!". Altri compositori mantennero posizioni più complesse e ambivalenti. Gian Francesco Malipiero, pur ammirando il fascismo, criticò la scarsa considerazione per la musica contemporanea e cercò il sostegno personale di Mussolini. Alfredo Casella (in foto) esponente della musica d'avanguardia, tentò di conciliare modernità e spirito fascista. Il regime, tuttavia, si mostrò sempre più diffidente nei confronti delle tendenze più radicali, come nel caso della censura dell'opera "Favola del figlio cambiato" di Malipiero. Il regime favorì i compositori d'opera "popolari" come Mascagni, Giordano e Cilea, che trovarono nel fascismo un'opportunità di crescita. La "generazione dell'Ottanta", comprendente Pizzetti, Malipiero, Casella e Respighi, beneficiò dell'attenzione del regime, che sostenne il recupero della tradizione musicale italiana. Tuttavia, il regime esercitò un controllo crescente sulla produzione artistica, promuovendo un'idea di italianità e ostacolando le espressioni musicali non conformi ai suoi ideali. Nel mondo musicale italiano, attraversato da tensioni e dibattiti, si era delineata una contrapposizione tra i "farinacciani" della musica, legati alla tradizione e al servizio del regime, e i "bottaiani", sostenitori di un rinnovamento musicale. Alfredo Casella, figura di spicco del fronte progressista, si scontrò con Pietro Mascagni, che attaccò la musica nuova e il jazz. Questo scontro ideologico, che vedeva contrapposti progressisti e reazionari, si manifestò anche attraverso accuse di internazionalismo, anti-italianità ed ebraismo. Adriano Lualdi, figura vicina al regime, condusse una campagna contro un presunto complotto degli "internazionalisti" contro la "buona musica". Anche allora non mancava chi inseguiva i complotti. La critica musicale al jazz Anche sul jazz la critica musicale italiana non mancò di dividersi. Da un lato, figure come Vittorio Mussolini, fratello del Duce e appassionato del genere, ne riconoscevano il valore e lo difendevano. Dall'altro, altri critici, in linea con l'ideologia del regime, espressero giudizi negativi, alimentando una retorica ostile condivisa anche dagli ambienti più conservatori. Tuttavia, con il progressivo inasprirsi del nazionalismo e del razzismo, il jazz fu sempre più osteggiato dalla critica, che lo definiva "moralmente primitivo" e "non italiano". Musicologi vicini all'estetica fascista come Giannotto Bastianelli lo consideravano una musica degenerata, influenzata negativamente dalle culture afroamericane, mentre Fausto Torrefranca, noto per il suo pamphlet "G. Verdi e il melodramma italiano" (1913) in cui criticava l'influenza straniera sulla musica italiana, vedeva il jazz come una minaccia alla purezza della tradizione musicale italiana. Uno degli aspetti più controversi del jazz era il suo legame indissolubile con la danza, elemento che suscitava diffidenza sia nel regime sia nella Chiesa cattolica. Quest'ultima si mostrò inorridita dallo spettacolo dei giovani, in particolare delle giovani donne, che si divertivano liberamente con il jazz, emettendo ogni sorta di terribili ammonimenti riguardo alle conseguenze e associando il jazz a sterilità, zitellaggio e tubercolosi. Questa opposizione non riguardava solo la fisicità del ballo, ma anche il fatto che le sale da ballo diventavano nuovi luoghi della borghesia che creavano i presupposti per un sovvertimento dell'ordine sociale e allontanavano i fedeli dai riti domenicali. La preoccupazione della Chiesa, come quella del regime, era di non poter controllare un fenomeno nuovo che portava con sé profondi cambiamenti nei costumi e nelle abitudini sociali. Nel 1928, Carlo Ravasio scriveva sul "Popolo d'Italia", condannando aspramente il jazz e le sue mode effimere, giudicandolo "antifascista" e "ingiurioso per la tradizione". Nello stesso anno, Antonio Gramsci, in una lettera, rifletteva sul potere ideologico del jazz, interrogandosi sull'influenza che la ripetizione incessante di ritmi sincopati e movimenti rituali potesse avere sulla mentalità europea, arrivando a suggerire che questa musica fosse in grado di generare un vero e proprio fanatismo culturale. Julius Evola affrontò il rapporto problematico tra jazz, fascismo e modernità nella "Filosofia del Jazz" e nella "Rivolta contro il mondo moderno". In queste opere, definì il jazz come "musica che non si rivolge più all'anima [...] ma passa direttamente a muovere il corpo, risolvendosi, a mezzo dei sincopati, in puri impulsi all'azione". Secondo Evola, il jazz rivelava una doppia valenza di pericolo da debellare o potenziale tecnica di dominio, paragonando l'atteggiamento da tenere nei confronti della sua "morbosità destabilizzante" alla strategia di un buon nuotatore che asseconda l'onda per poi slanciarsi. In questo clima, anche alcuni musicisti vicini al regime espressero commenti razzisti e antisemiti contro il jazz. In particolare, gli attacchi di Francesco Santoliquido e Ennio Porrino contro Alfredo Casella dimostrano come settori legati al regime nutrissero ostilità verso forme musicali considerate moderne e potenzialmente "straniere". L'eredità del jazz del Ventennio Un racconto che ci parla di un'epoca in cui la musica, più che semplice intrattenimento, diventa un campo di battaglia culturale, un simbolo di libertà e di ribellione, capace di sopravvivere anche sotto il peso della censura e della repressione. Un'eredità che continua a risuonare nelle note del jazz italiano, un genere che ha saputo reinventarsi e affermarsi, nonostante tutto. Nonostante l'ambivalenza e le restrizioni imposte dal regime fascista, il jazz non solo sopravvisse, ma si radicò nel tessuto musicale italiano, evolvendosi e sviluppando caratteristiche proprie. La popolarità del jazz tra il pubblico italiano, specialmente tra i giovani, fu un fattore determinante che impedì una sua completa proibizione. Gli sforzi di italianizzazione, come il cambio dei nomi dei musicisti americani e l'incoraggiamento di uno stile più melodico con l'uso di strumenti locali, testimoniano un tentativo di conciliare la diffusione di un genere musicale straniero con le esigenze nazionalistiche del regime. PS Per approfondire il tema "jazz nel Ventennio" si possono consultare le opere: Mazzoletti Il jazz in Italia dalle origini alle grandi orchestre 2004, Poesio Tutto è ritmo, tutto è swing. Il jazz, il fascismo e la società italiana 2018
    23 punti
  2. Luigi Settembrini, patriota unitario e scrittore, aveva fondato la società segreta "Figliuoli della Giovine Italia" che ben presto fu scoperta dalla polizia borbonica. Arrestato nel maggio 1839 e tradotto in carcere, il Settembrini seppe con abile difesa, strappare ai giudici una sentenza assolutoria, sebbene il procuratore generale avesse chiesto per lui 19 anni di ferri. Il re Ferdinando II di Borbone forse se la prese ma restò in silenzio, non parlò né di giudici comunisti né di separazione delle carriere. Nelle “Ricordanze della mia vita”, rievocando il periodo di questa sua carcerazione, il Settembrini così scrive: "Una mattina udii di lontano una voce di donna che cantava soavemente, e mi parve come un balsamo sopra la piaga. Si trovò ad entrare il Liguoro ed io lo domandai: chi è che canta così bene? - È mia figlia. - E che canzone canta? - La canzone nuova, Te voglio bene assaje, e tu non pienze a me. Vi piace? Ebbene le dirò che la canti spesso. Tre belle cose furono in quell'anno: le ferrovie, l'illuminazione a gas e Te voglio bene assaje”. Una grotta ai piedi di Posillipo La Festa di Piedigrotta, un evento secolare che animava la città con musica e celebrazioni, fu il palcoscenico sul quale "Io te voglio bene assaje" conquistò il cuore del pubblico. Qui, le canzoni nascevano, si diffondevano e diventavano parte della memoria collettiva. Già nel I secolo a.C. nei pressi della Crypta Neapolitana, nota anche come grotta di Posillipo, si praticavano culti pagani. Questo luogo, il cui ingresso principale si apre ancora oggi a Mergellina, all'interno di un sito che custodisce la tomba di Giacomo Leopardi e quella attribuita a Publio Virgilio Marone, era un centro di riti orgiastici. Petronio Arbitro, nel suo Satyricon, ci offre una testimonianza di queste pratiche, descrivendo baccanali sfrenati che si svolgevano in onore del celebre Priapo, divinità della fertilità e della natura rigogliosa. Dopo vari accadimenti si arriva al 1353 quando fu edificato il santuario de pedi grotta, con la sua festa, che fu fissata l'8 settembre, giorno della natività di Maria. Il popolo napolitano prese ad radunarsi nella grotta di Posillipo ogni anno alla festa di Piedigrotta e lì a sfidarsi a cantare improvvisato, la canzone giudicata più bella ripetuta da tutti era la canzone dell'anno. Nel corso dell'Ottocento, la Festa di Piedigrotta conobbe una significativa evoluzione. Da evento legato a espressioni musicali tradizionali e orali, si trasformò progressivamente in una rinomata vetrina per la canzone d'autore. Se inizialmente la festa era caratterizzata da repertori musicali di tradizione orale come tammurriate, tarantelle e canti devozionali, intorno agli anni ’40 le canzoni iniziarono ad essere attribuite ai loro autori, assumendo caratteristiche stilistiche diverse a seconda del temperamento artistico di chi le componeva. Con la nascita di composizioni musicali scritte e concepite specificamente per l'intrattenimento si verificò il passaggio “dalla canzone della festa” alla “festa delle canzoni”, un cambiamento che segnò una tappa importante nella storia della musica napoletana e non solo di questa. Le canzoni napoletane presentate a Piedigrotta attirarono l'attenzione di importanti case editrici musicali, sia di rilievo nazionale come Ricordi, sia locali come Casa Bideri, particolarmente attiva nel settore della canzone napoletana. Questi editori compresero il notevole potenziale di questo genere musicale. L'intervento del milanese Ricordi, in particolare, rappresentò una svolta decisiva, trasformando la canzone napoletana in un prodotto commerciale di grande diffusione. In questo modo, la musica popolare si affermò come fenomeno di massa, assumendo una duplice natura: espressione autentica della cultura popolare e al contempo prodotto industriale destinato a un pubblico sempre più ampio. La Festa di Piedigrotta si rivelò un'importante piattaforma di lancio per i più talentuosi autori e interpreti dell'epoca, tra cui Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Ernesto Murolo, Eduardo Di Capua e Ferdinando Russo. Le loro creazioni, spesso realizzate in occasione dei concorsi di Piedigrotta promossi dalle case editrici, hanno contribuito in modo fondamentale a costituire quel ricco e variegato repertorio che oggi identifichiamo con il nome di Canzone Napoletana. Nascita di una melodia immortale La canzone napoletana, nelle sue prime espressioni popolari, si caratterizzava per una profonda malinconia sentimentale, specchio delle sofferenze e delle speranze del popolo (qualcuno ha detto blues? ). Successivamente ci fu una evoluzione con l'avvicinamento allo stile della romanza, l'acquisizione di una forma più strutturata e l'adozione di un linguaggio più raffinato. Parallelamente, il gusto del pubblico cambiava, nuove tendenze musicali influenzavano il ritmo, che si faceva più vivace e saltellante e la "nenia", espressione tipica del canto popolare più antico, scomparve gradualmente, segnando un allontanamento dalle radici marinare e dalle fatidiche rive di Posillipo. In questo contesto di transizione si inserisce "Io te voglio bene assaje", un brano che pur non potendo essere considerata la primissima canzone napoletana d'autore dell'Ottocento (esistono infatti composizioni precedenti di autori come Maria Malibran e Gaetano Donizetti), tuttavia questa canzone rappresenta un esempio emblematico di questa fase di passaggio, una tra le prime canzoni a subire questa trasformazione, anticipando il futuro della musica leggera italiana. Presentata alla Piedigrotta del 1835, la sua struttura strofica, anticipa la forma strofa-ritornello, si compone di ottave suddivise in due quartine, con versi settenari (o ottonari) e senari, e rime che seguono lo schema ABBC-DEEC. Il cuore pulsante della canzone è il "ripeto obbrecato", il verso "Io te voglio bene assaje / e tu non pienz’a me", che si ripete in ogni strofa, trasformandosi in un vero e proprio tormentone. La paternità della musica è stata a lungo dibattuta. Inizialmente attribuita a Gaetano Donizetti, questa ipotesi è stata smentita da ricerche recenti. Gaetano Amalfi ha suggerito che l'autore potrebbe essere Guglielmo Cottrau, o che questi abbia attinto a fonti popolari. Raffaele Di Mauro ha proposto il nome di Vincenzo Battista, mentre le informazioni più recenti indicano Filippo Campanella come compositore. L'unica certezza rimane l'autore del testo, Raffaele Sacco, ottico (fondò il primo negozio di ottica in Italia, in via della Quercia), scienziato, accademico, inventore... e bon vivant tombeur de femmes nel tempo libero. L'adattamento di Cottrau ha giocato un ruolo cruciale nella diffusione della canzone in Europa, mentre l'uso sapiente del crescendo emozionale e l'equilibrio tra testo e melodia ne fanno un capolavoro del genere sentimentale. Successo e critiche Escludendo possibili stampe precedenti su fogli volanti, è questa la prima versione della canzone pubblicata per canto e pianoforte: Io te voglio bene assaje. Nuova canzone napoletana, Girard e Co. n. 4825, 1840. Anonima, in Si bemolle maggiore, testo di quattro strofe. La risonanza della canzone fu straordinaria, il successo fu di dimensioni tali da suscitare anche commenti stizziti per l'ossessionante ubiquità della melodia cantata in tutta la città tanto che il giornalista Raffaele Tommasi, il 6 agosto 1840, sul settimanale letterario Omnibus, scriveva: «Sfido chiunque dei miei lettori a dare un passo, o a ficcarsi in un luogo dove il suo orecchio non sia ferito all'acuto suono di una canzone, che da non molto da noi introdottasi, trovasi sulle bocche di tutti, ed è venuta in sì gran fama da destar l'invidia dei più valenti compositori». Le critiche di Totonno Tasso, poeta popolare, evidenziavano un cambiamento nel gusto del pubblico, il brano introduceva una novità che si discostava dalle forme più tradizionali della canzonetta napoletana, in realtà questo mutamento rifletteva le trasformazioni sociali ed economiche di Napoli, con l'emergere di nuove classi e influenze culturali. Un ponte tra le epoche La melodia di "Io te voglio bene assaje" si diffuse rapidamente, superando i confini cittadini per raggiungere un pubblico sempre più vasto. Guglielmo Cottrau (capostipite di una famiglia di compositori ed editori, detto il "parigino di Mergellina") contribuì alla sua rielaborazione e diffusione, mentre artisti del calibro di Luciano Pavarotti, Massimo Ranieri, Roberto Murolo e ne hanno mantenuto viva la memoria attraverso le loro interpretazioni. Il brano, inizialmente radicato nella cultura popolare, divenne così un ponte tra epoche e stili diversi. In copertina: Vincenzo Migliaro, Piedigrotta (la festa di Piedigrotta), 1895
    12 punti
  3. JVC QL-7 Quartz-Locked Direct-Drive Turntable (1977) Con il restauro e revisione di questo QL-7 mi cimento per la prima volta sui JVC dei tempi d’oro. Il giradischi in origine si presenta composto da: una base in truciolato impiallacciata in laminato di colore nero, era disponibile anche una base impiallacciata in legno per altri mercati, non per l’Italia; dal motore TT-71 disponibile per la vendita anche separatamente; dalla versione semplificata del braccio UA 5045 che si differenzia dal modello venduto inbox per alcune caratteristiche quali il gancio di riposo del braccio in posizione separata; una base dedicata da poter permettere il fissaggio del braccio sul plinto al posto del consueto dadone; i cavi che fuoriescono direttamente dal braccio fino ad un box di connessione ancorato al fondo nel quale si estendono i cavi schermati left - right e la massa al di fuori del giradischi per la normale connessione al pre; e per alcuni particolari di montaggio interni semplificati nel braccio in dotazione a questo giradischi Mi aggiudicai il giradischi ad un’asta qualche anno fa dopo una combattuta disputa tra più contendenti; lo scelsi sia perché la riparazione del fratello maggiore TT-101 che mi fu regalato tempo prima si rivelò fallace (ed un JVC tra la mia collezione lo volevo avere) sia perché leggendo in rete riguardo questa serie, il TT-71 avendo meno complicazioni elettroniche non presentava i problemi del fratellone maggiore, risultando anche a dispetto della concorrenza oltre che ben suonante pure tremendamente affidabile, quindi niente di meglio che mettermi a caccia di un modello che sia a posto come volevo io. Il corriere Appena mi si presentò quindi l’occasione di trovare all’asta un paio apparentemente a posto, tentai di portarmi a casa proprio quello che vinsi in quanto veniva proposto da un venditore nazionale (preferibile ad uno estero) ed era perfetto e a posto come volevo io. Purtroppo si sa che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e, nonostante le raccomandazioni fatte al proprietario di effettuare un imballaggio a prova di bomba anti-corriere, costui sottovalutando quanto gli indicai, lo imballò alla bell’e meglio e me lo spedì. Qualche giorno di attesa e una volta ritirato, aperto l'imballo il giradischi oltre che lercio mi si presentò in queste condizioni... Il braccio apparentemente sembrava non aveva subito danni se non il perno del contrappeso visibilmente a pendoloni per il cedimento naturale della gomma smorzante, problema di cui ero già a conoscenza in tutti questi bracci ma non mi preoccupava in quanto la riparazione è possibile. Invece il giradischi ad un test veloce si rivelò non funzionante nel senso che all’accensione non ne voleva sapere di partire in quanto il blocco del freno meccanico non si sganciava dal piatto impedendole la partenza, risolto in seguito durante la revisione con una pulizia a fondo del solenoide in quanto inspiegabilmente nella sede del perno si trovava del grasso che ne impediva il movimento. Tutti problemi che andavano discussi con il venditore per una soluzione da risolvere nel migliore dei modi. Alla fine concordammo per la restituzione di una parte dell’importo speso lasciando il giradischi in mio possesso. Lo scorso inverno tra il restauro di un Technics Sp10 II e l’altro decisi di prenderlo in mano e procedere ad una revisione completa per rimetterlo a nuovo e renderlo efficiente e funzionante. Procediamo Come prima cosa mi occupai di far rifare un coperchio e sistemare anche il plinto che aveva subito il danno allo spigolo completandolo con una ri laccatura dello stesso colore originale. Nell’attesa ho preso in mano il TT-71 per smontarlo completamente volendo lavare dalla sporcizia il telaio messo a nudo, sostituire tutti gli elettrolitici, revisionare il motore e curare alcuni aspetti dell’insieme. Il motore prima di procedere al completo smontaggio Per la maggior parte delle elettroniche dell’epoca i cablaggi venivano affidati alla tecnica wire wrap per collegarle alle schede, soluzione comoda ma volendo svincolare le schede dai collegamenti per una pulizia a fondo come desideravo, la soluzione diventa intralciante e alquanto fastidiosa; pertanto o si dissaldano tutte le colonnine dove i cavi sono avvolti alle rispettive posizioni o si passa a soluzioni più drastiche tagliando i cavi e riavvolgendoli all’atto dell’assemblaggio... ho scelto la prima soluzione per poi, all’atto dell’ assemblaggio passare alla variante best-groove che spiegherò in seguito. Dopo aver siglato singolarmente i cavi per non commettere errori al momento del montaggio riportando quando stampato sulle schede nel punto del collegamento… …ho provveduto a dissaldare le colonnine wire-wrap, liberando le schede, separare il motore e tutta la componentistica per ottenere il telaio a nudo e, assieme alla schede procedere per la pulizia a fondo con il solito Chanteclair. Alcuni componenti dopo lo smontaggio pronti per una pulizia a fondo. Dopo aver accuratamente lavato e sgrassato schede e telaio ho approfittato per ricoprire ad aerografo alcuni piccoli segni dovuti allo sfregamento con le dita in corrispondenza dei tasti deputati alla velocità di rotazione. La scheda madre una volta sgrassata e pulita ha subito un completo recap come di prassi. Inspiegabile come in passato i costruttori giapponesi avessero il vizio di impiastricciare di collante la base dei condensatori più grossi, collante che spalmavano in ogni dove, coinvolgendo pure la componentistica nei pressi e che ho voluto rimuovere dissaldando i componenti impiastricciati. Le foto mostrano l’abbondanza di colla sotto le capacità che avevo già tolta utilizzando una marea di cotton fioc e solvente, mancano solo alcuni punti da pulire, poi le resistenze sollevate per la pulizia a fondo possono ritornare al loro posto ed essere risaldate. Effettuato il recap e applicato l’immancabile bollino come promemoria indicante mese e anno dello stesso ho messo in pratica la variante best-groove che in sostituzione delle colonnine wire wrap assai scomodissime ho pensato di utilizzare la tecnica plug-in a singolo polo, saldando sempre una colonnina allo stampato ma utilizzando una femmina dedicata in modo da poter sfilare all’occorrenza semplicemente i cavi senza dissaldare nulla nell’eventualità servisse in un futuro una manutenzione straordinaria...la difficoltà più grossa è stata nel trovare qualcosa che fosse compatto visti gli ingombri risicati e la densità della componentistica; accantonati i faston anche di piccole dimensioni quanto meno nella scheda madre, i problemi son sorti nel momento che in commercio si trovano solamente innesti a partire da 2 poli a salire che a me non interessavano affatto. Dopo lunghe ricerche alla fine ho trovato quanto cercavo grazie anche alle indicazioni ricevute in Sezione DIY. Trovati ed acquistati i necessari plug-in, i singoli cavi necessitavano di numerazione per non confonderli, quindi piuttosto che acquistare numerazioni specifiche per cavi che non costano poco ho preferito farle da me con carta adesiva utilizzando una stampante a getto di inchiostro e guaina termo restringente trasparente andando a ricoprire la numerazione di ogni singolo cavo. Prima.... .... e dopo Revisione del motore Il motore si rivela un bel pezzo elettromeccanico dalle dimensioni importanti simili ad una grossa tazza ed è anche pesante; devo dire che mi piace più del motore del Technics SP-10 per come si presenta; piuttosto piatto quello del Technics, decisamente sviluppato in altezza quello del JVC... sono solo sensazioni ma in qualche modo trasmettono solidità e qualità senza badare a spese. Al disassemblaggio l’interno non ha rilevato sporcizia di sorta, posso dire che l’ho trovato pulito come non avrei mai immaginato. Anche il perno si presenta molto bene, con buona lucentezza e fatto molto importante senza striature visibili, segno che il lubrificante ha fatto un ottimo lavoro in 40 anni di vita ma anche merito di attriti contenutissimi e parti molto ben lubrificate indice di un attento studio in fase di progettazione. Lo statore e relativi avvolgimenti si son rivelati perfetti e lucenti, questo indica che il motore non ha subito colpi o schiacciamenti con sfregamenti di conseguenza; a parte le foto di rito non è stato necessario fare nulla, solamente la pulizia accurata della sede del perno dopo la rimozione dell’olio originale e una spolverata generale. L’olio originale pur avendo deciso di sostituirlo comunque, alla vista è risultato perfetto, chiaro e pulito come fosse stato immesso da poco tempo. Questa caratteristica mi ha sorpreso molto in quanto nei motori degli SP-10 che ho revisionato ho sempre trovato in generale una sporcizia diffusa sia all'interno del motore sia dell’olio che della relativa sede estraendo i cotton fioc utilizzati per la pulizia solitamente neri; in questo motore invece la sensazione che ho avuto è stata come se fosse stato appena prodotto... mi è piaciuto veramente molto. Il fondello di appoggio del perno Il motore pulito, lubrificato e assemblato pronto per l’installazione e... ...l’immancabile bollino indicante la data della revisione appena effettuata Prima di procedere all’assemblaggio del TT-71 sono state pulite e/o lucidate tutte le rimanenti parti cromate quali i tastini delle funzioni, staffe, zoccoli portafusibili, il plexy a protezione dello stroboscopio, e quant’altro compongono il giradischi, ingrassate le piccole leve metalliche e perni che eseguono i movimenti del freno e dell’accensione. Rimossa anche la vecchia pasta al silicone ormai seccata ed applicata di nuova al transistor di potenza. Inizia il montaggio Il trasformatore di alimentazione è isolato dal telaio ed fissato a testa in giù tramite un paio di lunghi perni terminanti a fondo corsa da due silent block di gomma morbidissima dove il trasformatore va ad adagiarsi. I silent-block in questa revisione li ho voluti opportunatamente trattare con un protettivo specifico che mantiene la gomma morbida evitando che il tempo la possa aggredire generando insidiose e dannose screpolature. Il sistema adottato dalla JVC evita che le vibrazioni generate dal trasformatore possano attraversare il telaio amplificandone le seppur microscopiche vibrazioni... idea semplice economica ma sopra tutto geniale. Proseguo nel montaggio... ...per poi applicare la scheda madre effettuati i collegamenti alla scheda manca da applicare il cavo di alimentazione e il fondello così da permettere di consegnarlo al tecnico per effettuare le tarature prescritte dalla casa. Il cavo originale di alimentazione accorciato per chissà quale motivo verrà sostituito da un altro cavo di alimentazione di opportuna lunghezza e dalla sezione decisamente più generosa ma estremamente flessibile grazie al rivestimento esterno in neoprene rispetto alla flessibilità dei cavi rivestiti in volgare pvc. Il braccio In attesa sia pronto il plinto e venga controllato il TT 71 mi son dedicato alla revisione del braccio; come prima cosa ho effettuato lo smontaggio del lifter in quanto il braccio scendeva troppo velocemente indice di mancanza di grasso siliconico, cosa normale con gli anni d’uso. Puliti per bene e sgrassati i vari elementi ho provveduto a spalmare sufficientemente il pistoncino con un grasso siliconico avente una densità di 500.000 cts... densità col quale mi trovo benissimo offrendomi una discesa non troppo veloce ne estenuatamente lenta. Non servono tonnellate di prodotto ma basta una leggera velata purché uniforme attorno al pistoncino e al perno che lo movimenta. L’altro problema cui accennavo più su riguarda il perno che regge tutto il contrappeso; questo da progetto veniva isolato da una gomma che con gli anni praticamente in quasi tutti i bracci JVC - o Victor che dir si voglia - tende a diventare molliccia come il chewing gum cedendo con il peso del contrappeso e non producendo nessuna utilità. La gomma che avrebbe dovuto essere cilindrica con gli anni si trasforma in questa massa informe dall’ aspetto non proprio rassicurante. In questo caso è servito un procedimento di sostituzione alquanto laborioso per operare negli spazi risicati concessi all’interno dell’articolazione (o castello che dir si voglia), ma alla fine la pazienza è risultata vincente nel senso che l’operazione ha dato i frutti sperati riuscendo nell’intento. Riflettendo mentre l’avevo sul banco ne osservavo la lavorazione e seppur essendo un braccio economico e semplice senza complicazioni meccaniche di sorta, a differenza di bracci più costosi ed evoluti dell’epoca, questi oggetti rivestono sempre sorprese piacevoli nel senso che in passato non si lesinava con le lavorazioni dei metalli e relativi trattamenti galvanici sicuramente inquinanti da far paura ma così robusti e duraturi rispetto a cosa si trova oggi: si pensi ad esempio all’alluminio della base tirato a specchio quasi a risultar cromato ed intaccabile dall’ossidazione restando lucido e senza brutture estetiche dovute al trascorrere del tempo nonostante i 40 e più anni di vita, o alla canna del braccio sempre in metallo ma sorpresa..... non è conduttiva, nel senso che appoggiando i puntali del tester la canna non conduce, soluzione adottata per non fungere da antenna captando ronzii o rumori di massa; eppure non c’è vernice applicata a far da isolamento e nemmeno la canna è di plastica imitazione metallo, quindi la domanda mi sorge spontanea: come cavolo hanno eseguito 40 anni fa queste lavorazioni che ora non si adottano più? Se si pensa che oggi come oggi la maggior parte delle canne dei bracci son tutte o prevalentemente verniciate questo fa riflettere un po’... vero? La canna non conduttiva Basamento e castello invece sono conduttivi ma in questi punti non ha importanza Purtroppo il lavoro delle riparazioni da me eseguito è stato vano in quanto ragionandoci su, un braccio che ha sulle spalle molti anni di vita andrebbe per principio comunque revisionato sia per permettere di essere sempre a posto contenendo gli attriti al minimo causa la lubrificazione dei cuscinetti dissolta o indurita all’interno di essi (complice anche l’inevitabile cumulo di polvere o sporcizia che si deposita) sia per il controllo dei cablaggi che con gli anni tendono anch’essi ad indurirsi generando insidiosi attriti e che andrebbero sostituiti nel caso fosse necessario. Per questo, quando la disponibilità economica me lo permette, un po’ alla volta per scrupolo faccio volentieri revisionare i bracci usati acquistati nel tempo oltre al fatto che non ci tengo ad aver problemi al momento di un utilizzo futuro. Così, non essendo in grado di farlo da me, ho preferito spedire il braccio per una revisione al gran completo, revisione che è stata utile in quanto l’ho ritrovato decisamente più fluido rispetto a prima e con l' antiskating perfettamente calibrato; se solo c’avessi pensato prima mi sarei risparmiato due lavorazioni di ripristino riguardo il lifter e la sostituzione della gomma del contrappeso ma ...tant’è che è andata diversamente. Il check Revisionato il braccio e laccato il plinto posso procedere al montaggio di tutto all’arrivo dalla revisione e check del solo motore TT71. Il check non ha comportato problemi di sorta e si è svolto senza grosse complicazioni ma, causa il primo lockdown, il TT71 è stato trattenuto per parecchi mesi prima di consegnarmelo; ad ogni modo tutto è andato per il meglio e con le tarature di rito si è chiuso il cerchio. 33 rpm 45 rpm Il montaggio Procedo al montaggio con l' applicazione dei piedoni e dei badge Passato ad applicare il braccio senza particolari problemi ho poi provveduto da sotto il giradischi alla saldatura dei sottili fili sulla piastrina di giunzione e da questa far fuoriuscire i cavi che andranno collegati al preamplificatore. Non volendo tenere i cavi originali dall’aspetto alquanto dimesso ho voluto migliorare il tutto con dei cavi ad hoc a bassa capacita della Van Den Hul terminati con i connettori della stessa casa, pure il filo di massa è stato sostituito con un cavo argentato a più grossa sezione Cercato, trovato e acquistato lo shell originale e delle pagliuzze idonee che andranno a sostituire una conchiglia after market come verrà sostituito anche il tappetino di qualità vergognosa con il suo originale che erano forniti al momento dell’acquisto. Per il montaggio del motore al plinto non mi andava di utilizzare le orribili viti per legno arrugginite (a dx della foto) che lo impegnano sul truciolato solo in parte dando una sensazione di fissaggio precario, ho optato per una soluzione più congegnale utilizzando delle viti a colonna filettate a passo metrico all’interno e tagliate a misura per la giusta altezza in modo da fissare saldamente il TT 71 al plinto oltre ad essere più gradevoli alla vista ( a sx della foto) Installato il TT 71 al plinto e fissato solidamente con le nuove viti… ho provveduto all’applicazione degli adesivi e del seriale rifatto ex novo causa scarsa leggibilità dell’originale. Il risultato Il giradischi finito e pronto all’uso dopo l’applicazione di una buona testina.
    8 punti
  4. Cosa ci fa uno dei più grandi storici del Novecento alle prese con il jazz? A prima vista può sembrare un accostamento curioso, ma in realtà "Storia sociale del jazz" è la naturale estensione del restante lavoro di Eric Hobsbawm. Con la sua capacità unica di leggere i fenomeni culturali come prodotti e riflessi della storia sociale, Hobsbawm ci consegna un’opera che è al tempo stesso saggio, racconto e affresco critico su una delle più importanti forme d’arte musicale: il nostro amato jazz. L'autore Eric Hobsbawm (1917-2012) è stato uno storico di fama mondiale, noto per le sue innovative visioni della storia, tra cui la celebre definizione di "secolo breve" per il Novecento. Oltre ai suoi studi sul movimento operaio, Hobsbawm nutriva una profonda passione per il jazz, che lo portò a scriverne regolarmente come critico musicale sotto lo pseudonimo Francis Newton, in omaggio al trombettista comunista Frankie Newton. Questa duplice veste di storico rigoroso e appassionato intenditore ha permesso a Hobsbawm di offrire una prospettiva unica e integrata sul jazz. Per Hobsbawm il jazz non è solo musica: è un fenomeno sociale. È la voce, spesso inascoltata, di una parte della società che non aveva accesso al potere né agli strumenti della rappresentazione dominante. Nato nelle comunità afroamericane del Sud degli Stati Uniti, il jazz diventa, pagina dopo pagina, una lente attraverso cui osservare non solo l’evoluzione musicale del Novecento, ma anche le sue trasformazioni economiche, politiche e culturali. Il libro "Storia sociale del jazz" fu pubblicato nel 1959 con il titolo originale: The Jazz Scene, sotto lo pseudonimo di Francis Newton. L'opera è strutturata in quattro parti: una prima dedicata alla storia del jazz dalle origini all’età del bebop; una seconda dedicata alla musica in sé (strumenti, forme, rapporti con altre arti); una terza all’industria musicale; e una quarta — tra le più interessanti — dedicata alle persone: musicisti, pubblico, appassionati, critici. Completano l'opera diverse appendici, un glossario del linguaggio del jazz, una guida per approfondire la lettura e una sezione dedicata a biografie e ritratti dei grandi del jazz, curata da Arrigo Zoli, con figure iconiche come Louis Armstrong, Bessie Smith, Duke Ellington, Miles Davis, Billie Holiday, John Coltrane e Charlie Parker. L’autore analizza con precisione e passione le origini del jazz, la sua diffusione, la sua continua metamorfosi. Lo stile è sorprendentemente scorrevole, e nonostante l'autore sia noto per le sue grandi sintesi storiografiche — Il secolo breve, Le rivoluzioni borghesi, Il trionfo della borghesia — qui si muove con una leggerezza e un calore che sorprendono. Forse perché dietro la penna di Francis Newton c’è l’appassionato ascoltatore, il frequentatore di locali, il critico musicale che per dieci anni ha scritto di jazz sulle pagine del “New Statesman”. Ma anche perché il jazz stesso, con la sua vitalità, la sua apertura all’improvvisazione, ben si presta a essere raccontato da chi sa vedere la storia come un processo non lineare, fatto di strappi, svolte e note fuori dallo spartito. Uno dei punti di forza del libro è proprio la sua prospettiva sociale e politica, che mai scade nella rigidità ideologica. Hobsbawm era marxista, sì, ma con uno sguardo non dogmatico. Anzi, proprio la scelta di firmarsi con uno pseudonimo (in omaggio a Frankie Newton, trombettista, nero e comunista) indica la volontà di affrontare il jazz senza le preclusioni di certa ortodossia culturale dell’epoca, che vedeva nella musica americana un prodotto borghese o capitalistico da guardare con sospetto. Se il libro ha una tesi centrale, è che il jazz è sempre stato più di un genere musicale: è stato un linguaggio di libertà. E proprio per questo è stato spesso imitato, addomesticato, commercializzato. La tensione tra autenticità e mercato, tra arte e industria, attraversa tutto il libro. Hobsbawm ci mostra come il jazz sia stato un campo di battaglia culturale: una forma d’espressione popolare che l’industria discografica ha cercato di trasformare in prodotto di consumo, con esiti alterni. Il jazz — scrive — è una delle poche arti del Novecento che “non deve nulla alla cultura della classe media”. Ma quello che rende davvero interessante Storia sociale del jazz è il modo in cui Hobsbawm intreccia la storia della musica con quella delle persone che la fanno e la vivono. La musica non è mai presentata come un oggetto puro, isolato, ma come un’esperienza viva, radicata nella storia e nei corpi, nei luoghi, nei conflitti. In realtà, come dimostra l’autore, il jazz è stato a lungo una forma di cultura popolare, spesso marginalizzata, che ha resistito — almeno per un certo tempo — alla logica omologante dell’industria culturale. In uno dei passaggi più intensi del libro, Hobsbawm parla del jazz come di una musica che riesce a “non farsi soffocare” dal mercato, mantenendo una propria autenticità proprio grazie alla sua struttura aperta, collettiva, dialogica. Il jazz, insomma, è una musica che nasce dalla strada ma non si lascia addomesticare. Oggi il jazz non ha più la centralità che aveva negli anni ’50 o ’60, e può sembrare ormai una musica per pochi. Ma proprio per questo il libro è importante, ci ricorda che il jazz è una musica capace di parlare all’umano universale. Capace di fare della tensione tra ordine e disordine una forma di bellezza. Capace di far convivere la solitudine del solista con l’intelligenza collettiva dell’ensemble. In conclusione Per chi ama la musica, per chi vuole capirla nel suo contesto, per chi cerca nella cultura qualcosa che vada oltre l’intrattenimento, Storia sociale del jazz è una lettura che lascia il segno. Non solo per ciò che dice del jazz, ma per come ci insegna a pensare la musica: non come un lusso decorativo, ma come uno specchio — spesso graffiato e tagliente — della storia in cui viviamo. Storia sociale del jazz di Eric J. Hobsbawm (Autore), Massimo Donà (Prefazione) Lunghezza stampa: ‎ 484 pagine ISBN-10 ‏ : ‎ 8857567869 ISBN-13 ‏ : ‎ 978-8857567860 Link ad Amazon
    7 punti
  5. di Vincenzo Traversa Dei diffusori del costruttore statunitense ne avevamo già scritto relativamente alla prova delle XR100: Oggi ho l’opportunità di parlare di questa “nuova” coppia di diffusori da stand che hanno, tra le finalità principali, quella di riproporre il look degli anni '70 con il suono del 21° secolo. E’ una operazione “nostalgia” sensata? E’ solo marketing? Ieri e oggi Partiamo dai diffusori d’origine, gli ML1 degli anni '70. Anche loro da stand (anzi bookshelf) in sospensione pneumatica a 4 vie e 4 altoparlanti (woofer da 12”, midwoofer da 8, mid alto da ½” e tweeter da 1/4"). Questi diffusori (apprendo dalla letteratura in materia) furono progettati per lavorare in simbiosi con gli equalizzatori MQ della Casa, al fine di migliorare la risposta in bassa frequenza. La loro produzione terminò nel 1977. Purtroppo, ad oggi, non ho mai avuto l’occasione di poterli ascoltare. Gli ML1 mkII sono diffusori da stand, in sospensione pneumatica a 4 vie e 5 altoparlanti. Il progetto prevede l’utilizzo di un woofer da 30 cm, due midwoofer da 10 cm, un mid alto da 5 cm ed un tweeter da 1,9 cm. Le altre specifiche tecniche dichiarate dal costruttore sono le seguenti: impedenza nominale 8 ohm, sensibilità 85db 2,83 V/1 metro, frequenze di taglio del crossover 180 hz / 500 hz / 4500 hz, potenza utilizzabile dai 75 ai 600 watt. Risposta in frequenza da 27 hz a 45 khz. Dimensioni L 38,1 cm, H 66,4 e P 34 cm. I diffusori arrivano con i loro stand, ai quali è possibile applicare le punte fornite a corredo. Tutti i driver, eccetto il tweeter, sono in materiale plastico (polipropilene) con sospensioni in gomma (molto generosa come dimensione quella del woofer). Il tweeter ha la cupola in titanio ed è il medesimo utilizzato su altri modelli di diffusori McIntosh, come ad esempio il già citato XR100. Per il mobile è stato utilizzato il noce americano, dall’aspetto robusto ma un po' “povero”. La rifinitura satinata lo rende fin troppo anonimo. A memoria posso affermare che le Klipsch Heresy III mi sembravano rifinite meglio. Nell’immagine è possibile vedere “l’esploso” del mobile e della componentistica. Come si presentano Non è mia intenzione dilungarmi oltre sugli aspetti squisitamente tecnici per i quali vi rimando alla pagina web del prodotto dalla quale poter attingere a tutte le ulteriori specifiche ed informazioni. I miei obiettivi riguardano “marginalmente” l’aspetto estetico e, soprattutto, il come suonano. In fotografia non rendono bene l’impatto visivo che invece trasmettono collocati in ambiente. Inizialmente pensavo fossero più “piccoli” ma, una volta issati sui loro stand e sistemati in ambiente arrivano quasi alla metà dell’altezza delle Sonus Faber Lilium. L’aspetto retrò può piacere o meno. La connotazione vintage della loro impostazione estetica certamente è stata pensata per l’inserimento in ambienti classici e dai toni caldi. Con la griglia para-polvere magnetica montata sul diffusore diventano compagni di ascolto sobri, seriosi, un filo anonimi. Rispetto alla ML1 originaria non ci sono più i listelli verticali che, seppur deleteri per la trasparenza del suono, ne alleggerivano l’immagine frontale. La nuova tela e l’unico listello orizzontale sono dichiarati per essere acusticamente trasparenti (e vedremo se sarà vero). A griglia smontata prevale l’impatto visivo del grande woofer e degli altri 4 driver. In McIntosh hanno fatto prevalere una immagine troppo “monitor style”, anonima e poco coraggiosa. Avrei preferito di gran lunga una finitura del frontale nello stesso legno del mobile oppure, colorata come le competitor JBL Studio Monitor, che hanno fatto del frontale azzurro una parte del loro fascino distintivo. Il retro del diffusore, verniciato in nero, vede la vaschetta delle 4 connessioni. Quindi il diffusore accetta il biwiring e la bi amplificazione. I connettori utilizzati sono gli stessi montati sui finali del brand. I diffusori montati sui loro supporti assumono una angolazione tale da portare virtualmente l’altezza del tweeter a quella delle orecchie dell’ascoltatore seduto. Anche l’aspetto di questi ultimi non mi ha convinto particolarmente. Il fregio frontale McIntosh ML1 mi sembra troppo grande e dall’aspetto posticcio. Una bella fresatura avrebbe garantito un maggior senso di qualità. Ma queste sono solo considerazioni estetiche personali. Il suono Le prove d’ascolto si sono svolte sia con che senza le griglie para polvere montate sui diffusori. La loro presenza non è neutra rispetto al risultato ottenibile andando a modificare in modo sensibile sia lo stage che la trasparenza. Le prime due settimane di “rodaggio” sono servite a prendere confidenza con il posizionamento dei diffusori, in modo da poter ottenerne il massimo sia come risposta in frequenza che come riproposizione dello stage. La sospensione pneumatica ha fornito una mano benefica nel posizionamento perché ha consentito diverse scelte di posizionamento rendendo sempre gestibile la risposta in frequenza. Bel risultato. Dopo le suddette due settimane sono iniziati gli ascolti seri. Prima con la musica rock, blues e jazz e poi con la musica classica (da camera ed infine la sinfonica). Inizio con le griglie montate sui diffusori: basso “a molla” esattamente come mi aspettavo, con notevole punch ed una notevole estensione verso il basso, sicuramente più profonda ed articolata rispetto alla Klipsch Heresy III ascoltate nello stesso ambiente e nella stessa posizione. Il medio basso, che ad inizio ascolto mi sembrava un tantino indietro, con il passare delle ore d’ascolto si è ricollocato in asse, andando a ben supportare e ad amalgamarsi a dovere con lo spetto dei medio alti. Il suono del sax dei miei album di riferimento è stato così spettacolare, denso e rauco da avermi fatto venire i brividi. Anche sullo spettro più alto inizialmente mi è sembrato che il tweeter facesse un po' lo scontroso, o troppo timido o troppo irruente. È come se mi chiedesse più tempo rispetto agli altri driver per entrare in gioco. In effetti questo è stato il componente che temporalmente ha richiesto più tempo d’ascolto per poter essere compreso ed è quello che, alla fine della recensione, farà pendere l’ago della bilancia nelle conclusioni. A rodaggio concluso il diffusore ha saputo esprimersi con correttezza timbrica, notevole macro dinamica e piacevolezza complessiva. Da Steven Wilson ai Deep Purple, passando per Joshua Redman e Ben Sidran tutte le tracce ascoltate mi hanno emozionato e divertito. Anche a volumi d’ascolto da denuncia condominiale non c’è mai stato un momento in cui i ML1 abbiano mostrato la corda e sono sempre stati in grado di gestire al meglio la potenza erogata dai finali McIntosh 1.2Kw. Il diffusore, con la sua sensibilità medio bassa (direi proprio bassina) ha necessità di essere spinto con pugno di ferro e guanto di velluto. A basso volume non riesce a trasmettere emozioni, diventando un po' anonimo. Se pilotato a dovere (non scenderei al di sotto dei 300 watt a canale) esprime bene le sue qualità diventando un compagno di viaggi musicali affidabile e divertente. Da questo punto di vista mi hanno ricordato tanto le AR 10π ascoltate alcuni anni fa. Con la musica classica il risultato complessivo è stato meno omogeneo. Mi spiego meglio: se con la musica da camera o con un solo strumento (ad esempio il pianoforte) non cambia la qualità complessiva della riproduzione restando sempre molto alta, con la musica sinfonica ho riscontrato qualche difficoltà in più. Mi è sembrato che il tweeter se sollecitato da più strumenti ad arco o a fiato, nei pieni orchestrali, perdesse precisione. Il suono resta timbricamente corretto ma non sembra più in grado di restituire la definizione esatta della registrazione. E’ pur vero che, avendo come riferimento le Sonus faber Lilium, vere regine indiscusse nella riproduzione della musica classica, il mio metro di giudizio ha una asticella molto alta ma, avrei gradito una maggiore capacità di introspezione. Come termine di paragone potrei citare il vedere un film con definizione 4K senza e con HDR. Le Lilium riproducono la sinfonica in HDR, le ML1 si fermano un gradino sotto. Tutto quello che ho scritto relativamente agli ascolti effettuati con le griglie montate sui diffusori deve essere rivalutato per alcuni aspetti peculiari. Sostanzialmente non cambiano i giudizi sulla timbrica e sulla dinamica ma sulla trasparenza e sullo stage le differenze sono ben percepibili. Senza griglie aumenta la trasparenza del suono. Tutto diventa più terso e lucido. La sensazione è quella di un suono che passa dall’ambrato all’azzurrino. Mi piace? La risposta è no. Alla lunga inizia a diventare più affaticante e si inizia pian piano a ruotare verso il basso la manopola del volume. Secondo aspetto negativo, lo stage. A griglie montate il diffusore suona coerente e con i driver ben distribuiti su tute le frequenze. Senza griglie si inizia a percepire la direttività del suono. È come se il diffusore smetta di suonare come una orchestra e inizi a far sentire i singoli strumenti emessi dai singoli driver. A questo punto mi viene il sospetto che McIntosh abbia volutamente ottenere questo risultato, cioè che il diffusore sia stato progettato per suonare con le sue griglie. Conclusioni Complessivamente il diffusore mi è piaciuto. È onnivoro nel senso che è in grado di riprodurre tutta la musica. Ha delle preferenze ma riesce a gestire anche materiale musicale meno nelle sue corde. Se messo nelle condizioni ideali diventa emozionante e divertente. Non è il diffusore da ascolti a basso volume e deve essere “spronato” ad esprimersi come sa fare utilizzando una buona dose di potenza. Chi volesse utilizzarlo in tal senso farebbe un acquisto sbagliato. Va abbinato ad amplificazioni generose (ripeto, non meno di 300 watt) e questi watt vanno usati. Il secondo limite è il tweeter. Va benissimo in generale ma a mio avviso non ha la definizione e la classe che il diffusore avrebbe meritato. A questi livelli di prezzi di listino (€ 18.000,00 la coppia) il minimo sindacale non basta più. L’acquirente di turno (soprattutto se appassionato di musica classica) ha diritto di pretendere il massimo della definizione. In sintesi: correttezza timbrica 8/10 trasparenza 9/10 senza griglie 8/10 con le griglie montate micro dinamica 7/10 macro dinamica 8/10 facilità di pilotaggio 6,5/10 posizionamento in ambiente 9/10 rapporto qualità/prezzo 5/10.
    5 punti
  6. A trent'anni dal terrore di Jack lo Squartatore a Whitechapel, l'Axeman teneva in ostaggio una città americana: tra la primavera del 1918 e l'autunno del 1919 un serial killer uccise sei persone di origine italiana, ferendone altre sei, colpendo di notte a New Orleans. Questa storia ha ispirato racconti, romanzi, fumetti e la serie televisiva American Horror Story. Tuttavia, la trama completa di omicidi efferati, vittime commoventi, innocenti accusati, panico pubblico, coinvolgimento della Mafia di New Orleans e di un misterioso assassino, è rimasta avvolta nel mistero. Axeman, il serial killer che amava il Jazz Cosa c'entra il jazz? I giornali ricevettero una lettera spedita dal serial killer: dichiarava che stava per compiere un nuovo delitto ma, visto che era "molto amante del jazz", avrebbe risparmiato chiunque quella sera lo ascoltasse. Quella notte gli abitanti non volevano correre rischi: sia nelle case che nei locali della città, si ascoltò jazz e non ci fu alcuna vittima. Così nacque il mito di Axeman, il serial killer amante del Jazz. L'assassino colpiva di notte, sorprendendo le vittime, negozianti di origine italiana, e usava come arma ciò che trovava sul posto. A quanto pare, a quel tempo le asce erano comuni nelle case, fornendo alla stampa un soprannome efficace per gli articoli sensazionalistici che inondavano la città: Axeman. Axeman irruppe ripetutamente nelle case dei negozianti italiani di alimentari nel cuore della notte, lasciando le sue vittime in una pozza di sangue. Alcuni furono lasciati feriti; quattro persone furono lasciate morte. Gli attacchi furono feroci. Joseph Maggio, ad esempio, ebbe il cranio fratturato con la sua stessa ascia e la gola tagliata con un rasoio. Sua moglie, Catherine, ebbe anche la gola tagliata. L'Axeman colpì le abitazioni a New Orleans dal 1917 a marzo 1919, poi l'assassino attraversò il fiume Mississippi alla città vicina di Gretna. Nella notte del 9 marzo, attaccò Charlie Cortimiglia nel modo consueto, ferendo gravemente Charlie e sua moglie Rosie e uccidendo la loro figlia di due anni. Le autorità di Gretna - il capo della polizia Peter Leson e lo sceriffo Louis Marrero - tuttavia, si concentrarono sui vicini di casa dei Cortimiglia, l'anziano Iorlando Jordano e suo figlio di 17 anni Frank. Essendo negozianti, erano concorrenti commerciali dei Cortimiglia e li avevano recentemente citati in tribunale per una disputa commerciale. Il problema era che nessuna prova coinvolgeva i Jordano. Gli ufficiali gestirono questa scomodità attaccando i Cortimiglia feriti mentre giacevano all'Ospedale Charity, chiedendo ripetutamente: "Chi vi ha colpito?" "Sono stati i Jordano? Frank l'ha fatto, vero?" Secondo il medico che la curava, Rosie diceva sempre di non sapere chi l'avesse attaccata. Quando fu abbastanza in salute per essere rilasciata, Marrero arrestò immediatamente Rosie come testimone materiale e la incarcerò nel carcere di Gretna. Fu rilasciata solo dopo aver firmato un'affidavit che implicava i suoi vicini. Quando Iorlando e Frank andarono a processo, l'unica prova contro di loro era l'identificazione di Rosie, un'identificazione che persino il suo medico considerava non affidabile. Eppure, dopo un processo di meno di una settimana, furono entrambi condannati per omicidio. Iorlando, settantanovenne, fu condannato all'ergastolo; Frank fu condannato alla forca. Nove mesi dopo, Rosie entrò nell'ufficio del giornale del Times-Picayune e ritirò la sua testimonianza. Disse che San Giuseppe le era apparso in un sogno e le aveva detto che doveva dire la verità. Rosie firmò un altro affidavit, dichiarando questa volta di non aver visto i suoi aggressori e di essere stata costretta a identificare i Jordano. Finalmente, nel dicembre del 1920, Iorlando e Frank furono liberati. Siciliani a New Orleans A New Orleans, il French Quarter, la parte più antica della città piena di decrepite case creole, era diventato il quartiere italiano. All'inizio del XX secolo, così tanti siciliani si radunarono nella parte bassa del French Quarter vicino al fiume che l'area da Jackson Square a Esplanade Avenue, tra Decatur e Chartres, era conosciuta come "Little Palermo". Il siciliano Nick La Rocca, con Prima e Roppolo, fece la storia del Jazz. La Rocca, cui si deve non solo l’invenzione della parola “jazz” (in origine jass), ma la rivoluzione del modo stesso d’intendere la musica. Sua l’incisione del primo disco jazz a New Orleans insieme all’Original Dixieland Jass Band, che nel 1917 vendette ben un milione e mezzo di copie. Gli operai siciliani deliziarono i piantatori di zucchero della Louisiana post-emancipazione che li trovarono, come scrisse un impiantatore, "una razza laboriosa, risparmiatrice e contenta di pochi comfort della vita". Negli anni '80 e '90 del XIX secolo, i siciliani affluirono nel porto di New Orleans e dominarono l'immigrazione italiana in Louisiana: oltre l'80 percento degli immigrati italiani che arrivarono a New Orleans erano siciliani. Alcuni rimasero. Nel 1900, la città aveva la più grande comunità italiana del Sud; circa 20.000 (contando i figli degli immigrati) vivevano a New Orleans. Tuttavia, la maggior parte se ne andò per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e cotone, una vita ardua che, tuttavia, offriva loro la possibilità di risparmiare denaro. Un immigrato che risparmiava attentamente il suo salario poteva mettersi in proprio nel giro di pochi anni. Nel 1900, piccole imprese di proprietà degli italiani erano sbocciate in tutta la Louisiana, gli italiani stavano prendendo il controllo del settore degli alimentari. Possedevano solo il 7 per cento dei negozi di alimentari a New Orleans nel 1880. Nel 1900, il 19 per cento era di proprietà italiana, e nel 1920 gestivano la metà di tutti i negozi di alimentari della città. Ma il successo commerciale degli immigrati siciliani non poteva proteggerli dai pregiudizi razziali del Sud degli Stati Uniti. Gli italiani non sostituirono mai completamente il lavoro nero in Louisiana, ma lavorarono al fianco degli afroamericani nei campi. Mentre gli italiani, non comprendendo le gerarchie razziali del Sud, non trovavano nulla di vergognoso in questo, per i bianchi nativi la loro disposizione a farlo li rendeva non migliori dei "neri", dei cinesi o di altri gruppi "non bianchi". I siciliani scuri venivano spesso considerati non bianchi affatto, nient'altro che "dago neri". Un osservatore contemporaneo notò che persino i lavoratori afroamericani distinguevano tra bianchi e italiani e trattavano i loro colleghi con, come lui lo descrisse, "una familiarità talvolta sprezzante, talvolta amichevole, con l'uso del nome di battesimo" che non avrebbero mai osato utilizzare con altri bianchi. L'idea che i "dago" non fossero migliori dei "neri" contribuì all'aumentare del pregiudizio contro gli immigrati italiani negli anni '70 e '80 del XIX secolo. Si trovarono di fronte a sospetti e occasionali linciaggi. Nel 1929, un giudice di New Orleans espresse una visione comune della maggior parte dei siciliani a New Orleans come "di un carattere assolutamente indesiderabile, essendo in gran parte composti dai più viziosi, ignoranti, degradati e sporchi miserabili, con qualcosa in più di una mescolanza dell'elemento criminale." Che fine ha fatto Axeman? L'Axeman scomparve da New Orleans dopo l'attacco ai Cortimiglia. L'ultimo omicidio avvenne poco prima di Halloween nel 1919, poi la carneficina cessò. Tuttavia, prove dai documenti della polizia e resoconti giornalistici mostrano che colpì altrove in Louisiana, uccidendo Joseph Spero e sua figlia ad Alexandria nel dicembre 1920, Giovanni Orlando a DeRidder nel gennaio 1921 e Frank Scalisi a Lake Charles nell'aprile 1921. La sua modalità operativa era la stessa: irrompere in un negozio alimentare italiano nel cuore della notte e attaccare il negoziante e la sua famiglia con la loro stessa ascia. L'Axeman poi sparì dalla storia. Gli italiani di New Orleans no. Continuarono a prosperare. Anche se a causa della crescita dei supermercati scomparvero alla fine i negozi di alimentari di quartiere, loro, come tanti immigrati prima di loro, si integrarono nella società americana mantenendo comunque la propria identità etnica. Fonte: The Axeman of New Orleans: The True Story di Miriam C. Davis
    2 punti
  7. Con il ritorno di moda del vinile, sempre più spesso noi vecchi barbogi cresciuti a base di musica analogica, veniamo interpellatati dalle new entry sul settaggio del giradischi. Vero è che sul web c’è tutto e anche di più, ma nella maggior parte dei casi i sistemi proposti sono idonei per analogisti “scafati” ed a volte sovrabbondanti o poco chiari per chi con il vinile non ha troppa dimestichezza. Visto che tra le “mission” di Melius Club c’è anche quella di avere un occhio di riguardo per le nuove leve, abbiamo pensato di produrre una guida sintetica, facile da usare e consultare, ma non per questo approssimativa, sul settaggio di testina e giradischi. Visto il particolare target cui ci rivolgiamo, abbiamo ridotto al minimo indispensabile le attrezzature da comprare, e siamo partiti dall’ipotesi di parlare a persone che per la prima volta si trovano a dover gestire direttamente un giradischi. Un neofita tipicamente comprerà un giradischi nuovo, preassemblato in fabbrica e spesso tarato dal venditore, ovviamente un prodotto che quando va bene sarà di classe media, diciamo un classico giradischi a cinghia, con braccio e testina MM. Questo ci semplifica la vita, parleremo in una prossima puntata di come abbinare una testina MC ad uno stadio phono. Il travaglio del neofita Allora il nostro neofita, che chiameremo Mario, ha un classico impianto hi-fi composto da un amplificatore, due diffusori, una sorgente digitale e a questo armamentario ha deciso di aggiungere un giradischi, Lo ha scelto con cura, informandosi sul web, nei negozi, leggendo le riviste, parlando con amici, ha ottenuto il placet della componente femminile (madre, moglie, fidanzata, a seconda dei casi) e finalmente lo porta trionfante a casa pronto per l’uso. Ma è davvero pronto? Sul web ne ha letto di cotte e di crude, montare il gira gli sembra ora una cosa astrusa e complicata, una via irta di pericoli, che al confronto mandare una navicella spaziale su Marte pare una passeggiata. Quasi quasi gli vien voglia di desistere e di maledire il momento che ha deciso di passare al vinile, ha mille dubbi, mille paure e soprattutto il timore di procurare danni irreparabili alla testina ed ai preziosi dischi. Calma Mario, le cose non stanno così, quando ero giovane il gira stava in tutte le case, lo usava anche la casalinga di Voghera (termine usato dagli statistici), ti assicuro che non morde e che non ha mai ucciso nessuno. Basta procedere con calma, molta calma, e con metodo. L'ingresso phono Per prima cosa, verifichiamo se il nostro amplificatore ha un ingresso phono. L’ingresso phono è diverso da tutti gli altri (cd, aux, tuner, tape, video, ecc), deve intanto avere un guadagno elevato (visto che il livello del segnale della testina è molto più basso di quello delle altre sorgenti), e poi deve essere equalizzato secondo la curva RIIA. Per i non addetti ai lavori spieghiamo di cosa si tratta. Per motivi inerenti alla incisione del disco, il segnale inciso su vinile viene equalizzato secondo una curva detta RIIA (una curva standardizzata negli anni ‘70 con un accordo tra tutte le case discografiche), quindi al momento dell’ascolto lo stadio phono deve avere al suo interno un circuito che sia speculare alla curva di incisione. Una volta, ossia prima dell’avvento del digitale, praticamente tutti gli ampli integrati e tutti i preamplificatori disponevano di una sezione phono, all’epoca molto curata, essendo il disco nero la fonte di qualità per antonomasia nell’uso casalingo di massa. Ormai da una ventina di anni sono sempre più rari gli ampli dotati di ingresso phono, quindi, caro Mario, prima di sballare il prezioso giradischi leggi con calma le “distruzioni per l’uso” del tuo ampli e controlla che abbia effettivamente una sezione phono, dico questo perché a volte sul pannello frontale c’è tra le sorgenti selezionabili il phono, ma potrebbe essere una comodità per l’utente (per ricordargli dove sta il pre phono esterno o quello interno ma optional). Se la sezione phono è presente, falso allarme possiamo procedere. Se la sezione phono è assente, Mario ferma tutto, e prima di continuare vai a comprare un pre phono. La sistemazione del giradischi Ma restiamo nella ipotesi più favorevole, ossia di pre phono presente all'interno dell’ampli. Come procediamo? Innanzitutto scegliamo un luogo dove posizionare il giradischi: una base stabile, priva il più possibile di vibrazioni, non troppo lontana dall’ingesso phono per non dover utilizzare cavi di segnale troppo lunghi, curando al contempo la distanza dai trasformatori di alimentazione dell’ampli, che potrebbero indurre rumori indesiderati. Un buon trucco è quello di mettere (se tutto va su uno stesso pian di appoggio), il giradischi con il braccio al lato opposto dell’ampli, se invece abbiamo un mobile a colonna evitiamo di posizionare il braccio in asse con i trasformatori di alimentazione dell’ampli. Individuato il luogo e prese le misure, possiamo finalmente procedere a sballare il giradischi ed a montarlo secondo le istruzioni a corredo, che possono variare da gira a gira. Gli attrezzi del mestiere Prima di andare oltre, procuriamoci gli attrezzi minimi necessari per una corretta installazione, non sono tanti, spesso economici e a volte recuperabili a costo zero. Ci serviranno. a) una o più livelle a bolla, perché il gira per funzionare correttamente deve essere messo in bolla. Di livelle a bolla ce ne sono di tutti i tipi e di tutti i prezzi, vanno benissimo in teoria anche quelle da muratore reperibili a poco nelle ferramenta, ma spesso sono poco pratiche da utilizzare perché troppo grandi per l’uso su un gira. Io eviterei anche le bolle di livello marchiate con nomi altisonanti, costano molto e fanno lo stesso lavoro di quelle economiche. Sui siti di vendita on line ce ne sono parecchie, in foto ne mostro alcune a titolo esemplificativo b) un cacciavitino amagnetico (meglio due, uno a taglio ed uno a croce), quasi tutti ne abbiamo più di uno a casa, ma sono facilissimamente reperibili a poco prezzo dappertutto (e fa sempre comodo averli a disposizione); c) una pinzetta di quelli che le signore usano per le ciglia, anche questa di sicuro in casa non manca e se dovesse mancare la si può sempre chiedere in prestito ad una amica (sperando che non equivochi); d) una dima per il corretto montaggio della testina. Di dime ce ne sono moltisime sul mercato, per semplificare, qui possiamo dire che una vale l’altra, io suggerisco di prenderne una classica a due punti, eventualmente la si può anche scaricare da qualche sito web, avendo però cura di effettuare una stampa senza modificare le misure e usando possibilmente cartoncino non troppo leggero; e) uno specchietto o un apposito goniometro per verificare l'allineamento della testina; f) una bilancina per verificare il peso di lettura (anche se di solito i giradischi nuovi hanno scale precise, meglio avere uno strumento ad hoc, a volte poi ci si imbatte in gira privi di una scala graduata); g) un set di vitine di varia lunghezza e relative rondelle, sempre amagnetiche (ottone o inox) meglio ancora se con la testa a brugola, (munitevi della relativa chiavetta) eviterete slabbrature della testa usando le viti con la testa a taglio se scivolasse il cacciavite e otterrete un serraggio più deciso, magari non serviranno ma non si può mai sapere; h) utile ma all’inizio non indispensabile, il disco test di Hi-Fi News (ci sono anche quelli di Ortofon e di Tacet), per un analogista navigato è un must che non dovrebbe mancare, per un neofita una spesa che si può rinviare. Ovviamente se si ha un amico pratico e dotato di tutto l’armamentario sopra descritto, si può fare ricorso al suo ausilio ed alle sue attrezzature, e procedere alla installazione del giradischi senza ulteriori attese (ma poi queste 4 cosette procuratevele, male non fanno, non costano uno sproposito, e nella vita è meglio essere autonomi che dipendere dagli altri). Adesso siamo pronti per procedere e Mario è li che freme di impazienza. Per prima cosa posizioniamo il gira dove abbiamo deciso di metterlo, verifichiamo che le operazioni siano agevoli (mettere in disco, togliere un disco, ecc) e per prima cosa procediamo con la messa in bolla; per fare questo useremo le nostre bolle di livello e poi regoleremo i piedini fino a ottenere il risultato ottimale. Adesso possiamo procedere a collegare il giradischi all’ingresso phono dell’ampli, poniamo attenzione ala corretta polarità (positivo con positivo, negativo con negativo, cavetto di massa del braccio al connettore marcato “GND” sull’ampli). Montiamo la testina Il mio suggerimento è di NON collegare il giradischi alla rete elettrica durante il settaggio della testina, la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo, e il rischio che per l’emozione o la fretta il piatto si metta a girare mentre operiamo con la dima o la bilancina è sicuramente diverso da zero. Quindi calma calma e ancora calma, temiamo il gira non collegato. E sempre per prudenza, teniamo l’amplificatore spento e il selettore degli ingressi non su phono. Adesso dobbiamo procedere a regolare la testina. Se è stata preinstallata in fabbrica o dal venditore, possiamo dare per scontato che l’operazione sia stata fatta bene, quindi possiamo saltare il prossimo capitolo e andare direttamente alla regolazione del peso. Se invece abbiamo una testina di nostra scelta, da installare oppure vogliamo verificare che i settaggi di fabbrica non si siano modificati durante il trasporto o semplicemente vogliamo capire cose si fa, passiamo al capitolo “mettiamo in dima la testina”. Per prima cosa bisogna montare la testina sullo shell. I bracci di una volta avevano di solito shell intercambiabili a standard EIA, questo permette di togliere lo shell, montare la testina e rimontare lo shell senza dover rimovere il braccio dal gira. L’operazione, anche per un neofita, è facile e sicura, e permette di giocare con le testine alternandole, basta avere più shell. I bracci di oggi, per aumentare la rigidità del sistema, hanno invece quasi sempre lo shell fisso, quindi per il montaggio della testina è opportuno rimuovere il braccio dal giradischi. L’operazione di norma è assai semplice, in genere occorre allentare una vite di blocco e sfilare ll braccio. Per sicurezza in questo caso stacchiamo i cavi che dal gira vanno all’ampli, meglio una precauzione in più che una in meno. Per montare la testina, ci servirà un piano di lavoro bene illuminato con tutto il materiale necessario pronto all’uso e facilmente accessibile, pertanto serviranno la testina (ovvio), lo shell (idem), la pinzetta, il cacciavitino o chiavetta a brugola a seconda delle viti reperite, le viti di fissaggio della testina e le relative rondelle. Una volta le testine venivano vendute bene accessoriate (viti di diverse lunghezza, rondelle, pennellino, cacciavitino), oggi la dotazione è ridotta all’osso se ci sono 4 viti e 4 rondelle è grasso che cola. Quindi meglio procurarci un po di viti in più, sia a passo metrico (solitamente M2,5) che a passo americano. Le testine spesso sono dotate di un copripuntina, il mio suggerimento è di lasciarlo inserito fino a che la testina non sia fissata allo shell ed al braccio in posizione di lavoro. Lo rimuoverei solo prima di procedere alla messa in dima ed alla regolazione del peso (sempre per la logica che la prudenza non è mai troppa). Adesso possiamo finalmente cominciare. Per prima cosa colleghiamo i 4 pin della testina con i 4 cavetti dello shell. Quasi tutte le testine hanno i pin contrassegnati con un colore che corrisponde ai colori della 4 pagliuzze dello shell, non ci si può sbagliare se la luce è buona. I colori sono bianco rosso blu e verde, con poca luce blu e verde possono non essere immediatamente distinguibili, ma basta saperlo. Se il cavetto stenta a entrare nel pin, si può con attenzione e l’ausilio di un cacciavitino allargarne poco il connettore, se invece il contatto fosse lasco, si può ovviare stringendo con una pinzetta il connettore sul pin della testina. Il contatto lasco è la prima causa di rumorosità del giradischi, raccomando una particolare attenzione su questo punto (ovviamente senza esagerare). Terminata con successo questa fase del lavoro (Mario, visto che poi non serviva un chirurgo?) andiamo ora a fissare con le viti la testina allo shell. Ogni shell e ogni testina hanno un verso per esempio nei vecchi Thorens e nei Revox è possibile solo inserire la vite dal basso vero l’alto, operazione non permessa da alcune testine. Ma in genere si può procedere in entrambi i modi, a seconda di come stiamo più comodi e di come è strutturato il corpo testina. Va scelta una vite sufficientemente lunga da permettere l’inserimento anche del dado, ma non esageratamente lunga, in questa fase è importante solo che la testina sia fissata con due viti con sicurezza, ma lasciando una certa libertà di movimento, il fissaggio definitivo lo faremo dopo aver completato la messa in dima. Regoliamo l'azimuth e il VTA Adesso però non dimentichiamoci dell’azimuth e del VTA. Per lavorare correttamente il braccio deve essere parallelo al giradischi mentre la testina deve essere allineata con il piatto. Quindi togliamo delicatamente il copristilo, mettiamo un disco NON IMPORTANTE sul piatto e facciamo scendere la testina sui solchi a gira spento. Per prima cosa verifichiamo, magari con l'ausilio di uno specchietto, che la testina sia allineata con il piatto, ossia che non penda verso destra o verso sinistra. Poi verifichiamo il braccio, se siamo fortunati avremo il braccio parallelo, al disco altrimenti dovremo procedere in diversi modi. Il più semplice, ma non tutti i bracci lo permettono, è di variare l’altezza del braccio fino a raggiungere il risultato desiderato. In caso contrario a volte si riesce a risolvere interponendo degli spessorini tra corpo testina e shell, se non si risolve vuol dire semplicemente che la testina non è adatta a quel tipo di braccio (ipotesi abbastanza remota ma non impossibile). A dimostrazione che l'analogico non è una scienza esatta, esistono anche diverse scuole di pensiero che prevedono un braccio non perfettamente allineato con il disco, ma sono soluzioni che vanno sperimentate ad orecchio e sinceramente le sconsiglio ad un neofita, che potrebbe ricavarne più danni che benefici. Se siamo riusciti regolando il braccio ad ottenere il parallelismo braccio testina disco, possiamo tirare un sospiro di sollievo e andare avanti con la regina delle regolazioni, ossia la messa in dima. Mettiamo in dima la testina Per mettere in dima la testina di un giradischi si possono seguire più strade, utilizzare la dima in plastica fornita in dotazione da alcuni giradischi (i vecchi Thorens, alcuni Technics, ecc), utilizzare la dima ad un punto e l’overhang, utilizzare la dima a due punti, utilizzare dime più complesse e costose (dr. Flickert, Project, OMR ecc). Ritengo che per un principiante il sistema della dima a due punti sIa la soluzione migliore perché: a) è universale; b) svincola dalla conoscenza dell’overhang del braccio (dato non sempre fornito); c) è facile da usare senza rischiare di fare danno; d) è economica. Premetto che le dime a due punti non sono tutte uguali, anche se forniscono tutte risultati attendibili. Spesso le problematiche dell’analogico non hanno una sola soluzione, quindi prendiamo la dima che Mario ha recuperato e usiamola senza porci tanti problemi. Il modo di funzionare di tutte le dime a due punti è semplice, si inserisce nel perno del giradischi il foro presente nella dima, si individuano i due punti segnati sulla dima e si fa scendere la puntina sul primo di essi. Quindi si ruota leggermente la testina nello shell (ecco il motivo per non avvitarla a morte) fino a che il corpo testina non sia allineato alla riga della dima che passa per il punto selezionato. Un trucco che spesso funziona è mettere una mina sottile da disegno sullo shell. Fatto questo si ruota la dima e eventualmente anche il braccio e si fa scendere la testina sul secondo punto di riferimento della dima, e si ripete l’operazione precedente. Si continua per tentativi successivi e piccoli aggiustamenti (Mario, non ti spaventare non è un ciclo infinito), in genere dopo 4-5 tentativi si arriva al parallelismo su entrambi i punti. Adesso possiamo stringere bene le viti, avendo cura di non far ruotare lo shell. E’ buona regola verificare nuovamente con la dima per scrupolo che tutto sia a posto dopo aver completato questa operazione. Regoliamo il peso di lettura della testina Ora ci siamo quasi, passiamo alla regolazione del peso della testina. Anche se ogni braccio può fare storia a se, in genere per regolare il peso si opera in questo modo: a) si disinserice l’antiskating (se è magnetico o a molla lo si setta a zero, se è meccanico si toglie il pesetto della regolazione dello stesso); b) si gira il contrappeso grande (di solito cromato o anodizzato) fino a che il sistema braccio testina sia libero di oscillare senza scendere verso il disco e senza volare al cielo. In questo modo abbiamo trovato il punto degli zero grammi; c) adesso, tenendo fermo il contrappeso grande, ruotiamo la ghiera graduata fino a portarla sullo zero (ovviamente se questa ghiera esiste); d) ruotiamo il contrappeso grande insieme alla ghiera graduata fino a trovare il peso raccomandato dal costruttore esempio peso di lettura 2 gr, impostare a 2 gr; e) prendiamo la nostra bilancina e verifichiamo che il peso di lettura impostato corrisponda. Se la bilancina è meccanica (la classica Shure, per esempio) avrà una precisione di circa 0,25 grammi, se elettronica potrà essere precisa al decimo di grammo. Attenzione a come eseguiamo la misura, l’ideale sarebbe avere il piano di lettura all’altezza del piano del disco, ma non sempre questa situazione è fattibile quindi non è detto che la lettura con la bilancina sia perfettamente esatta. Ma se le variazioni sono sotto gli 0,25 grammi, non preoccupiamoci troppo, siamo comunque in una zona di sicurezza. Regoliamo l'antiskating Dopo il peso eccoci all’antiskating, Sull’antiskating si sono scritte pagine e pagine, chi lo ritiene necessario, chi dannoso, chi lo verifica con il disco liscio, chi con l’oscilloscopio (i pignoli, brutta bestia) chi con i dischi test. Per un neofita direi di andare sul pratico ed impostare l’antiskating ad un valore circa uguale a quello del peso di lettura. La forza di skating non è costante, varia con la velocità di incisione del solco e con la distanza solco/perno, a meno di non usare bracci particolari (per esempio il Morsiani), non ci sarà una regolazione dell’antskating perfetta istante per istante, dobbiamo per forza di cose accettare una soluzione approssimativa. Certo si possono usare le tracce apposite del disco test di HiFi News, ma occorre ricordare che l’ultima è incisa in una condizione che non troveremo mai nei nostri dischi musicali, quindi una volta regolato l’antiskating con quel valore, faremo bene a diminuirlo un pochino. La fine del gioco Abbiamo finito? Quasi, Mario, quasi. Adesso verifichiamo di nuovo il parallelismo braccio piatto con il peso impostato, se è tutto ok, direi che ci siamo, possiamo riporre con cura gli attrezzi del mestiere (mi raccomando le viti), ricollegare giradischi ed ampli, attaccare la spina di rete, mettere un disco sul piatto, selezionare phono sul selettore dell’ampli e cominciare ad ascoltare. Un piccolo suggerimento a Mario (ed a tutti i neofiti), fate suonare la testina per almeno una trentina di ore prima di emettere un giudizio e poi (ma meglio prima) procuratevi due “aggeggi” indispensabili, una spazzolina per il vinile ed uno spazzolino per la testina. La polvere è il nemico numero uno del disco nero, la sporcizia può accumularsi nei solchi e essere raccolta dalla puntina, usare il dito per pulirla è poco raccomandabile quindi non dimenticate questi piccoli accessori salvavita. di Enrico Felici
    2 punti
  8. Internet non esisterebbe, quindi le location sarebbero le pagine di una rivista. Il redattore di questa rivista immaginaria è il dott. Spellacane, persona assai competente e gentile nei modi. Il post è la domanda immaginaria di un immaginario lettore del 1970: chi vuole si sostituisca pure al redattore di quella rivista immaginaria e risponda ai nostri Scavacazzi, Scovalonda ed Emittore. Troppo macchinoso? Signori: un po' di fantastoria! "Caro dott. Spellacane, vorrei avere alcuni consigli su quali casse comperare, ho un amplificatore Nikko TRM 600, che ho trovato a buon prezzo presso uno store per le truppe americane. Come giradischi ho un Thorens TD 150, di cui sono soddisfatto, anche se un amico più esperto di me mi ha detto che devo cambiare il braccio. Secondo lei? Attendo la Sua cortese risposta. Erdolindo Scavacazzi Frosinone" "Gent. Ing. Spellacane, Innanzitutto desidero esprimerLe la mia deferenza nei Suoi confronti e se me lo permette, i miei complimenti sinceri per la Sua competenza ed amabilità. Vengo ora al mio quesito di persona ignorante in materia: presso il mio esimio Capufficio ho avuto la gratificante esperienza di ascoltare il suo nuovo complesso stereofonico ad alta fedeltà, voglia credere, per me è stata un'esperienza impagabile. Dato che a breve il mio esimio Direttore mi omaggerà di una sua gradita visita, mi sarebbe cosa gradita che egli trovasse, anche presso la mia pur modesta abitazione, un complesso stereofonico simile al suo, corredato anche dei dischi a lui più graditi. Raggiunto a tal scopo il negozio più accreditato della nostra città, ho chiesto al titolare Eugenio Fottipolli, peraltro persona squisitamente disponibile, un preventivo per un complesso uguale a quello del Capufficio e composto da: Preamplificatore McIntosh C26, amplificatore di potenza McIntosh 2205, casse armoniche JBL L65 "Jubal", Piatto Thorens TD 125 con braccetto SME "lungo". Mi creda, Esimio Ingegnere, che dopo diversi calcoli, quando il Titolare del negozio mi ha comunicato la cifra, mi sono sentito svenire: più di due milioni di lire! Come posso io acquistare, anche a rate un tale complesso stereofonico nonostante il mio pur non disprezzabile stipendio di centotremila lire mensili? Ora mi rivolgo speranzoso a Lei per un consiglio: ho letto che esistono complessini stereofonici giapponesi di buona qualità e allo stesso tempo con prezzi molto più abbordabili, ma io, che sono profano in materia, mi trovo in un tunnel buio: per cortesia, mi aiuti a trovare la luce. Suo sempre devoto estimatore, Ermenegildo Scassapalle" "Chiarissimo Ingegner Spellacane, desidererei chiederLe, da antico appassionato all'alta fedeltà qual modestamente mi picco, a buona ragione, d'essere, una spassionata opinione, da addetto al settore, su un argomento del quale, me lo lasci dire, sapendo di trovarla d'accordo, non si comprende più nulla. E mi consenta di venire subito, nevvero, al punto: non son più di due lustri che si passò dagl'impianti monoaurali, o monofonici come taluni si piccano di dire, è vero, a quelli stereofonici. Personalmente, a me, eziandio all'epoca sembrava nulla più d'un'idea per far pagare il doppio l'apparecchi costringendo il popolino ottuso ed ignorante a comperar due casse (ciò che oggidì i parvenus denominano "diffusori") anziché una, ma feci, come s'usa dire, buon viso a cattivo giuoco. Un mio cugino molto caro, il quale frequentemente si reca in Giappone per ragioni ch'ometterò in questa sede d'elencarle, poiché di nullo interesse pei suoi lettori, mi riferisce che ora, ivi, si preparano degl'impianti "quattrofonici", proprio così mi riferisce. Desideravo dunque domandarle se, secondo la Sua ponderata opinione, quest'idea è cosa intelligente ed utile o trattasi solo d'un'altra machiavellata onde vendere quattro casse anziché due. Che, poscia, cos'altro ancor 'inventeranno? Otto casse? Sei? Anzi no: cinque casse col resto di uno, da sistemare in centro al salone. Ma mi facciano il favore, codesti giapponesi, orsuvvia! Che inoltre, sia detto per inciso, un altro mio cugino, non quello di prima, un altro, m'ha riferito che, sempre i giapponesi, son già all'opera onde progettare un sistema che consentirebbe d'ascoltar la musica coi calcolatori elettronici. A me, lo lasci dire, ciò sembra vieppiù una cretinata (non stampi questo mio futuristico sfogo se non le par d'uopo). Anche perché i miei chiarissimi colleghi ingegneri mi dicono che le dimensioni de' calcolatori, nonché la loro potenza, stanno aumentando a dismisura, tanto che costoro ritengono, non senza ragione s'intende, ch'entro dieci, vent'anni al massimo i macchinari in parola saranno sì ingombranti ed eziandio costosi, nonché richiederanno sì tanta corrente elettrica pel funzionamento, che solo il ristretto novero dell'aziende più floride al mondo potranno permettersi d'acquistarne e mantenerne uno in funzione. Che infine, lo vogliam dire? Son certo che Ella, essendo dei miei tempi, e intendo dire dei bei tempi andati, e ci siamo capiti, nevvero, sarà d'accordo con me! Io, di codesti giapponesi che fino a ieri non sapevano far altro che copiare come delle scimmiette ammaestrate le macchine fotografiche americane, non mi fido punto! E' tutta gente improvvisata che fino a ieri viveva nelle capanne, non è buona ad inventar nulla! Non si vede davvero come potrebbero mai scalzare le gloriose nostre aziende europee, sane, sempre all'avanguardia ma col loro prezioso bagaglio di lunga tradizione. Penso alla Telefunken, o alla Geloso, il nostro orgoglio nazionale, che Dio li benedica! Manca ormai solo che qualche buontempone ci racconti che i cinesi si sono messi a costruire televisioni, o magari automobili e saremmo a posto! Lei, illustrissimo, sinceramente, che pensa di codesta produzione orientale improvvisata e arruffona? La saluto cordialmente. Rag. Cav. Marrone Scassa, Pistolino di Sotto (TO)" "Gentile sig. Scovalonda, è con estremo rammarico che mi preme scriverLe questa lettera per manifestare il mio disappunto avverso certe "politiche retrograde" che con troppa frequenza traspaiono dalle pagine della Vostra peraltro stimatissima rivista. Vi seguo dall'ormai lontano 1966, cioè dall'anno in cui nel negozio "Elettrobighe" di cui sono titolare a Tolmezzo abbiamo deciso di allestire un reparto stereofonia per dare spazio agli ultimi ritrovati pella riproduzione della musica. Non vi nascondo che inizialmente ero contrario nonostante le insistenze di mio figlio Antoncarlo che premeva affinché rinnovassimo il punto vendita, poiché tutto questo parlare di Alta Fedeltà mi pareva una moda passeggera di fronte al solido mercato del frigidaire e della stufa economica. Ma ora, col senno del poi, devo dare ragione ad Antoncarlo poiché la nostra clientela è di molto cresciuta arrivando anche a contare clienti dai comuni di tutto l' Alto Friuli. Ma torniamo a noi: non capisco questa vostra insistenza nel voler elogiare vecchie apparecchiature ormai dichiarate obsolete da tutti gli esperti. Il progresso è progresso, che diamine! I recenti viaggi spaziali ci hanno donato la tecnologia del "transistor" che consente alte potenze con ingombri ridotti e senza la spada di Damocle del dover cambiare le valvole usurate. Un apparato a transistor (lo dicono tutti gli scienziati) è praticamente eterno, e tutte le misure strumentali ci dicono che le prestazioni sono superiori! Allora noi ci chiediamo, egregio Scovalonda, perché non suggerire di abbracciare il progresso senza indugi!? I suoi frequenti elogi di apparecchi pur gloriosi al loro tempo ma oggi ampiamente superati le conferiscono, mi perdoni l'ardire, un'aria da "matusa" poco adatta a questi tempi moderni e giovani che viviamo. Mio figlio è pienamente concorde in questo, e proprio grazie a lui lo scorso anno abbiamo posto in svendita gli ultimi pezzi di amplificazione valvolare che avevamo in negozio con uno sconto del 70% sul listino IGE compresa liberando spazio per gli ultimi arrivi, in specie di alcune case giapponesi che promettono molto bene e a detta di tutti hanno una resa sonora potentissima. Chiudo questa lettera con un consiglio per il nostro esimio cliente Sig. Buttalacqua: passi da noi in negozio, le praticheremo condizioni di favore per un' amplificazione nuova a transistor, e vedrà che ella non rimpiangerà l'ormai obsoleto apparecchio EICO che Le sconsigliamo di riparare, dato il costo esagerato dei ricambi e il valore ormai quasi nullo. Con immutata stima, Geom. Enemonzo Cemutlabighe, Tolmezzo (UD)" "Gent.mo Ing. Germanio Emittore, Le scrivo dopo aver a lungo pensato e ponzato su una scelta da fare. Mi riferisco alla contingenza di dover trovare un paio di altoparlanti da accoppiare all'amplificatore che mio nonno, buon anima, mi ha lasciato in eredità. Pensavo di prendere qualcosa della Philips, ma nel negozio a me vicino mi hanno del tutto sconsigliato. Si tratta di un punto vendita GBC, e lì non hanno roba della Philips. Mi hanno parlato invece molto bene di Peerless. Già: si capisce, loro trattano questo marchio è hanno interesse a vendere Peerless. Io non sono un esperto, e per questo mi rivolgo a Lei. Il negoziante nel consigliarmi delle casse Peerless, anche abbastanza costose (circa 150.000 lire) mi ha anche detto che non potrò aspettarmi dei grandi risultati se le userò con l'amplificatore del mio compianto nonnino. Mi hanno detto di essere anche disposti a ritirarmi (facendo una eccezione alla loro politica di vendita) questo apparecchio, che ho a casa da qualche settimana. Ora appunto aspetto da Lei una risposta. Dimenticavo di dire che amplificatore è quello di cui dispongo. In effetti è assai vecchio ed è separato in due parti (non so nemmeno come si colleghino). Uno, pieno di manopole, riporta scritto sul davanti "Marantz Stereo Console" Model 7. E l'altro non ha scritto niente davanti, è pieno di valvole, e sul retro c'è scritto "Marantz Company" e niente altro. Mio nonno era un grande appassionato melomane, e non credo che a suo tempo abbia fatto un acquisto sprovveduto, ma è anche vero che i tempi cambiano, il progresso incalza e forse il Sony consigliatomi dal negoziante possa essere un gran salto di qualità rispetto a questo vecchio apparecchio del nonno. Dovrei metterci vicino circa 100.000 lire (il Sony costa nuovo 160.000 lire). Quindi in pratica mi valuterebbero l'amplificatore del nonno sulle 60.000 lire. La proposta un po’ mi alletta e un po’ mi insospettisce. Che ne dice Lei, Ingegnere? Rag. Sublimio Polli, Rocca Pelosa (SN)"
    2 punti
  9. Coperchi graffiati si è mai trovata la soluzione definitiva? Fino a ieri non proprio ma da oggi probabilmente si, se non son talmente martoriati da aver strisciato sull’ asfalto lasciando solchi profondi; ma anche per questo grosso problema c'è una valida soluzione che spiegherò in un successivo tutorial che seguirà a questo e si chiamerà parte 2. Ma torniamo agli inizi; nel mio caso qualche settimana fa mi è pervenuto un plinto in ossidiana completo, che aspettavo da un po’ di tempo, utile per inserire un SP10 mk2 appena restaurato. Il venditore mi illustrò con foto le condizioni sia del plinto (che è in attesa di verniciatura causa problemi estetici) che del coperchio, ma nonostante la buona volontà di inviarmi foto fatte con il cellulare riguardo alle abrasioni queste non rispecchiavano la reale gravità quando lo vidi dal vero. Come già accennai il coperchio si presentava molto abraso in tutti i suoi 5 lati, come se si fosse usato per anni lo scotch-brite piuttosto che un panno morbido per passare la polvere. Purtroppo non avendoci pensato in tempo non ho fatto una foto del coperchio appena arrivato con il plinto in quanto ero abbastanza incavolato per la spiacevole sorpresa, ma tutte le foto che seguono sono state scattate dopo aver ritirato il coperchio dal laboratorio per un primo intervento del quale mi accingo a narrare. Non avendo mai visto un coperchio così malconcio e preso dallo sconforto contattai telefonicamente una mia vecchia amica titolare di un laboratorio dove lavorano il plexy spiegando l’accaduto. Fissato un’ appuntamento per portarglielo in visione, mi spiegò che altro non poteva fare se non lucidarlo con dei prodotti specifici sconsigliando la carteggiatura per gradi, in quanto la perdita di tempo tramutata in costo avrebbe fatto lievitare il tutto alle stelle. Accettai mio malgrado perché qualcosa andava fatto non sapendo altrimenti che pesci pigliare, illudendomi che anche su suo incoraggiamento tutto sarebbe scomparso. Qualche giorno dopo mi chiamò e trepidante mi recai all’appuntamento, purtroppo non andò come sperai nel senso che il coperchio consegnatomi appariva si più lucido ma i graffi erano solo attenuati e nuovamente in bella mostra, praticamente erano scomparsi solo quelli leggerissimi e superficiali mentre gli altri di più pronunciata entità si trovavano ancora tutti li assieme a quelli più profondi (passando con un’ unghia gli scalini si sentivano). Pagati 30 euro me ne andai parzialmente soddisfatto ma sconsolato all’idea che avrei dovuto provvedere da me in qualche modo. Così qualche giorno fa approfittando di un’ ordine di prodotti per la cura dell’auto che avevo finito, pensando al coperchio mi misi a cercare qualche prodottino chiamato in termine tecnico compound che sevisse a togliere i difetti delle verniciature sulle carrozzerie che si possono riscontrare a lavoro finito quali ad esempio finiture a buccia d’arancia, gocciolature, segni di carteggiatura o altri inestetismi e, tra decine di prodotti specifici per questi problemi più o meno “strong” optai per un compound che dalle specifiche è ritenuto abbastanza potente (non il più aggressivo) e che non compromette molto lo spessore della vernice con più e più passate, inoltre essendo consigliato anche per superfici dure al di fuori delle verniciature (non si pensi subito alle parti intime di noi maschietti) il mio pensiero finì rivolto proprio al plexyglass. Arrivato il tutto a casa il giorno dopo, lo provai subito su un angolo del plexy comunque segnato da graffi, una passata di 5 minuti senza troppe precauzioni e aveva praticamente fatto sparire tutto ma proprio tutto lasciando solo un graffio più profondo di altri ma ridotto quasi all’invisibilità...rimasi estremamente sorpreso e di stucco, ma già il feedback di altri acquirenti essendo ampiamente positivo riguardo la rimozione di difetti sulle vernici delle auto mi confermò dell' eccezionalità del prodotto. Cosi a conferma della prova oggi complice la giornata uggiosa ho ripetuto il test su un'altra zone del coperchio che illustrerò prima e dopo il passaggio del compound. Ecco come si presentava il dust cover dopo il ritiro dal laboratorio, la foto non evidenzia bene la gravità dei graffi ma garantito che ci sono e si vedono e si sentono passando con le unghie alla grande! ...ma entriamo nei dettagli spostandoci da un punto all’altro della cappa con le macro.... Il test ha inizio... Il prodotto appare della consistenza di una crema, si stende veramente molto bene rimanendo umido a lungo e questo permette di non usare quantità eccessive che anzi sarebbero deleterie; sono sufficienti 2 gocce per iniziare a lavorare e a distribuirlo, per due gocce tanto per capirsi intendo come due chicchi di grano, taglia benissimo le parti difettose che non le copre ma le elimina proprio (ci sono dei compound che al contrario i difetti li camuffano). Le due gocce rendono tantissimo, dopo qualche minuto che passavo la parte, il cotone era ancora umido e solo quando iniziavo ad accorgermi che tendeva un pizzico ad asciugarsi ho aggiunto una goccia per proseguire il lavoro. Non serve pigiare come forsennati a differenza di altri prodotti in quanto risulta efficace già partendo con mano leggera, ma nulla vieta di farlo se si ha voglia di calcare la mano per graffi più profondi, poi si può tranquillamente passare un panno in microfibra senza attendere l’asciugatura del prodotto arrivando a lucidare alla perfezione il pezzo senza generare polvere nel panno o attorno alla parte trattata come fanno altri prodotti. A mio avviso è un prodotto eccellente in quanto rende il lavoro completo, non esige di trattarlo ulteriormente con altri lucidanti o polish di finitura; non lascia nemmeno “swirls” o “ologrammi” guardando in controluce che altrimenti andrebbero corretti successivamente con dei polish e tamponi specifici. Per "swirls" chi non è addentro alle verniciature delle auto si intende quei micro micro micro segni che fanno apparire la vernice in controluce come una tela di ragno ossia con questo problemino.... Quindi per questo test senza calcare la mano passandoci il cotone sul plexy (ma volendo lo si può tranquillamente fare se ci son segni marcati) dopo 5 minuti o poco più il risultato dell’area soggetta alla prova è questo, si notano ancora delle tracce che spariranno completamente insistendo per il tempo necessario ma già il grosso del danno è quasi invisibile La zona trattata una volta che i graffi sono completamente spariti Risultato notevole, no? Si tenga presente che a parte il graffione visibile e abbastanza profondo, gli altri segni che si trovano nella zona non trattata a sx si trovavano esattamente anche nella zona trattata a dx, sono segni di gravità media o medio alta, si sentiva in certi punti lo scalino passandoci con le unghie. Quindi, ricapitolando e facendo una summa della situazione tra tutte le soluzioni consigliate che si leggono in rete e che ho provato ci si può imbattere in questi prodotti: - Sidol - non consigliato; potrebbe limitarsi a lucidare ma non a togliere i graffi anzi, lo considererei un generatore di swirls usandolo sul plexyglass senza contare che ci passereste una vita a togliere qualcosa che assomigli lontanamente ad un graffio. -Dentifricio - abrasività minima, al limite potrebbe togliere aloni e leggermente lucidare dopo una lunga faticata, ma è semplicemente un palliativo economico per tentare risolvere problemi ben più gravi; nulla mi fa pensare sia anch’esso un generatore di swirls nei riguardi del plexyglass non avendo una formulazione studiata per questo genere di materiale tanto meno per le vernici delle auto; volendo esagerare si potrebbe utilizzare anche una scopa invece di una spugna desiderando pulire la carrozzeria dell’auto per fare prima raggiungendo comunque il disastro di avere causato swirls a dismisura. - pasta abrasiva – se non diluita non aggredisce come dovrebbe e per diluirla andrebbe messa della nafta con puzza di conseguenza, è un prodotto abbastanza economico ed ancora viene ampiamente utilizzata nelle carrozzerie appunto per la sua economicità; la usavo anni addietro ma ormai con i nuovi prodotti la ritengo ampiamente superata (Bazza mi contesterà ma non importa) infatti nel barattolo ne ho in abbondaza pur avendola presa secoli fa e non vedo l’ora finisca per non riprenderla mai più. - Ma-Fra rimuovi graffi - buon prodotto da qualche anno sugli scaffali, non presenta odori sgradevoli, di facile applicazione, consistenza media (simil crema Nivea per capirsi) tocca insistere se ci sono segni marcati, tende ad asciugarsi dopo breve tempo ed è necessario riapplicarlo, efficace se si tende a premere il tampone, riesce a mettere anche a lucido la parte trattata ma meglio passarci dei polish in quanto tende a lasciare degli swirls; fino all’altro giorno ho usato questa per i coperchi di plexy, ma non erano in condizioni pietose come quello della prova. La ritengo la naturale evoluzione della pasta abrasiva e con meno controindicazioni ma costa in rapporto alla quantità decisamente di più. - 1Z rimuovi graffi - (o prodotti simili) polish professionale che comprendeva negli anni 80 una linea abbastanza vasta e specifica di prodotti per la cura delle vernici per auto, la lattina va agitata molto bene in quanto il contenuto è composto da polvere abrasiva che depositandosi sul fondo quando non utilizzata deve miscelarsi con l’emulsione (abbastanza scomodo). Questo rimuovi graffi era (ormai è quasi finito) valido per asportare graffi fino ad una certa profondità sulla vernice per auto, ma necessita di un polish di finitura in quanto dopo applicato e steso a regola tendeva a lasciare parecchi swirls e micro graffi che andavano corretti successivamente; provato in passato su plexyglass lasciava segni visibili quindi sconsigliato per chi avendo questo o prodotti simili in casa volesse provarci. Il marchio esiste ancora ma penso non abbia un feed sufficiente ad essere concorrenziale a confronto dei passi avanti ottenuti dalla agguerrita e più tecnologica concorrenza. - Polish – ecco quello che non dovrebbe mancare mai per i maniaci lucidatori folli che vogliono far splendere tutto d’immenso; la caratteristica di questo polish della Meguiars è lucidare (come tutti) ma senza lasciare aloni, ologrammi o swirls dopo averlo passato con un panno in microfibra una volta asciugato per bene; il prodotto non è aggressivo ne abrasivo come i polish venduti nelle ferramenta o brico, anzi la sua composizione risulta delicata sulle vernici, quindi non ci si illuda sia utile a togliere segnetti o microsegni perchè non lo è... proprio volendolo fare tocca insistere abbastanza in quanto non è una sua caratteristica; una nota positiva è il profumo che emana, non sembra affatto che questo polish sia stato sviluppato per l’auto ma piuttosto per la cura del viso. Utile per una passata alla cappa se si vuole aggiungere un paio di gloss in più dopo il compound ma senza pretendere la luna in quanto il compound, se scelto delle giuste caratteristiche, già luciderà di suo senza ulteriori polish aggiunti (almeno per quanto riguarda la cappa) oppure in alternativa può rendersi utile una volta ogni tanto per una rinfrescata se la cappa risultasse non splendente come da nuova; se in casa ne avete di altre marche fate un test in qualche punto, poi se i risultati son del tutto positivi (mancanza di swirls visibili in controluce) usateli tranquillamente in alternativa a questo. Ed infine the winner is..... - Scholl S3 Gold XXL Questo è il prodotto che ho usato e che ha risolto “quasi” (poi spiegherò perché li ha quasi risolti) del tutto i problemi della mia cappa, le performaces le ho elencate precedentemente, aggiungo solo che i segni di grana 1500 vengono tranquillamente rimossi in pochi secondi, genera pochissimo calore (il calore è dannoso per le vernici trasparenti quando viene utilizzato per la lucidatura), non presenta odori sgradevoli durante l’uso e oltre ad essere consigliato per lucidatura con utensili rotorbitali e indicato pure per la lucidatura manuale cosa che a me interessava. Effetti collaterali? Si, non usarlo assolutamente venisse la sciagurata tentazione di lucidare la plastica protettiva della strumentazione del cruscotto o altre plastiche simili, causereste un autentico disastro. Aggiungerei che la Scholl nome sconosciuto ai più ma specializzata in prodotti per auto di lunghissima data, offre decine di prodotti ognuno specifico per un determinato problema; questo che ho scelto non è il compound più potente del marchio ma lo è a confronto con altri. Scholl fa parte insieme ad un nutrito gruppo di marchi del fiore all’occhiello di un negozio conosciuto a livello nazionale dedicato esclusivamente alla cura dell’auto e della moto. Questo negozio fornitissimo offre tutto quanto serve agli appassionati dell’auto e anche se non ci crederete esite una nutritissima platea di appassionati che si dedicano al mantenimento estetico dell’auto curandola tanto quanto noi per gli impianti hi-fi. Paragonando le nostre manie per l’audio ecco che per l’auto e la sua cura esistono altri appassionati fuori di testa, quindi questo negozio fornisce l’impossibile per ogni esigenza oltre gestire un bel forum all’interno del portale dove numerosi appassionati si danno consigli a vicenda come accade qui da noi. Il portale dove ho comperato il prodotto si chiama “la cura dell’auto” spediscono solitamente il giorno dopo l’ordine e ovviamente il pagamento, non mi risulta esiste ordine minimo, la spedizione costa 6 euro per tutta Italia, (non saprei per le isole) sono seri e affidabili (sono anni che compero da loro), ma lo Sholl si può trovare anche su Amazon. Quanto costa il prodotto in prova? Tantissimo tanto quanto un cavo eso ma ne vale la pena visti i risultati.... si può scegliere tra 4 formati: 250 ml 16.95€ (prezzo da aggiornare) 500 ml 26.72€ (prezzo da aggiornare) 1kg 39.96€ (prezzo da aggiornare) 5kg 179.95€ (prezzo da aggiornare) Nel mio caso non conoscendo quanto rendesse il prodotto ho preferito acquistare quello da 500 ml. così anche mi avanzasse potrò usarlo fosse la necessità anche per l’auto, ma volendo rischiare solo per la cappa potrebbe essere sufficiente quello da 250 ml.; ovviamene più la confezione è grande e meno costa. Una carrellata dei prodotti usati in passato e attuali.... .... e vari tamponi e panni per la lucidatura e la pulizia A questo punto si potrebbe affermare che il test è concluso? In teoria SI visto il risultato, ma in pratica NO. Infatti il grosso graffio non è eliminabile completamente dal compound e, visti i risultati eccezionali che rimetterebbero completamente a nuovo il coperchio, conoscendomi, non me la sento dopo ulteriori passate anche fosse attenuatissimo di tenerlo così, per cui volendo fare il lavoro di fino e come Dio comanda utilizzerò varie grane di carta abrasiva ad acqua passando dalla 600 via via fino alla 2000 e una volta eliminato completamente utilizzare lo Scholl per riportare tutto a lucido come si deve. Ma questa è un’altra storia che finirà allegata nel tutorial che dedicherò più avanti. Quindi concludendo: se il coperchio originale non fosse rotto e con pezzi mancanti oppure incrinato si può tranquillamente rimetterlo a NUOVO con un po' di pazienza e di tempo seguendo questo tutorial o, malauguratamente si fosse graffiato più in profondità basterà seguire il secondo tutorial che pubblicherò a breve che lo riporterà esattamente come uscito dal fabbricante. Stay tuned. parte dei materiali che serviranno per la carteggiatura a fondo utilizzati nel secondo tutorial
    2 punti
  10. Don Was scolò la sua pinta di caffè, con molto zucchero, panna e crema di latte, guardando attraverso i vetri del suo ufficio nella Fifth Avenue. Don era il boss della mitica Blue Note Records e aveva un chiodo fisso: come far capire agli audiofili italiani che c'è ancora vita oltre Diana Krall. Accese uno strano sigaro e chiamò il suo fido braccio destro Justin Seltzer, lui avrebbe trovato la soluzione, senza dubbio. La soluzione doveva essere donna, giovane e bella, ma di una bellezza fulminante (gli italiani... li conosciamo, pensò Don), doveva avere una voce da mettere in difficoltà i midrange più blasonati e doveva suonare il pianoforte... come Diana! Magari, con l'occasione, si pesca anche una nuova star della scena jazz internazionale. Chissà, con un po' di fortuna... Don (nella foto), Justin e soprattutto Kandace mi perdoneranno l'introduzione davvero poco seria che - in un certo senso - hanno però meritato, perché? lo scopriremo solo leggendo. Kandace Springs La vita serve alla piccola Kandace un tris d'assi: viene alla luce a Nashville, Tennessee, fin da piccola mostra un gran talento per il pianoforte, il padre fa il cantante, ha collaborato con Aretha Franklin, Donna Summer e Chaka Khan... e lo chiamano "Scat" (per chi non lo sapesse, lo scat è una tecnica di canto inventata - si dice - da Louis Armstrong e glorificata da Ella Fitzgerald). Incidentalmente, Kandace crescendo diventa anche una gran bella ragazza, il quarto asso. A soli diciassette anni registra un demo che - girando girando - finirà sulla scrivania di Don Was, il potente presidente della Blue Note Records. E così, dopo un po' di gavetta, a meno di 25 anni Kandace si ritrova sotto contratto con la casa discografica che da ottant'anni è il punto di riferimento nel mondo del jazz. Debutta con un EP che viene notato nientemeno che da Prince (il quinto asso di Kandace?) che la invita ad esibirsi con lui in un concerto al Paisley Park per il trentesimo anniversario di Purple Rain. Più o meno a quel tempo, Kandace aveva questo look, molto "Prince". La carriera A soli 25 anni la sua carriera è già su buoni binari, Kandace mostra una voce davvero particolare, ampia, completa, sensuale. Si esibisce negli USA ed in Europa cantando sia grandi jazz stardard che qualche interessante pezzo di sua composizione tra jazz, soul e R&B. Nel 2016 pubblica Soul Eyes, prodotto da Larry Klein (già con Herbie Hancock, Joni Mitchell e Tracy Chapman) che - pur mostrando a tratti una certa immaturità - viene accolto dalla critica con molto favore, definito un disco di coffeehouse smooth soul. Le tracce si svolgono sempre pendolando tra jazz, soul e pop, personalmente su tutti i brani ho preferito la cover di "The World Is a Ghetto" dei War, brano che amo particolarmente. Il disco viene pubblicato su CD e vinile [ASIN: ‎ B01EJQ097Y] Nel 2018 è la volta di Indigo, vi raccomando di fare clic ed ascoltare "6 8" di Gabriel Garzon-Montan, non solo ascoltare ma anche osservare la presenza scenica che nel frattempo ha acquisito la giovane Kandace. Prodotto quasi interamente dal batterista e percussionista Karriem Riggins, nel disco convivono influenze diverse, da Rachmaninoff ai Portishead e Sade. Per questo si è scelto di non avere formazione stabile, sono state assemblate varie formazioni per personalizzare l'atmosfera delle otto composizioni co-create dalla Spring come delle cover. Kandace si conferma capace di passare con leggerezza dal jazz contemporaneo al pop di qualità, Indigo non è proprio un disco per integralisti del jazz comunque MOJO gli conferisce il massimo dei voti e Kandance diventa la reginetta del Nu Soul/Pop. Il disco viene pubblicato su CD e vinile [ASIN : ‎ B07F54P3JW]. The Women Who Raised Me E veniamo ad oggi. "Le donne che mi hanno cresciuto" è un tributo di Kandance alle cantanti che più ne hanno influenzato lo stile e la musica: Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Astrud Gilberto, Roberta Flack, Diana Krall, e così via. Contiene quindi alcuni classici celeberrimi della storia del jazz: da Angel Eyes a What Are You Doing The Rest Of Your Life, da Gentle Rain a I Put A Spell On You. Lei canta e suona pianoforte e piano elettrico Rhodes e Wurlitzer, la band che la accompagna è di alto livello: Steve Cardenas, Scott Colley e Clarence Penn, in più l’album è ricco di ospiti prestigiosi come Norah Jones, Chris Potter, Avishai Cohen, Christian McBride e David Sanborn. Con The Women Who Raised Me, Kandace Springs ha sorprendentemente accantonato il soul e l'R&B per il jazz classico, sia pure interpretato con personalità. Un jazz destinato al largo pubblico, patinato e con una formula collaudata: grandi standards, originale interpretazione, ospiti di gran calibro, evidentemente Don Was ha deciso di creare la Diana Krall dei prossimi 20 anni. L'album è stato registrato quasi interamente in presa diretta: “Praticamente tutto ciò che ascolti è dal vivo, ed è simile al primo disco che ho realizzato, dove ci guardavamo tutti in un grande studio, in stile vecchia scuola, che mi piace. Penso che ci sia più magia in questo modo.” Il master è di Bernie Grundman, missato da Tim Palmer, l'album è stato pubblicato in CD, doppio LP e digitale HD. Oggi, alla soglia dei 32 anni, Kandace ha questo look anni '40, sdraiata sul piano, decisamente diverso dal precedente. C'è ancora vita oltre Diana Krall Il disco mette subito le cose in chiaro, quando nel primo brano Christian McBride spara le fondamentali a 40 Hz nello stomaco dell'ascoltatore, con pure i 32 Hz ben presenti al loro posto. Questo è uno di quei dischi che, alle mostre, passando nel corridoio lo senti suonare e devi per forza entrare in saletta, la qualità tecnica è di riferimento: estensione, dettaglio, microdinamica, trasparenza, realismo, c'è di tutto e di più. Ecco quindi svelato il gioco iniziale: The Women Who Raised Me di Kandace Springs ha tutti i requisiti per diventare il nuovo disco di riferimento per gli ascolti di jazz con voce femminile. E' bella musica, di quella che piace a tutti ma non per questo priva di valore artistico, anzi. Insomma, non è un disco da demo audiofila ma è perfettamente in grado di farlo. Per me un must-have, fatemi sapere la vostra. Tracklist: 1. Devil May Care (Feat. Christian McBride) 2. Angel Eyes (Feat. Norah Jones) 3. I Put A Spell On You (Feat. David Sanborn) 4. Pearls (Feat. Avishai Cohen) 5. Ex-Factor (Feat. Elena Pinderhughes) 6. I Can't Make You Love Me (Feat. Avishai Cohen) 7. Gentle Rain (Feat. Chris Potter) 8. Solitude (Feat. Chris Potter) 9. The Nearness Of You 10. What Are You Doing The Rest Of Your Life 11. Killing Me Softly With His Song (Feat. Elena Pinderhughes) 12. Strange Fruit - Verifica la disponibilità su Amazon - Ascolta gratis su OpenSpotify - Guarda su YouTube
    1 punto
  11. Insofferente alle relazioni pubbliche, nauseato dalla stupidità umana, il volto di Ludwig van Beethoven assume i contorni di una maschera intrisa di tristezza e amarezza. Ma un divertimento umano, non titanico, lo si ritrova in due composizioni, antitetiche e simili allo stesso tempo. Chiunque abbia un minimo di conoscenza delle vicende biografiche di Beethoven fa indubbiamente fatica nell’immaginare il gigante di Bonn mentre sorride o, meglio, ride di cuore. L’apporto biografico, a cominciare dalle prime testimonianze sulla sua vita scritte da un fedele amico del compositore, Anton Felix Schindler, nel 1840, a diciassette anni dalla morte del compositore, tende a raffigurare Beethoven scolpito in un’espressione perennemente accigliata, pronto alla collera, a inveire contro quei “filistei” capaci soltanto di minare la sua tranquillità e il suo silenzio innaturale, straziante, provocato da quella sordità che lo afflisse per buona parte della sua infelice esistenza. Insofferente alle relazioni pubbliche, nauseato dalla stupidità umana (eppure quanto soffrì a causa della solitudine nella quale si relegò, malgré soi!), il volto di Beethoven, come ce lo hanno tramandato dipinti e sculture, assume i contorni di una maschera intrisa di tristezza e amarezza. Beethoven non sorrideva quasi mai e la sua risata era sconosciuta perfino nella cerchia dei suoi amici (ossia coloro che riuscivano a sopportare meglio gli effetti nefasti del suo carattere) più intimi. Il suo divertimento riuscì a manifestarlo solo nei pensieri e nella sua musica: un divertimento scevro dalla drammaticità, dalla tragicità di cui sono imbevute le sue pagine più celebri e immortali. A tale proposito, un divertimento umano, non titanico, non stravolto dalle dimensioni eroiche e sovrumane della sua visione del mondo, lo si ritrova soprattutto in due composizioni, antitetiche e simili allo stesso tempo, il concerto per violino, violoncello e pianoforte in do maggiore op. 56 (il celeberrimo “Triplo concerto”) e il trio per violino, violoncello e pianoforte in si bemolle maggiore op. 97 (detto dell’“Arciduca”, visto che fu dedicato appunto all’arciduca Rodolfo d’Asburgo, suo allievo e uno dei suoi principali mecenati). Il concerto in questione è del 1804, successivo di circa due anni alla stesura del tremendo Testamento di Heiligenstadt (nel quale Beethoven, rivolgendosi ai fratelli, preannunciava di farla finita con la vita per via di quella sordità che lo aveva aggredito l’anno precedente), mentre il trio è posteriore di sette anni e che coincide con un altro momento oscuro (quanti ce ne furono!) della sua vita, un periodo nel quale il genio di Bonn compose poco o punto, angustiato dall’incomprensione della quale si sentiva circondato e dai crucci causati dagli immancabili problemi economici. Eppure, le due tonalità scelte, quella del do maggiore (simbolo di quella solarità così agognata dal compositore) e del si bemolle maggiore (dal sapore empireo, mercuriale, nella quale la gaiezza si scopre inscindibile dalla cupezza che farcisce l’animo dell’artista) risultano emblematiche: anche Beethoven, dopotutto, sa sorridere e, a volte, ridere di cuore. Ora, queste due pagine meravigliose vengono proposte da un disco SACD dell’etichetta discografica olandese Challenge Classics, che vede la partecipazione del giovane Storioni Trio (formato da Bart van de Roer al fortepiano, da Wouter Vossen al violino e dal fratello Marc Vossen al violoncello), accompagnato dagli elementi della Netherlands Symphony Orchestra, diretta da Jan Willem de Vriend. Come da tradizione della terra d’Orange, le interpretazioni del concerto e del trio sono condotte sul piano filologico (gli strumenti ad arco dei fratelli Vossen, il violino è un Lautentius Storioni del 1794, da qui il nome dello stesso Trio, e il violoncello è un Giovanni Grancino del 1700, hanno corde di budello, mentre il fortepiano di de Roer è un magnifico Salvatore Lagrassa del 1815, e non Lagrasse com’è scritto nel booklet del disco). Il già citato Schindler nella sua biografia beethoveniana ci ricorda che la partitura pianistica del “Triplo concerto” Beethoven la compose proprio per il principe Rodolfo d’Asburgo, ultimogenito dell’imperatore Leopoldo II. Affermazione, questa, alquanto bislacca, visto che a quell’epoca l’arciduca, sebbene fosse uno degli allievi più dotati del compositore, aveva soltanto sedici anni e sebbene il ruolo rivestito dal pianoforte nel concerto non sia così arduo, come quelli riservati al violino e al violoncello, resta alquanto improbabile che Beethoven lo abbia scritto pensando proprio al suo giovane, aristocratico discepolo. Tant’è vero che il concerto stesso, stampato nel 1807, fu poi dedicato a un altro dei grandi mecenati del gigante di Bonn, il principe Lobkowitz. Mentre, è fuor di dubbio che il trio cameristico op. 97 fu effettivamente dedicato da Beethoven proprio al suo giovane allievo. Ultimato nel difficile 1811, il “Trio dell’Arciduca” fu eseguito per la prima volta tre anni dopo, l’11 aprile 1814, a Vienna, nella hall dell’albergo Zum Römischen Kaiser. Nonostante lo stato quasi assoluto di sordità, Beethoven volle suonare la parte del pianoforte, mentre quella del violino toccò al fedele Ignaz Schuppanzigh (uno dei più raffinati e preparati violinisti di quel tempo) e quella del violoncello a Josef Linke. L’esito di quell’interpretazione, a causa della presenza di Beethoven, fu catastrofico. Tra i presenti, quella sera, ci fu anche il violinista e compositore Louis Spohr, il quale ci ha lasciato una dolorosa testimonianza di quell’esecuzione e soprattutto di ciò che combinò il «povero sordo», come lo definì testualmente. Non potendo sentire assolutamente nulla, quando sullo spartito era segnato un “forte”, per essere sicuro del risultato, Beethoven pestò sulla tastiera a un punto tale che lo strumento prese a gemere, mentre quando un passaggio era contrassegnato “piano”, il tocco del compositore fu così lieve che i presenti non riuscirono a sentire il minimo suono provenire dal pianoforte. Dopo quella sciagurata serata, il genio di Bonn comprese che ormai la sordità non gli avrebbe più potuto permettere di suonare in pubblico. E quella del “Trio dell’Arciduca” fu dunque l’ultima esecuzione alla quale Beethoven prese parte come interprete. (continua) di Andrea Bedetti [Fai clic qui per leggere la seconda parte]
    1 punto
Questa classifica è impostata su Roma/GMT+02:00
×
×
  • Crea Nuovo...